I pericoli per la libertà di stampa al tempo del coronavirus
Sono 50 i giornalisti uccisi nel mondo secondo il rapporto 2020 di Reporters Sans Frontieres. Professionisti che hanno pagato con la vita il loro impegno nel raccontare principalmente di criminalità, corruzione e degrado ambientale. I dati sono pressoché in linea con quelli dello scorso anno, quando a perdere la vita violentemente erano stati 53 operatori dell’informazione. Confermato il trend in aumento dal 2015 dei giornalisti detenuti, con un incremento del 17 percento in cinque anni. Quest’anno, tuttavia, la pandemia di Covid-19 ha influito anche sul numero dei giornalisti arrestati, quadruplicato nei primi mesi di diffusione del Coronavirus nel mondo. Ed è in aumento (+35%), rispetto allo scorso anno, anche quello delle donne in carcere. Il paese con il più alto numero di giornalisti uccisi, ben otto, è il Messico, dove i professionisti dell’informazione scrivono dei legami tra cartelli della droga e la politica. Sei sono i giornalisti assassinati in Iraq da sconosciuti con colpi di arma perché hanno raccontato le proteste contro il governo. Cinque quelli uccisi in Afganistan, a cui si aggiunge la presentatrice televisiva che è stata ammazzata per aver sostenuto una campagna per una più adeguata protezione delle professioniste del settore. E in Iran, dopo 30 anni, è stata eseguita una condanna a morte per un operatore dei media. Chi non rischia la vita, vede spesso pesantemente minacciata la propria libertà fisica.
“Quasi 400 giornalisti trascorreranno le vacanze dietro le sbarre, lontano dalle proprie famiglie e in condizioni di detenzione che a volte mettono in pericolo la loro vita”, puntualizza Christophe Deloire, segretario generale di RSF. Il paese con il più alto numero di giornalisti attualmente in stato di detenzione è la Cina con 117 operatori dell’informazione dietro le sbarre. Ed è l'Asia il continente dove si è registrata la maggior parte delle violazioni della libertà di stampa legata alla pandemia (7 in Cina, 2 in Bangladesh e 1 in Birmania), seguita dal Medio Oriente. Non solo la percentuale più alta degli abusi contro i giornalisti asiatici nel 2020 (35%) è da ricondurre proprio a coloro che hanno raccontato il propagarsi del Covid-19 e la sua gestione da parte delle autorità locali (altre forme di violazioni come violenza fisica o minacce rappresentano il 30%), ma anche la durata della detenzione per alcuni di loro si è di molto prolungata rispetto ad altri tipi di contestazione. Chen Qiushi, Fang Bin e Li Zehua sono in carcere dall'inizio dell'anno per aver dato notizia della situazione pandemica a Wuhan, così come la giornalista di cittadinanza australiana Cheng Lei, arrestata il 14 agosto a Pechino con l’accusa di aver messo a rischio la sicurezza nazionale cinese a seguito delle critiche mosse al governo.
Proprio qualche giorno fa, il 29 dicembre, il tribunale di Shangai ha condannato a quattro anni di reclusione la blogger cinese Zhang Zhan (nella foto), in carcere dallo scorso maggio per aver “alimentato tensioni e provocato problemi” con la diffusione di “false informazioni” sul virus e aver concesso “interviste ai media stranieri”. La trentasettenne aveva raccontato l’andamento della pandemia e ne aveva criticato la gestione nelle prime fasi nella città di Wuhan. Anche in Medio Oriente la libertà di informazione legata alla pandemia in atto è a serio pericolo. Sono quasi 80 i giornalisti detenuti attualmente tra Arabia Saudita, Siria e Iran. Nella Repubblica Islamica nel 2020 sono stati arrestati oltre una decina di reporter e due di loro sono ancora in carcere per aver raccontato la situazione sanitaria nel Paese.
L’Egitto, con il diffondersi del virus, ha sfruttato la difficoltà del momento per intensificare il controllo sui mezzi di informazione e imbavagliare le fonti non governative. Le autorità egiziane hanno rafforzato la loro politica repressiva e i rinnovi a tempo indeterminato di custodie cautelari. Attualmente sono 30 i giornalisti in carcere, di cui almeno tre sono stati fermati per aver criticato la gestione degli ospedali e aver denunciato la mancanza di medici e infermieri. Il report denuncia anche che “le giornaliste donne, sempre più numerose nella professione, non sono risparmiate dalla repressione”. Vi è, infatti, un altro dato preoccupante: l’aumento del 35% di giornaliste detenute rispetto allo scorso anno. Sono 42, tra cui la vietnamita Pham Doan Trang, vincitrice del premio RSF per la libertà di stampa 2019. Alida Federico
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