Gli interessi convergenti sulla strage di Via D'Amelio
Società | 14 luglio 2015
Un nuovo capitolo che si aggiunge ad un libro che sembra non conoscere la parola fine. Un libro che ha sconvolto l’Italia di allora e che continua a sconvolgerla anche oggi. Un’Italia, quella della cosiddetta società civile, che non è riuscita a trovare la forza per farsi «consegnare» una verità ancora lontana. Sono i magistrati nisseni che lottano per averla e che scrivono: «Nella decisione di compiere la strage di via D’Amelio possono avere influito anche interessi diversi da quello intranei a Cosa nostra, interessi che ancora oggi non è possibile delineare ed individuare con giudiziale certezza». Ancora oggi, a distanza di ventitrè anni.Ed è a Catania che si sta celebrando il processo che vede sotto accusa oltre vent’anni di indagini sulla strage di via D’Amelio, ma non solo. Un processo che vedrà sotto accusa eventuali depistaggi, tentativi di inquinare le prove o di nasconderle. A Catania si è aperto il processo scaturito dalla indagini dei magistrati nisseni che hanno scoperto che erano false le dichiarazioni di alcuni falsi pentiti. Indagini che hanno permesso di scoprire che tredici persone condannate per la strage di via D’Amelio, e tra queste sette con pena all’ergastolo, sono innocenti. Due di queste hanno chiesto la revisione del loro processo: i familiari di Giuseppe Orofino (ora deceduto) che venne condannato una prima volta all’ergastolo e poi a nove anni per associazione mafiosa e Natale Gambino che ha subito la condanna all’ergastolo, il rpimo difeso dall’avvocato Giuseppe Scozzola il secondo dall’avvocato Giuseppe Dacquì. Il processo si è aperto il 9 giugno, davanti alla terza sezione della Corte d'Appello di Catania, e quasi subito rinviato per difetto di notifica alle parti civili. Riprenderà il 13 novembre prossimo.A Caltanissetta, nel frattempo si sta celebrando un altro processo sul massacro di via D’Amelio, il cosiddetto «Borsellino quater». Alla sbarra vi sono Salvino Madonia, Vittorio Tutino, e tre falsi pentiti accusati di calunnia: Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Si tratta del dodicesimo processo, fra primo grado, appello e Cassazione e rinvii vari, su quella strage. E sull’uccisione di Paolo Borsellino e dei suoi agenti di scorta proseguono, fra mille difficoltà, le indagini. Nei mesi scorsi il procuratore aggiunto Domenico Gozzo, uno degli artefici delle ”nuove indagini” è stato trasferito a Palermo. Ma anche il procuratore Capo Sergio Lari è con le valigie in mano, a breve lascerà il suo incarico per prendere le redini della Procura generale.Per quanto riguarda le indagini ancora in corso su quella stagione stragista sembrano due rette parallele che, però, contraddicendo la geometria ogni tanto si incrociano. Il procuratore Lari afferma che fu con la strage di via D’Amelio e prima ancora con quella di Capaci che Cosa nostra decise di aprire la stagione terroristico-mafiosa. Una decisione che venne presa da Costra e che è stata svelata da alcuni collaboratori di Giustizia. Tra questi Gaspare Spatuzza che ha anche permesso di scoprire il depistaggio che sarebbe stato compiuto in vent’anni di indagini.Le dichiarazioni di Spatuzza vanno ad aggiungersi a quelle di altri collaboratori i quali hanno affermato che Cosa nostra con la strage di via D’Amelio, quella di Capaci e quelle poi compiute a Roma, Firenze e Milano volevano creare panico nella popolazione per cambiare l’ordinamento politico e democratico dello Stato. Creare la strategia della paura per un cambio politico alla guida dell’Italia. Una sorta di colpo di Stato. Per fare questo si sono uccise ventidue persone, oltre centotrenta sono stati feriti, interi scorci di autostrada sventrati, palazzi di civile abitazione ed autovetture distrutte o seriamente danneggiate, ingentissimi danni al patrimonio storico-culturale italiano, uomini dello Stato e innocenti cittadini trucidati. È il bilancio della stagione stragista di Cosa nostra, una stagione che non fu solo mafia. Fu, invece, una stagione terroristico-mafiosa come