I pizzini digitali dei boss nell'era del web

Società | 1 marzo 2015
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Le cronache giudiziarie mostrano come pure i boss, vecchi e nuovi, hanno popolato i social network. Non solo giovani rampolli – ultimo è il caso di Domenico Palazzotto, capomafia dell’Arenella, arrestato nell’operazione Apocalisse del giugno scorso – ma anche mafiosi del calibro di Vito Roberto Palazzolo hanno ceduto alla rete. È tramite il proprio profilo facebook  che Palazzotto comunica la sua nomina al rango di capo, mentre Salvatore D’Alessandro racconta, sempre dalla bacheca del famoso social network, il suo impegno per guadagnarsi spazio nella gerarchia mafiosa. Il popolo della mafia 2.0, dunque, sembra lontano dai pizzini dell’era Provenzano, oggi in parte sostituiti dai “pizzini digitali”.

Come i SN hanno cambiato le strategie comunicative e relazionali, i processi di legittimazione e di costruzione del consenso e il modo di fare affari dei boss? Abbiamo chiesto una analisi di questi mutamenti alla sociologa Alessandra Dino dell’Università di Palermo.

 

L’approdo dei boss nei SN ha modificato le strategie comunicative degli uomini d’onore e, quindi, i processi di costruzione del consenso?


Vorrei subito sottolineare quanto sia importante la dimensione comunicativa per le organizzazioni criminali mafiose, laddove la costruzione della propria immagine pubblica e, quindi, del consenso e la desiderabilità dell’appartenenza alle singole mafie si costruisce attraverso la comunicazione: il gruppo criminale diventa quasi un brand garante di affidabilità sia per le nuove affiliazioni sia per importanti affari sui mercati transnazionali. L’uso selettivo dei mezzi di comunicazione e la costruzione attenta della propria immagine pubblica servono per accreditare le mafie nei confronti dei propri adepti e nei confronti dei propri partner “esterni”: politici, imprenditori o altri soggetti delle istituzioni. È questa la ragione per la quale, nel corso del tempo, le mafie hanno individuato e scelto differenti strumenti comunicativi valutando di volta in volta, quali di essi potessero risultare più funzionali, nei diversi contesti, per raggiungere gli obiettivi desiderati.

Per questo, l’analisi delle prassi comunicative è determinante per comprendere i processi di “messa in forma” del mondo mafioso. Una messa in forma che ridefinisce l’immagine del sodalizio al suo interno e contribuisce ad adattarla all’immagine riflessa all’esterno. Un processo circolare nel quale la dimensione linguistica apre a plurime istanze significative, mentre sperimenta uno scambio dialettico capace di creare credibilità, segreto, consenso.

Osserviamo le differenze nell’uso dei mezzi di comunicazione e negli stili comunicativi (oltre che nei contenuti veicolati), tra Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. Il primo – per ragioni di sicurezza e di necessità connesse alla sua latitanza – utilizza brevi pizzini scritti, nei quali – facendo ampio ricorso alla Bibbia e al linguaggio religioso – nel trasferire informazioni “tecniche” fornisce una identità rinnovata all’organizzazione, in crisi di consenso e lacerata al suo interno dopo l’esperienza delle stragi. Matteo Messina Denaro, invece, nella corrispondenza con Antonio Vaccarino, sembra avere come principale obiettivo quello di far conoscere le caratteristiche della sua leadership, disegnando una nuova immagine di Cosa  Nostra che non tratta più con i politici, ma con gli imprenditori; che è diventata laica e che ha sostituito alla simbologia religiosa le citazioni dotte di Pennac, Jorge Amado e Toni Negri. Gli inquirenti hanno addirittura ipotizzato che si sia servito di un consulente per la comunicazione.

