I motivi del "si" alla riforma costituzionale

2 novembre 2016
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Il prossimo 4 dicembre gli Italiani decideranno il destino della riforma costituzionale approvata dal Parlamento nel corso di questa legislatura. È necessario che i cittadini siano bene informati così che il voto (qualsiasi voto) sia frutto di un esame dei contenuti della riforma. Altre questioni è bene che stiano fuori dalla cabina elettorale: ci saranno momenti nei quali scegliere chi dovrà guidare il Paese; ci saranno altri contesti nei quali valutare l’operato dei leader dei partiti; sarà il Parlamento a definire le nuove regole elettorali. Questo è il momento in cui si deve capire, si deve discutere della Riforma costituzionale così da assicurare una partecipazione informata al voto referendario.

Il tema delle riforme è presente nell’agenda politica italiana da più di trenta anni: commissioni e comitati hanno proposto differenti progetti di modifica della seconda parte della Costituzione, senza però mai raggiungere il traguardo desiderato. Ciò certo non significa che dobbiamo accettare una riforma della Costituzione solo perché da troppi anni discutiamo di cambiarla. Però è fuori dubbio che i contenuti della riforma oggi in discussione, sono stati oggetto di ampi approfondimenti e di lunghe discussioni. Rispetto ai precedenti tentativi di modifica, la riforma attuale presenta dei caratteri precisi. Intanto è bene precisare ciò di cui non si occupa: la riforma non attiene alla prima parte del testo costituzionale nella quale troviamo i principi fondamentali e la disciplina delle libertà costituzionali; la riforma non modifica in nulla i poteri del Presidente del Consiglio dei Ministri, né quelli del Presidente della Repubblica. Non cambiano le attribuzioni della Corte costituzionale. Nulla è innovato rispetto alle garanzie costituzionali del potere giudiziario. Da questo punto di vista si tratta di una riforma diversa da quella esitata dalla Commissione D’Alema (1997) o approvata dal centro-destra e poi respinta dagli elettori in occasione del referendum del 2006.

Oggi i temi in discussione attengono alla struttura del Parlamento (superamento del bicameralismo), all’abolizione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, alla risistemazione delle competenze legislative tra Stato e Regioni; la riforma promette, come conseguenza di molte delle sue disposizioni, un contenimento dei costi legati alla politica. Degno di nota il tentativo di rivitalizzare gli istituti di democrazia diretta come il referendum e l’iniziativa legislativa popolare.

È bene rammentare che la struttura bicamerale del Parlamento è uno dei punti più controversi discussi in Assemblea costituente. Ne è prova che il testo originario della Costituzione prevedeva delle differenziazioni (oltre il numero dei componenti) tra i due rami dal Parlamento. Il Senato avrebbe dovuto avere una durata di sei anni, si sarebbe dovuto eleggere in modo differente dalla Camera dei deputati, doveva essere il Senato delle Regioni. Così non fu. Il dibattito in seno all’Assemblea costituente fu caratterizzato dalle strategie messe in atto da Togliatti che condussero all’approvazione prima di un ordine del giorno Nitti e poi alla formulazione della diposizione costituzionale che fa riferimento a un Senato eletto su base regionale. La vera partita fu giocata sulla legge elettorale per il Senato che di fatto svuotò di significato il riferimento al collegio uninominale e aprì la strada per una seconda Camera sempre più vicina alla prima Camera. Il passo definitivo fu compiuto dalla legge costituzionale n. 2 del 1963 che ha previsto per le due Camere la stessa durata e ha elevato il numero dei Senatori a 315. Le forze politiche hanno parificato in tutto il Senato alla Camera. Nella prassi sappiamo che una legge sarà tale solo se entrambi i rami del Parlamento avranno deliberato il medesimo testo; ciò significa che se la Camera modifica il testo già approvato dal Senato, sarà necessario un nuovo passaggio in Senato. Sappiamo pure che ciascuna Camera accorda la fiducia al Governo, anche se dal 1980 il Presidente del Consiglio svolge le proprie dichiarazioni programmatiche in un ramo del Parlamento e consegna un testo scritto all’altra Camera, testo che riproduce quanto già detto nella prima Camera senza alcuna aggiunta o specificazione. La riforma incide sulla struttura del Parlamento e sulle modalità attraverso le quali saranno approvate le leggi. In estrema sintesi il cuore delle attività parlamentari faranno riferimento solo alla Camera dei deputati: sarà la Camera che voterà la fiducia al governo, sarà la Camera il luogo dove saranno approvate quasi tutte le leggi, sarà solo Camera dei deputati la sede della rappresentanza nazionale.