hanno affermato alcuni collaboratori di Giustizia, ma soprattutto è stato sottolineato dai magistrati nisseni che su quella stagione di morte hanno indagato e stanno ancora indagando. Fu, insomma, una guerra per creare una situazione di allarme che facesse apparire difficoltosa la reazione degli organi dello Stato e così costringerli a sedere in maniera convinta al tavolo della «trattativa». «In quel momento tutto quello che si doveva fare erano autobombe», sono state le parole di Giovanni Brusca, il macellaio di San Giuseppe Jato che schiacciò il pulsante del telecomando che a Capaci aprì quella stagione di sangue. Brusca ha detto che così c’erano minori rischi per gli attentatori, ma ha anche aggiunto che vi era un «maggiore effetto che si produceva con l'impiego di simili mezzi». Sono i magistrati nisseni a sottolineare che «il senso dell’”effetto” cui intendeva riferirsi Brusca e che sottintende, senz’altro, alla necessità di amplificare al massimo i risultati delle azioni criminose intraprese all’evidente scopo di soddisfare ulteriori e diverse finalità che il sodalizio intendeva conseguire per il tramite delle stesse, anche attraverso gli attentati del 1992, l’ulteriore finalità di «avere nuovi contatti politici». Una scelta «politica» quella di Cosa nostra, un mutamento di strategia che giunge all’inizio del 1992. Già Cosa nostra voleva uccidere Giovanni Falcone e si era attrezzata per compiere l’attentato con armi tradizionali, ma quando Vincenzo Sinacori, uno degli uomini «spediti» a Roma per uccidere il giudice, torna a Palermo e riferisce a Totò Riina che sono pronti, quest’ultimo gli dice che è tutto cambiato che occorrono azioni eclatanti. Un «ordine» che sarebbe giunto da fuori Cosa nostra. «Doveva servire - dicono i magistrati nisseni - a fare perdere di prestigio alle persone che fino a quel momento governavano l’Italia» A Giovanni Brusca si sono associate le dichiarazioni di altri pentiti, tra questi Antonino Giuffrè, il quale afferma: «All’organizzazione mafiosa vennero a mancare quelle coperture politiche che l’avevano ”garantita” nel corso della sua storia. Questa guerra, chiamiamola così, fatta allo Stato mirava semplicemente ad un obiettivo ben preciso, cioè cercare che lo Stato o parte, siamo sempre lì, nello Stato, entrasse in contatto con Cosa nostra. Cioè che si trovasse un nuovo referente politico perchè quelli...quello che c’era in precedenza era ormai inaffidabile».Ma l’indagine sulla strage di via D’Amelio vede, ancora coinvolti tre funzionari di polizia: Mario Bo, Salvatore La Barbera e Vincenzo Ricciardi, che secondo l’accusa, assieme ad Arnaldo La Barbera, l’ex questore di Palermo ora deceduto avrebbero «depistato».«Qualche volta abbiamo avuto la sensazione che la scena del crimine fosse stata ripulita prima del nostro arrivo» disse il capo della Procura Sergio Lari. Lo stesso magistrato afferma che sono scaduti i termini per le indagini preliminari sui tre poliziotti, ma aggiunge: «Non abbiamo fretta di chiedere l’eventuale rinvio a giudizio o l’archiviazione. Stiamo aspettando la conclusione del ”Borsellino quater”, dove coloro che hanno fatto dichiarazioni sui tre funzionari di polizia dovrebbero testimoniare, dopodiché tireremo le somme». Il Processo cui fa riferimento il procuratore dovrebbe concludersi tra dicembre e gennaio prossimi. Un processo che però non conclude le indagini ancora in corso a Caltanissetta. «Stiamo verificando la possibilità che vi siano altri concorrenti esterni a Cosa nostra i quali hanno avuto un ruolo nella strage. Noi non lasceremo nulla di intentato. Sappiamo, però, che ai processi si giunge con le prove e non con i teoremi». Il procuratore Lari di più non può e non vuole dire, ma sul perché per vent’anni si è indagato su false dichiarazioni allarga le braccia e alla domanda se si è trattato di buona o malafede aggiune: «Io un’idea me la sono fatta, ma non la dirò mai». Ed ecco quello che, invece, ha detto colui il quale venne considerato il testimone più importante della stage, quel Vincenzo Scarantino che ha «permesso» agli investigatori