Parlando invece dei SN, possiamo ricordare i casi di Domenico Palazzotto e Vito Roberto Palazzolo, peraltro molto diversi  tra di loro. Per quel che è dato di sapere dalla cronaca, Palazzolo fa un uso di Facebook da una parte più “privato” dall’altro più asettico e funzionale allo scopo. Nel caso, invece, del giovane Domenico Palazzotto, della famiglia dell’Arenella, Facebook si trasforma in una vetrina per promuovere la propria identità e per accreditare le proprie doti di capo. È interessante notare come il processo di costruzione della propria immagine pubblica avvenga attraverso una serie di foto e messaggi che sono, al contempo, legati alla tradizione ed estremamente moderni. La contraddizione è solo apparente e ben ricalca la duplice natura dell’organizzazione criminale radicata nella “tradizione” e sempre attenta alla modernità. Così lo troviamo deliberatamente fotografato nelle pose di un novello Michael Corleone, rivelare il suo bisogno di miti e re-interpretare – seguendo il processo di padrinizzazione descritto da Moe[1] – il ruolo del boss italo-americano mentre sulla limousine bianca beve dello champagne. L’ibridazione del vecchio col nuovo è una componente essenziale della comunicazione ma anche della capacità di adattamento che contraddistingue le mafie. Non stupisce, allora, il fatto che il giovane Palazzotto alterni rimandi al fotografo Corona (di cui anche fisicamente sembra imitare le fattezze) con citazioni bibliche dal Vangelo … di San Matteo. Beati coloro che verranno perseguitati dalla giustizia, perché di essi sarà il regno dei cieli: scrive su Facebook. Condensando in un’unica frase una stratificazione di messaggi che i suoi interlocutori sapranno senz’altro decodificare: la religione come elemento “tradizionale” di legittimazione; il richiamo al “moderno” leader Matteo Messina Denaro, il disprezzo per la giustizia (quella terrena) le cui punizioni possono solo accrescere il prestigio dei mafiosi.

Di fronte a queste esternazioni è lecito chiedersi come si concili l’esibizione di sé sulla rete con le esigenze di segretezza dell’organizzazione. Personalmente ritengo che sia un ingenuo pregiudizio pensare che il silenzio sia la strategia più confacente alle mafie la cui abilità consiste proprio nel conciliare la visibilità della presenza – da sempre, espressione di potenza – con l’invisibilità delle proprie attività. Ciò non esclude il rischio di farsi prendere la mano nell’uso dei social network, i quali, trasponendo l’esperienza vissuta su una dimensione parallela a quella della quotidianità, possono produrre effetti di de-realizzazione, che allentano i meccanismi di controllo del processo comunicativo. Nei post di Domenico Palazzotto e di Salvatore D’Alessandro, non mancano i riferimenti alla possibilità di essere individuati: ciononostante il bisogno di comunicare sembra più forte di ogni cautela. Lo scenario, come si vede, è complesso.

Quindi costruzione del consenso, dell’immagine. Ma la rete dà ai boss anche l’opportunità di perseguire strategie economiche di espansione delle attività criminali? Pagine di Facebook che magari diventano bancarelle della droga...

La rete sicuramente fornisce degli strumenti più raffinati, capaci di una enorme velocità e diffusività nel trasferimento delle informazioni. Strumenti spesso difficili da controllare (pensiamo ad esempio alle conversazioni via Skype) e duttili rispetto ai processi di dissimulazione della propria identità e di occultamento dei traffici illegali. Al di là, però, dell’uso strumentale della rete per perseguire delle finalità criminali, non dobbiamo dimenticare l’effetto che questa nuova messa in forma del mondo produce sull’identità delle mafie, sempre più attente alle componenti immateriali dell’esercizio del potere, peraltro tipiche della criminalità dei colletti bianchi. In tal senso, concordo con le analisi di Raimondo Catanzaro che propone di considerare i mafiosi più che come “specialisti delle transazioni economico-finanziarie”, soprattutto come soggetti impegnati “nella gestione di rapporti interpersonali, gravidi di emozioni e di rischi” ma anche “di nuove informazioni e di sempre nuovi significati”. Come mi sembra interessante l’analisi del ciclo di vita delle organizzazioni criminali fatta da Gottschalk che vede all’apice del loro sviluppo il modello value-based nel quale l’elemento di forza è la cultura organizzativa “capace di creare una solida base di senso comune attraverso valori condivisi all’interno dell’organizzazione”.[2]

 

Se i mafiosi sono soprattutto imprenditori di relazioni, in che misura i SN possono favorire “occasioni di contatto” tra uomini d’onore e soggetti estranei al mondo mafioso, allargando la maglia delle relazioni esterne?

È difficile dare una risposta univoca a questa domanda perché, come sempre, gli strumenti possono essere “buoni” o “cattivi” in base all’uso che se ne fa. Servono agli inquirenti per rintracciare i criminali e ai mafiosi per occultare la propria identità. Penso che finché si tratta di relazioni fredde, professionali, la rete possa fornire un mercato variegato e ricco di competenze e di professionalità. Se, però, parliamo di capitale sociale, di reti di relazioni, non possiamo dimenticare che un elemento fondamentale è la fiducia. Nel caso della mafia che veste i panni dell’imprenditore e del politico, l’uso della rete può facilitare lo scambio e il rinvenimento di competenze qualificate da utilizzare per le attività economiche. Diverso è il caso del mafioso che ha bisogno di soggetti “affidabili” per perseguire le attività illecite connesse all’uso della violenza. In questa circostanza, non credo che l’uso della rete possa agire come un facilitatore.