Il Senato non scomparirà ma il suo ruolo cambierà. La sua funzione sarà quella di rappresentare il sistema della autonomie territoriali (Regioni e Comuni) al “Centro”. Non è esclusa la sua partecipazione al procedimento legislativo che potrà essere attivata sulle leggi approvate dalla Camera dei deputati ed è espressamente richiesta per tutta una serie di leggi che continueremo a chiamare bicamerali. Le leggi bicamerali saranno leggi di “sistema” perché attengono ad aspetti generali della vita delle istituzioni nazionali e territoriali. Un ruolo particolare, il futuro Senato sarà chiamato a svolgerlo in occasione dell’approvazione delle leggi di bilancio o di quelle leggi che, in quanto espressive dell’interesse nazionale, recano una decisione politica che si impone a tutte le regioni.

Il futuro Senato sarà composto da soli 100 Senatori: 5 saranno scelti dal Presidente della Repubblica (non più a vita ma solo per sette anni); i rimanenti 95 saranno eletti dai consigli regionali fra i consiglieri regionali e fra i sindaci dei capoluoghi. In particolare 74 saranno consiglieri regionali e 21 sindaci. La riforma prevede che la scelta dei Senatori debba avvenire “in conformità alle scelte espresse dagli elettori” al momento dello svolgimento delle elezioni regionali. Nessuna regione avrà meno di due Senatori; la ripartizione esatta dei Senatori fra le regioni avverrà in proporzione alla popolazione, quale risulta dall’ultimo censimento. La disciplina elettorale che seguirà dovrà consentire agli elettori di individuare al momento dell’elezione de consiglieri regionali chi fra di essi rappresenterà la regione in Senato. Questa è la prospettiva presente nel disegno di legge elaborato dal Senatore Vannino Chiti. Si tratta di un meccanismo elettorale prescelto come testo base per l’elezione del futuro Senato che presenta le stesse caratteristiche delle passate leggi elettorali del Senato. Al momento del voto per il rinnovo dei consigli regionali l’elettore riceverà due schede: una servirà per individuare il governatore regionale e buona parte dei consiglieri regionali; la seconda assicurerà agli elettori la possibilità di eleggere i consiglieri-senatori. Il nuovo Senato sarà una delle camere del Parlamento e quindi è del tutto naturale che anche a essa si estendano le prerogative costituzionali che tradizionalmente accompagnato l’istituzione parlamentare. Si tratta cioè di prerogative che riguardano il Parlamento e non i singoli parlamentari. Sappiamo però che l’art. 68 della Costituzione non impedisce l’ordinario svolgimento della giustizia. Sul punto deve essere però ricordato che solo per i futuri Senatori si applicheranno gli articoli 7 e 8 del d.lgs. 235 del 2012 i quali prevedono specifiche ipotesi di sospensione dalla carica di consigliere regionale che mettono al riparo il Senato da soggetti politici “incandidabili”.

