Grandi capolavori approdano in tv, ora tocca a "Il Gattopardo"

Cultura | 16 aprile 2019
Condividi su WhatsApp Twitter


La notizia poche settimane fa, il 26 marzo, nell’edizione on line di Palermo del quotidiano “Repubblica” in un articolo a firma di Vassily Sortino: “ “Il Gattopardo” si appresta a diventare una serie tv. La società di produzione di film e fiction Indiana ha acquisito da Feltrinelli – che gestisce il copyright sul libro per conto degli eredi dell’autore – i diritti opzionali sul romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Le riprese inizieranno entro l’anno, in coproduzione con la società inglese Moonage e con il broadcaster inglese. Resta ancora segreto il cast, dal regista agli attori”. A completare l’articolo una dichiarazione del musicologo Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: “Sono quattro anni che hanno comprato i diritti sul libro per questa fiction e da altrettanto tempo attendo una sceneggiatura da potere esaminare e a cui potere dare il mio ok. Ma non mi hanno ancora chiamato. Questa serie a puntate, se si farà, sarà l’occasione per raccontare il libro nella sua totalità: il film di Luchino Visconti ferma il racconto al 1860, mentre il libro si estende al 1910. Vorrei comunque, anzitutto, leggere il copione”.


La riduzione televisiva di “Il nome della rosa”

Più o meno nelle stesse settimane Rai1 mandava in onda la versione fiction di “Il nome della rosa”. Presunto colossal tratto dal celebre best seller di Umberto Eco. Riduzione televisiva che probabilmente avrà fatto rivoltare nella tomba il geniale scrittore e studioso, pure avvezzo alle polemiche ed alla più caustica ironia. Era lecito attendersi, avendo a disposizione 400 minuti di programmazione, che l’adattamento per il piccolo schermo del regista Giacomo Battiato con nel cast John Turturro e Rupert Everett superasse il principale limite dell’adattamento cinematografico del 1986 di Jean Jaques Annaud con Sean Connery. Film straordinario, beninteso, di quelli che rimangono nella storia del cinema e si rivedono più volte con piacere e coinvolgimento per il livello della sceneggiatura, della recitazione, dell’ambientazione. Ma che ha privilegiato per evidenti motivi di narrazione cinematografica, di “presa” sullo spettatore e di tempo (126 minuti) l’indagine sulla catena di omicidi di frati nell’Abbazia. La trasposizione sul grande schermo non poteva approfondire, se non per grandi linee, la superba erudizione e l’eccezionale ricostruzione storico-religiosa dispiegate da Eco nelle pagine del romanzo. La versione tv di “Il nome della rosa”, disponendo di alcune ore in più di spazio ed immagini, oltre all’indagine poteva provare a portarle dentro nei dialoghi ben più di come aveva potuto o saputo fare il film. Ne aveva il tempo e la possibilità. Niente. Soggettisti, sceneggiatori e regista hanno banalizzato il romanzo. Di cui è rimasto impropriamente il titolo. “Tratto da “Il nome della rosa”” avrebbe dovuto essere corretto in “lontanamente tratto da “Il nome della rosa””. Ci si è inventati – facendo uno sbiaditissimo verso al regista Ridley Scott, maestro di ricostruzioni belliche (“Il gladiatore”, “Le crociate”, “Robin Hood”) – decontestualizzate battaglie. Il giovane novizio Adso è stato trasformato in una sorta di play boy alle prese con continue puntate amorose con la ragazza che era stata per Umberto Eco materia viva per indimenticabili riflessioni sulla sessualità e sull’amore. Il fondamentale sfondo storico – scontro tra Papato ed Impero, rivalità dottrinali tra le tante fazioni ed anime all’interno della istituzione ecclesiale e tra i suoi ordini religiosi, tendenza del potere temporale della Chiesa a mandare al rogo eretici e dissidenti – è stato ridotto ad un riflettore acceso, comunque non senza stereotipi, sull’eresia violenta dei Dolciniani. All’opulenza senza Dio di cardinali, vescovi e nobili i Dolciniani ponevano fine sanguinosamente senza darsi troppo pensiero con la spada ed i forconi. Su tutto poi a mettere il suggello ad un confronto che non regge una lapalissiana constatazione: il carisma recitativo di Sean Connery nel ruolo di fra Guglielmo da Baskerville e di F. Murray Abraham in quello dell’inquisitore Bernardo Gui è di un altro pianeta rispetto a quello di John Turturro e Rupert Everett nei rispettivi panni.