 

Quali metodi di analisi potrebbero essere applicati ai comportamenti dei boss nella rete al fine di fornire agli inquirenti un supporto nella repressione del crimine organizzato? Mi viene in mente, ad esempio, la Social Network Analysis...

Il discorso anche in questo caso sarebbe lungo e complesso. Ritengo che la SNA sia uno strumento utile nel fornire dati preziosi e soprattutto nel sistematizzare e visualizzare reti di relazioni tradotte in frequenze, legami e ricorrenze gravide di informazioni e di spunti per la conoscenza del fenomeno. Come ogni strumento di indagine, però, essa ha dei limiti e vedo con preoccupazione il tentativo di desumere dalla struttura del reticolo informativo tracciato, il modello organizzativo e le relazioni di potere interne al sodalizio o caratterizzanti il rapporto tra mafiosi e mondo circostante. Il rischio è quello di una eccessiva semplificazione del fenomeno di cui si colgono i processi ricorrenti, ipotizzando una razionalità e una prevedibilità dei comportamenti che nella realtà non si presenta tale e non considerando quei fattori e quelle variabili che non rientrano nel sistema di relazioni studiate. Accade spesso che soggetti considerati marginali dai flussi comunicativi esaminati con la SNA siano in realtà molto potenti. E che soggetti che costituiscono punti di snodo nel sistema relazionale analizzato rivestano ruoli circoscritti nella gerarchia mafiosa. Trovandosi di fronte a fenomeni complessi è opportuno, quindi, combinare e integrare insieme approcci metodologici differenti.

 

I SN hanno trasformato gli utenti da semplici consumatori di informazione a prosumer (producer–consumer). Ciò ha consentito al popolo della mafia 2.0 di by-passare i giornali nella costruzione e nella diffusione dell’immagine dei singoli e dell’organizzazione più funzionale alle esigenze che man mano si presentano?


È più difficile manipolare in maniera diretta i giornali da parte delle organizzazioni criminali mafiose piuttosto che gestire in proprio il processo comunicativo. Naturalmente i bacini di utenza nei due casi sono totalmente differenti. Oggi, inoltre, è impensabile costruire consenso, attraverso i giornali, intorno ad attività visibilmente violente. Altra cosa è l’uso sapiente della stampa per determinare processi di neutralizzazione di crimini cosiddetti senza vittime che chiamano in gioco colletti bianchi, politici, imprenditori. Anche in questo caso, i mafiosi hanno sempre compreso l’importanza della carta stampata come testimoniano gli interessi di Stefano Bontate per il circuito mediatico, le strategie messe a punto da Giuseppe Guttadauro per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle condizioni di vita dei carcerati. Se attraverso i giornali passa una comunicazione più “istituzionale”, le dimensioni comunicative finalizzate alla costruzione del consenso sono affidate a gesti simbolici di grande effetto (si pensi ad esempio a quanto accade durante le processioni)  e all’uso di strumenti di comunicazione più empatici e gestibili in prima persona. Ecco spiegato il diffondersi delle interviste rilasciate in televisione dai figli di irriducibili boss mafiosi o dei video pubblicati su youtube, costruiti sfruttando soprattutto il registro emotivo-affettivo. Qui si aprirebbe un altro importante versante di analisi sugli effetti di queste forme di comunicazione. Mi limito ad un solo esempio che riguarda la pubblicazione delle conversazioni tra Salvatore Riina e Alberto Lo Russo nel carcere di Opera a Milano. Non essendo certo uno sprovveduto, possiamo presumere che Riina sapesse di essere intercettato e magari desiderasse che i contenuti delle sue conversazioni fossero resi pubblici. Ciò pone dei grossi problemi nella scelta di rendere o meno ostensibili le sue conversazioni non riuscendo a prevedere da che lato oscillerà la bilancia tra i vantaggi e gli svantaggi di qualsiasi opzione prescelta.



[1] N. Moe, Il padrino, la mafia e l’America, in G. Gribaudi, a cura di, Traffici criminali, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 325-51.

[2] P. Gottschalk, Maturity Levels for Criminal Organizations, in “International Journal of Law, Crime and Justice”, 36, 2008, pp. 106-14.

 di Alida Federico

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