Dal mio punto di vista, la riforma del Senato non comporta un attacco alla democrazia parlamentare. In essa io intravedo la possibilità di rivitalizzare l’istituzione parlamentare e di rendere più trasparenti le relazioni Governo - Parlamento. Chi volesse ulteriormente riflettere sul futuro Senato dovrà fare un piccolo sforzo: dovrà immaginare il nuovo Senato senza andare alla ricerca degli istituti e dei meccanismi parlamentari che abbiamo conosciuto nei primi settanta anni della nostra Repubblica. Si tratta di un organo nuovo al quale spetterà, per esempio, curare il raccordo fra lo Stato, l’Unione europea e le istituzioni territoriali; al Senato spetterà il compito di valutare le politiche pubbliche e di esprimere pareri sulle nomine del Governo, e, ancora, valutare l’attuazione delle leggi. Ritengo poi che la semplificazione della decisione politica parlamentare contribuirà al rilancio del Parlamento repubblicano che, proprio in occasione dell’approvazione della legge di revisione della Costituzione, ha visto forze politiche approvare le riforme per poi cambiare idea durante l’iter parlamentare solo per ragioni di mera opportunità politica; vi è chi pure ha approvato la riforma in tutti i suoi passaggi parlamentari per poi, al momento del referendum, schierarsi contro le modifiche della Costituzione, a favore del no; per non parlare poi dell’avvenuta presentazione (per via informatica) di milioni di emendamenti a firma del Senatore Calderoli tutti respinti in blocco dal Presidente del senato nella seduta del 29 settembre 2015.

È noto che oggi il contenzioso fra Stato e Regioni è in continua crescita. Le competenze legislative regionali come riviste nel 2001 hanno prodotto il proliferare di leggi regionali diverse per settori e materie che necessitano di una disciplina unitaria. La riforma prova a mettere ordine in questo settore promuovendo un accentramento di competenze a favore dello Stato. Anche questa prospettiva deve essere apprezzata perché affida allo Stato il compito di uniformare discipline che altrimenti possono produrre differenziazioni incompatibili con il principio di uguaglianza. Troppe volte si dimentica che l’autonomia regionale doveva essere misurata in ragione delle risposte date ai bisogni dei cittadini. Io credo che la riforma lì dove prova a correggere alcune delle scelte compiute nel 2001, prova a ridefinire le competenze Stato-Regioni per offrire risposte concrete ai diritti dei cittadini. La competenza del Senato in tema di raccordo fra centro e periferia – se bene attuata - potrà contribuire al superamento delle storiche differenze tra nord e sud del Paese.

Un cenno meritano alcune innovazioni. I cittadini potranno esercitare l’iniziativa legislativa promuovendo un testo di legge sostenuto da 150.000 firme. Vero è che attualmente ne bastano solo 50.000 ma è pur vero che per settant’anni non c’è mai stato un seguito parlamentare. La riforma innalza il numero di firme, ma impone che il Parlamento si faccia carico della proposta popolare. I numeri qui richiamati vanno valutati anche considerando che nel 1950 i cittadini erano poco più di 46 milioni, mentre oggi siamo un po’ meno di 60 milioni; oggi gli aventi diritto al voto sono quasi 47 milioni, nel 1948 erano poco più di 29 milioni. Molti referendum abrogativi sono naufragati sullo scoglio del quorum: per essere valida la consultazione referendaria, devono recarsi alle une la maggioranza degli aventi diritto al voto. La riforma – anche in questo caso – prevede che se l’iniziativa referendaria è sostenuta da 800.000 firme (oggi ne bastano 500.000) il quorum di validità del referendum è calcolato non sugli aventi diritto al voto, ma sulla base del numero dei cittadini che si sono recati alle urne nell’ultima competizione politica (per le elezioni del 2013 l’affluenza alle urne è stata pari al 75,19%). La riforma promuove poi anche i referendum propositivi e di indirizzo. Nel complesso mi pare che si cerchi di potenziare gli strumenti di democrazia diretta, auspicando un maggiore coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni politiche.

Dalla soppressione del CNEL, delle Province, dal venir meno dei trasferimenti ai gruppi politici regionali, e, in generale, dal complesso della riforma i promotori sostengono che si realizzerà una riduzione dei costi legati al mondo della politica nazionale e regionale. Prescindendo dalle quantificazioni degli oneri in discussione, mi pare che si tratti di un inizio che deve essere incoraggiato.

Giuseppe Verde

Docente di Diritto costituzionale nell'Università di Palermo




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