che lo interrogarono a ridosso della strage di costruire una verità che è stata poi smentita dalle indagini della procura di Caltanissetta guidata da Sergio Lari: «Io non sapevo neanche dov'era via D'Amelio. Ho parlato solo per paura: mi torturavano, mi picchiavano, mi facevano morire di fame». Un balordo di borgata diventato «superpentito» sotto sevizie di poliziotti e agenti penitenziari, depistando l'indagine su uno dei grandi misteri d'Italia. È questa la verità di Vincenzo Scarantino, palermitano «malacarne» senza quarti di nobiltà mafiosa, una sconvolgente ricostruzione che è ora agli atti della revisione del processo per l'attentato di via Mariano D'Amelio.I magistrati nisseni ritengono che la strage di Capaci così come quella di via D'Amelio devono essere collegate a vicende che si erano verificate in passato, partendo dal fallito attentato all'Addaura. Ritengono che ci sia un unico filo che lega tutta la strategia stragista di mafia e non mafia. E lo stanno anche dimostrando nel corso delle udienze del cosiddetto «Borsellino quater» che si sta celebrando a Caltanissetta. «Tutto - è stato detto dai pm - va collegato: Cosa nostra nel '92 decise di aprire la guerra allo Stato, con una strategia unica che aveva avuto un prologo all'Addaura, nell'89, ma che scatenò tutto il suo potenziale criminale nel '92 e poi ancora nel '93».Oggi i magistrati nisseni continuano a tessere le fila per legare gli episodi stragisti dall'89 al '92. Il fallito attentato all'Addaura, l'omicidio di Nino Agostino ed Emanuele Piazza fino ad arrivare alle stragi. E su questa indagine, su questo "rigagnolo", novità interessanti sono emerse. Come quella che qualcuno tradì, avvertendo i mafiosi degli spostamenti, in quel giugno di 24 anni fa, di Falcone e della delegazione di magistrati svizzeri in quei giorni a Palermo.Fu Giovanni Falcone a indicare il nome della talpa. Di chi avesse avvertito i mafiosi che lui e la delegazione svizzera sarebbero andati il 20 giugno dell'89 a fare un bagno all'Addaura. Fece nome e cognome: era un ispettore di polizia che era presente alla cena del 19 giugno di ventuno anni fa, quando Giovanni Falcone rinnovò l'invito a trascorrere il pomeriggio a mare. Tutti in quel momento si mostrarono possibilisti e la talpa fece il suo lavoro di spione, avvertendo i mafiosi. L'esplosivo era già pronto, già confezionato e pronto per compiere la strage. Sì perché strage doveva essere. In quel tratto di mare, infatti, non ci andava solo Falcone, ma era frequentato da tanta gente, ignari bagnanti. Tant'è che la borsa contenente l'esplosivo venne notata alle ore 16 del 20 giugno dagli agenti di scorta del giudice, durante un giro di ispezione. Notarono borsa, muta, pinne e maschera, ma non si insospettirono. In quella zona non vi era un divieto di balneazione e vi erano sempre bagnanti. La stessa borsa venne notata da un impiegata regionale e da una pittrice intorno alle ore 14 dello stesso giorno. I mafiosi attendevano Falcone e gli svizzeri, li attendevano per compiere l'attentato quel giorno: il 20 giugno dell'89. Solo un caso evitò che fosse compiuta la strage. Qualcuno della delegazione svizzera chiese di fare un giro per Palermo e di andare a visitare la Cattedrale e di rimandare il bagno all'Addaura. Il rinvio non fu accettato benevolmente da Tatiana Brugnetti, la segretaria della delegazione svizzera, ma si piegò alla scelta degli altri. Un rinvio che probabilmente salvò la sua vita, quella dei suoi amici svizzeri e allungò di tre anni quella di Giovanni Falcone. Lo stesso magistrato che, dopo la scoperta della borsa con la bomba, capì che qualche spia aveva dato l'input e la spia non poteva che essere fra i partecipanti a quella cena del 19 luglio che si tenne all'Hotel Patria, in via Alloro a Palermo. Con Falcone c'erano gli elvetici Carla del Ponte, Claudio Lehmann, Daniele Rusconi, Clemente Gioia, Filippo Giannoni e Tatiana Brugnetti. E ancora Giuseppe Ayala e funzionari ed ispettori di polizia. Giovanni Falcone ebbe un sospetto, un forte sospetto nei confronti di un ispettore di polizia e