I pericoli dell'annunciata dissociazione del boss Graviano

Società | 1 marzo 2021
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Filippo Graviano, boss di caratura criminale indiscussa, ha messo a verbale di volersi dissociare dalle scelte del passato e ha chiesto al giudice di sorveglianza un permesso premio. […]

Da sempre Cosa nostra punta a ottenere benefici penitenziari in cambio di una semplice presa di distanza dall’organizzazione, senza segni esteriori di apprezzabile concretezza che consentano di aggirare le trappole. Sdegnosamente rifiutata ogni forma di “pentimento”, cioè di collaborazione attiva con lo Stato (così da riparare almeno in parte i danni causati). Nel 1987 una normativa a favore dei dissociati è stata varata per i terroristi, ma il terrorismo era ormai irreversibilmente esaurito. Mentre la mafia, purtroppo, è tuttora in  gran “forma”. Per cui dare un qualche peso alla semplice dissociazione, per la mafia sarebbe contro ogni logica.

Tuttavia Filippo Graviano ha deciso di provarci.  Malavitoso fin che si vuole, ma nient’affatto  uno sprovveduto qualunque. Se fa una cosa deve avere una prospettiva. Forse pensa che nuovi scenari possano aprirsi alla dissociazione.

Qualcosa è cambiato quando due sentenze a stretto giro, una della Cedu (13.6.19) l’altra della nostra Consulta (23.10.19),  hanno escluso che la condanna all’ergastolo per delitti di mafia impedisca (ergastolo ostativo) la concessione di benefici penitenziari, così estesi a tutti  gli ergastolani mentre prima erano possibili soltanto per i detenuti pentiti, quelli che hanno fatto il salto del fosso dando una mano allo Stato. Una spallata per l’ergastolo ostativo, con evidenti ripercussioni sul pentitismo, non più decisivo per i benefici penitenziari. Sotto tiro due baluardi della lotta antimafia del dopo stragi.

Nel libro “Lo stato illegale” (Laterza 2020) Guido Lo Forte ed io abbiamo ipotizzato “una sorta di distacco dalla realtà”. Dei giudici europei si potrebbe pensare “che sapessero poco o nulla della realtà della mafia, mentre la stessa cosa non può dirsi a cuor leggero dei giudici italiani, che dovrebbero ben conoscere la storia della mafia e delle sue atroci efferatezze”. Ed è forse per questo che “la Cedu ha deciso praticamente all’unanimità con un solo dissenziente; mentre nella Consulta a imporsi sareb­be stata una risicata maggioranza di otto contro sette” (così Giovanni Bianconi).

Comunque sia, nella “spallata” Graviano potrebbe aver visto un’opportunità da esplorare con lo spirito di uno scout, che abbia nel suo Dna (in quanto mafioso) il camaleontismo, cioè l’abilità di adattarsi alle circostanze per cogliere ogni nuova opportunità.  In quest’ottica la  dissociazione di Graviano può avere un senso come apripista di un percorso che coinvolga altri soggetti e abbia come prospettiva meno 41 bis, meno ergastoli, meno confische di beni, più benefici; in un quadro di  diminuzione dei pentiti e di rafforzamento di Cosa nostra. Mi ritorna in mente un mantra di Riina: diceva che lui si sarebbe “gio­cato anche i denti”, cioè avrebbe fatto di tutto, per far annullare la legge sui pentiti ed eliminare l’articolo 41 bis (una sorta di interfaccia dell’ergastolo ostativo).

L’iniziativa di Graviano è una prima mossa sulla scacchiera della dissociazione. La partita andrebbe giocata dallo Stato con pragmatismo e non con astrattezze ideologiche. Riconoscendo che la realtà della mafia (confermata da mille inchieste e studi)  esclude in modo assoluto che lo status di “uomo d’onore” possa mai cessare, salvo nel caso (l’unico!) di collaborazione processuale.

Da questo dato di fatto deve partire ogni buon governo che i valori costituzionali – oltre a teorizzarli – li voglia davvero proteggere dal loro peggior nemico: la mafia. Il che significa che non si possono lasciare soli i giudici di sorveglianza. Cancellata l’ostatività dell’ergastolo, per la concessione dei benefici la Consulta richiede l’acquisizione di elementi che escludano l’attualità dei collegamenti con la mafia e il pericolo di un loro ripristino. Senonché le varie informative che dovrebbero aiutare a scegliere  per il meglio, quasi sempre, se non proprio inutili, sono burocratiche o di facciata. Per cui, in assenza del pentimento, le decisioni dei giudici di sorveglianza (oltre a comportare una forte sovraesposizione personale) rischiano di essere un azzardo.

Concludo con il caso di Antonio Gallea, mandante dell’omicidio di Rosario Livatino, condannato all’ergastolo. Avendo fruito di vari permessi premio e della semilibertà, ne ha approfittato per rientrare in posizioni di rilievo nell’organizzazione criminale,  facendo valere proprio i suoi 25 anni di detenzione senza aver mai collaborato. Una sconfitta per lo Stato. Che deve attrezzarsi seriamente per evitarne altre.


 di Gian Carlo Caselli

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