Le fedeli riduzioni televisive degli sceneggiati della tv in bianco e nero

La verità è che per andare dietro ai “nuovi” linguaggi televisivi sono finiti i tempi degli adattamenti fedeli di una volta. Quelli della televisione in bianco e nero. Degli sceneggiati, come si chiamavano allora, che in sei-otto puntate avevano l’ambizione principale di succhiare dalla carta delle pagine dei romanzi parole, ambientazione, dialoghi e atmosfere evitando di alterarli per esigenze sceniche e di mercato. E venivano fuori indimenticabili capolavori della televisione, operazioni culturali ineguagliate. Anzi ineguagliabili. De “I promessi sposi” del regista Sandro Bolchi (1967), quello in bianco e nero per intenderci, quanti lo abbiamo visto ancora ricordiamo che i due giovani attori protagonisti erano Paola Pitagora e Nino Castelnuovo, circondati nei vari altri ruoli da maestri della recitazione: Tino Carraro, Luigi Vannucchi, Lea Massari, Massimo Girotti, Salvo Randone. Del secondo sceneggiato con lo stesso titolo del 1989, a colori, produzione e cast internazionale, recitato in inglese con dialoghi che spesso si limitavano ad una specie di sunto delle immortali parole manzoniane, nessuno si ricorda chi fossero i due protagonisti. A malapena abbiamo il ricordo di un Alberto Sordi nel ruolo di don Abbondio che doppiava sé stesso perché la recitazione - con frasi e periodi che se ne andavano per la tangente, non sempre aderenti al testo manzoniano – avveniva in inglese.

E poi, oltre a “I promessi sposi”, altre non meno indimenticabili trasposizioni televisive, come il verghiano “Mastro Don Gesualdo” (1964). Ed adattamenti, quanto più fedeli, di romanzi francesi, russi, inglesi: “I miserabili” (1964), “Il Conte di Montecristo” (1966), “I fratelli Karamazov” (1969), “Anna Karenina” (1974), “David Copperfield” (1965).


Come sarà “Il Gattopardo” televisivo?

Torniamo al progetto di fare diventare una serie tv “Il Gattopardo”. Si profila un altro flop modello “Il nome della rosa”? Il confronto con il film del 1963 di Luchino Visconti con Burt Lancaster, Claudia Cardinale, Alain Delon, Paolo Stoppa si annuncia impari. Perché quel film è un capolavoro e, pur con tutte le libertà che si è preso l’adattamento cinematografico, bisogna riconoscere che mantiene una notevole fedeltà alle pagine del romanzo. Cosa di nuovo e di meglio potrebbe aggiungere una fiction televisiva rispetto alla sontuosa riduzione per il grande schermo? Non lo sappiamo. Ma – senza fasciarsi la testa prima di rompersela – è il caso di mettere in guardia rispetto a polpettoni televisivi che fanno cambiare canale e deludono il pubblico. E non solo il pubblico dei lettori e dei bibliofili. “Il Gattopardo” per noi siciliani è un pezzo del nostro “dna”, di nostra storia, di nostra mentalità nel bene e nel male. Mirabilmente colti da Tomasi di Lampedusa nelle sue quotidiane pagine riempite nell’ormai chiuso dal 2014 “Bar Mazzara” di via Magliocco, nel centro di Palermo. Locale che solo per averlo ospitato tante mattinate ai suoi tavolini per fare colazione e scrivere lì una parte di quel meraviglioso romanzo meriterebbe di riaprire come bar e soprattutto come museo della nostra identità siciliana.

Sarebbe un peccato se anche “Il Gattopardo” televisivo originasse la stessa delusione della fiction “Il nome della rosa” pur di andare dietro ad esigenze di “moderno” linguaggio televisivo o di cassetta. I libri quelli sono. Non si modificano. E quelli devono restare. “Tratto da” non può abilitare a smontarli o travisarli. Se sceneggiatori e registi hanno di queste ambizioni si limitino nelle locandine, nei trailer e nei titoli ad evocare nulla più di un filo di ispirazione dai romanzi ed evitino per coerenza di riprenderne il titolo. Che fa immagine, certo, che richiama attenzione, certo, ma che poi si traduce in personalissime e dubbie trasposizioni che tradiscono autore, lettori, spettatori. Evitino di improvvisarsi di punta in bianco grandi scrittori e romanzieri con la presunzione di modificare storie scritte da giganti della letteratura. Non sono baffi loro. E, a proposito di baffi, non sottovalutino come dietro la macchina da presa di “Il nome della rosa” c’era un regista del calibro di Jean Jaques Annaud e dietro la macchina da presa di “Il Gattopardo” c’era un certo Luchino Visconti, uno dei più grandi registi d’ogni tempo non solo in Italia ma nel mondo.

Chi sta lavorando, o si accinge a farlo, al “Gattopardo” televisivo è avvertito. Lavori con umiltà ed abbia nei riguardi di ogni frase del libro il rispetto dovuto ad una bibbia laica solo da rendere in immagini con la maggiore aderenza possibile e non da reinterpretare. Di reinterpretazioni o letture alquanto personalizzate non avvertiamo affatto il bisogno.

 di Pino Scorciapino

Ultimi articoli

« Articoli precedenti