I potentati locali e il mancato ruolo dei partiti

1 gennaio 2014
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Dico la mia sulla vicenda regionale, tentando di far chiarezza innanzitutto a me stesso. Perciò sarò  schematico e me ne scuso con i lettori. L'intervista a La Sicilia di Ernesto Galli della Loggia non conteneva novità rilevanti, se si guarda appena oltre i titoli ad effetto. Essa  da un lato si inserisce nella battaglia culturale che lo studioso  romano va da un pezzo conducendo per estendere all'ordinamento regionale la  polemica contro le istituzioni che sprecano risorse, dall'altro si ricollega all'idea, lanciata qualche tempo fa sul Corriere della Sera, che l'Italia ha  bisogno di un “capo “.  Lo dice chiaramente all'intervistatore quando mette in evidenza la sua critica alle regioni: egli ritiene che sia necessario per la democrazia italiana  recuperare “la dimensione nazional-statale ” (Corriere della Sera 6/2/12).  Già il 1 ottobre 2013,  appena esploso il caso della ex presidente della Regione Umbria) nel definire la condizione delle classi dirigenti locali, lo storico aveva  affermato che in seguito alla “ disintegrazione degli apparati centrali dei partiti insieme al venir meno di ogni loro reale funzione di indirizzo e controllo...ciò che resta dei partiti è ormai solo una serie di autonomi potentati locali; (da qui) il rafforzamento che ciò ha prodotto dell'antica inestirpabile tradizione oligarchica a base di famiglie, clan, conventicole, vera anima e peste della dimensione locale....e infine l'aumento di competenze e risorse piovute a livello locale per effetto dell'allargamento dei poteri specie dell'ente regionale, le quali soprattutto in tempo di crisi hanno accresciuto di molto l'influenza di quest'ultimo”. L'istituto regionale, certamente,  non gode di buona salute non solo e non tanto per le inchieste giudiziarie che riguardano in molte (troppe) regioni le spese del ceto politico a carico del pubblico erario, ma perché gli errori che si fecero nella riforma del titolo V della Costituzione hanno ulteriormente appesantito la condizione finanziaria delle regioni e hanno complicato oltremisura , soprattutto a causa del ritardo nella riforma degli enti locali,  il rapporto tra Stato, regioni ed enti locali. Ma da qui a dar fiato all'ipotesi di una ricentralizzazione   in chiave nazional-statale ce ne corre. Ignoro da che scaturisca l'intervista, ma  al nostro non deve esser sembrato vero poter metter la pietra tombale sulla  più discussa delle esperienze regionali, quell'autonomia speciale siciliana che pretese per sé la funzione di laboratorio politico per il Paese intero, affondò nelle sabbie mobili del cuffarismo e del lombardismo e vive ora l'interessante ma contraddittoria stagione del “marziano” Crocetta. Il presidente risponde piccato che Galli, scrivendo da Milano, non capisce che la Giunta di governo sta “bonificando la palude” ed elenca i meriti suoi e dei suoi collaboratori.  Neanche sospetta, però, l'ottimo inquilino di palazzo d'Orleans (teniamocelo stretto perché il futuro potrebbe diventar nero) che per l'illustre storico lui rappresenta solo un epifenomeno. L'obiettivo da colpire è ben altro: è l'ordinamento regionale attaccato da uno dei punti di maggiore criticità che ha anticipato ed enfatizzato  con i suoi comportamenti le nefandezze che oggi tutti denunciano. Mi astengo dal dire ciò che penso dell'intervista di Crocetta  perché purtroppo, nella situazione siciliana in cui si viene iscritti d'ufficio al partito dei “pro” o dei “contro”, è negata a priori ogni possibilità di ragionare nel merito sui singoli atti di un governo che  sta compiendo un serio sforzo di rinnovamento delle strutture burocratiche regionali, ma rischia di impantanarsi proprio nella palude che sta tentando di bonificare. Mi rivolgo, invece, a Ivan Lo  Bello, con il quale da tempo condivido codici linguistici che mi consentono di affrontare,  senza temere equivoci, questioni complesse. Sottoscrivo  la necessità di rimetter mano allo Statuto, recuperando l'occasione persa all'inizio del nuovo secolo, ma pensi davvero che il problema della Regione oggi sia una rivisitazione dello Statuto per dar più poteri al presidente? La frammentazione del quadro assembleare deriva dal combinato disposto tra la sostanziale scomparsa dei partiti come soggetti capaci di organizzare la domanda politica e una legge elettorale che ha funzionato con presidenti eletti con larghe maggioranze, ma non poteva garantire stabilità con i risultati dell'ottobre 2012. Inoltre  l'elezione dell'Assemblea con un meccanismo proporzionale su collegi provinciali a preferenza unica, in assenza dei partiti forti, enfatizza le tendenze personalistiche. Sono questioni che si risolvono con un premio di maggioranza? Ne dubito. A me il problema sembra   interno alla vicenda che si è sviluppata dalle elezioni regionali ad oggi. Utilizzo l'esempio delle province, nel quale – se mi consenti una battuta- si conferma come il dramma delle rivoluzioni sia pretendere di far ripartire il calendario dal primo brumaio.  L'art.15 dello Statuto era stato concepito con l'obiettivo di “cancellare la provincia per liberare l'isola dal prefetto giolittiano e fascista” (G. Giarrizzo,   Sicilia oggi in Storia d'Italia, La Sicilia pag. 609). Le cose, come sappiamo, andarono in direzione opposta e, dopo diversi tentativi a vuoto, con la legge 9/86 la Sicilia mise mano alla costruzione delle province regionali e della cosiddetta provincia metropolitana che anticipava, seppur con molti limiti, il tema della città metropolitana e che restò- in questa seconda parte -del tutto inattuata. Che il sistema delle Autonomie locali necessiti in tutta Italia di una complessiva risistemazione, soprattutto per superare la crescente confusione che nel territorio si è creata tra gli organismi di rappresentanza elettiva (di cui vanno evitate le sovrapposizioni) e la miriade di consorzi che gestiscono i servizi, è detto con grande chiarezza nella Relazione che accompagna il disegno di legge Del Rio. Il punto di vista da cui viene abitualmente affrontata la questione  dello scioglimento delle province - la necessità di tagliare i costi della politica- coglie solo un aspetto della questione che si risolverebbe facilmente abolendo l'elezione diretta dei Consigli provinciali e del presidente. Con  ciò, tuttavia,  non si   affronteranno i temi  del riassetto dei poteri  e delle funzioni di rappresentanza nel territorio, se non si interverrà a ridisegnare un ordito che non lasci vuoti istituzionali e metta in discussione interessi non sempre legittimi che si sono consolidati in questi anni.  I processi di  cambiamento - tu hai avuto il coraggio di realizzarli in Confindustria Sicilia- non sono mai “pranzi di gala”; scontano resistenze ed impopolarità. Questo è stato l'errore della legge 7/13: un provvedimento- manifesto che rinviava tutto al futuro, lasciando il tempo a forze diverse di coalizzarsi nella difesa dello stato di cose esistente. Da qui nasce il tragicomico voto dell'ARS del 28 dicembre. Nel frattempo rischia di venir affossata anche la legge sulle città metropolitane che è un nodo essenziale per il riassetto delle istituzioni democratiche nel territorio; non tanto perché le aree metropolitane gestiranno una quota delle risorse  del prossimo ciclo di programmazione dei fondi strutturali ma perché la ridefinizione delle funzioni, delle competenze, delle risorse, del rapporto con le Regione verso l'alto e con gli enti d'ambito verso il basso sarà la cartina di tornasole per realizzare in Sicilia esperienze reali di democrazia partecipativa. Parliamo, cioè, di ridisegnare la democrazia come corpo sociale ed istituzionale vivente, non dell'aspirazione di questo o quel comune a diventare capofila di un libero consorzio nell'antica, dissennata  logica  del localismo. Anche per questo non ci si può limitare a cambiare nome alla “cosa” lasciandola esattamente com'era; allora  è molto più limpida la soluzione di limitarsi esplicitamente ad abolire i consigli ed i presidenti elettivi. Ma non si può neanche lisciare il pelo al peggiore localismo fissando un numero di abitanti tanto basso che ogni potentato locale possa costruirsi il libero consorzio a sua misura. E, ancora, come si redistribuiranno funzioni, risorse e personale - sono sono donne ed uomini non numeri- tra le città metropolitane, i consorzi e la Regione?  Tutto ciò avverrà dentro  una strategia di progressivo alleggerimento delle funzioni di gestione diretta da parte della Regione verso il territorio, oppure tornando al vecchio centralismo palermitano da “quasi Stato”?   A  me sembrano questi i punti dirimenti. Mi sarò distratto, ma non mi pare abbiano avuto centralità nel discorso pubblico.  Hai ragione, non si governa con il trasformismo e con le maggioranze variabili: ma non era  evidente già al momento della costituzione di questo governo regionale? I deputati rappresentano la domanda politica che proviene dalla società siciliana  e di essa non sono né meglio né peggio. Tale è la creta con cui si deve impastare e nella storia dell'Autonomia, francamente, c'è stato di peggio. Il nodo gordiano è come ridiamo dignità e capacità di risposta alle rappresentanze, altrimenti, come ci ricorda un vecchio protagonista dello sviluppo economico e sociale, Giuseppe  De Rita, rischiamo di far “aumentare a dismisura la solitudine di tutti i soggetti sociali (cittadini, lavoratori, imprenditori che siano) con una conseguente grande poltiglia antropologica... e solitudine individuale.. (che porterà) infine ...alla disperata ricerca di una personalizzata e verticistica leadership in cui riconoscersi”  Non ho capito se è ciò che vuole Galli della Loggia: per quanto mi riguarda  sarebbe un ben triste epilogo delle nostre storie e delle nostre culture.  

 di Franco Garufi

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