lo disse. Le indagini, però, non riuscirono a trovare nessuna prova che avvalorasse il sospetto. Sospetti e dubbi che si trascinano da anni. Di certo, invece, c'è, che l'esplosivo utilizzato all'Addaura da Cosa Nostra è dello stesso tipo utilizzato quattro anni prima, il 2 aprile dell'85 vicino Trapani, a Pizzolungo. Lì i macellai della mafia volevano uccidere un giudice, Carlo Palermo. Non ci riuscirono perché mentre l'auto del giudice transitava accanto a quella posteggiata a bordo della strada e imbottita di esplosivo tra le vetture si trovò in mezzo una Golf con alla guida Barbara Asta, una madre che stava accompagnando a scuola i suoi due figli gemelli, Salvatore e Giuseppe di 6 anni. Morirono tutti e tre. Ad uccidere fu lo stesso esplosivo, a dimostrare il legame fra le famiglie mafiose Palermitane e Trapanesi. Anche all'Addaura doveva essere una strage e a chi nell'organizzazione mafiosa manifestò perplessità Salvatore Biondino, il mafioso arrestato in auto con Salvatore Riina, disse: «Non ti preoccupare, che...cioè le spalle le abbiamo ben coperte. Non è che siamo solo noi, non semu sulu nuatri chi vulemu moito a Faicone, ci sono anche altre persone ni commug... aviamu i spaddri belli cummigghiati». A rivelare tutto questo è stato Francesco Onorato che ha aggiunto anche particolari sull'uccisione di Emanuele Piazza, uno dei due uomini legati ai servizi segreti (l'altro è Antonino Agostino) uccisi dopo il fallito attentato all'Addaura. «Quando Biondino mi dice che dobbiamo prendere a Piazza per affogarlo...io e pensavo... ho pensato che allora... il discorso poteva anche essere... il collegamento che avevano fatto tra Emanuele Piazza e la bomba». E sull'argomento mafia-servizi segreti ha dato il suo "apporto" anche Francesco Di Carlo: «Nel 1970 furono piazzate delle bombe davanti ad edifici pubblici di Palermo. Si trattò di un'azione non in linea con gli interessi dell'organizzazione, in quanto vi lavoravano persone vicine all'organizzazione. Ebbi modo di commentare l'accaduto con Bernardo Brusca e con Antonino Salamone i quali mi dissero che il triumvirato costituito da Badalamenti, Bontade e da Riina aveva dovuto dare l'autorizzazione perché attraverso quei delitti si volevano perseguire scopi di depistaggio e di aumento della tensione. Gli incaricati furono i Madonia». Gli stessi Madonia che organizzarono l'attentato all'Addaura. Da soli? Gli stessi Madonia che ora vedono un loro «pilastro» Salvatore "Salvuccio" Madonia imputato nel processo «Borsellino quater» e nel «Capaci bis».Anche su altri aspetti i magistrati nisseni hanno posto la loro attenzione, come ad esempio sull'episodio della distruzione del detonatore dell'ordigno che era stato piazzato all'Addaura. L’allora procuratore nazionale, oggi presidente del Senato, Piero Grasso ha detto che sull'Addaura «uomini dello Stato frenarono la verità». In una parola: depistaggi. E la distruzione del detonatore è un episodio chiave. Fu un maresciallo, Francesco Tumino, che fece brillare l'ordigno, lo stesso maresciallo che intervenne in via D'Amelio per analizzare il cratere lasciato dall'autobomba dopo la strage che uccise Paolo Borsellino e suoi angeli custodi. Tumino disse che il detonatore lo consegnò ad un funzionario di polizia, Ignazio D'Antona, riconoscendolo dopo quattro anni dal fallito attentato. Per questo fatto Tumino è stato condannato per calunnia. D'Antona, invece, è stato condannato a 10 anni per concorso in associazione mafiosa. Nomi e fatti che si rincorrono e si ripetono ed è su questo che i magistrati nisseni stanno indagando. Alla commissione parlamentare antimafia Sergio Lari e gli altri magistrati del pool hanno ribadito che un lungo filo lega tutti i fatti sui quali stanno indagando. Un lungo filo che parte dal 1988 e si trascina con omicidi e stragi fino al 1992. E su quella stagione riecheggia sempre il nome della famiglia mafiosa di Brancaccio, quella famiglia mafiosa guidata da fratelli Graviano al centro di tutte le stragi compiute dal ’92 al ’94, quando poi vennero arrestati a Milano. I fratelli Graviano, Giuseppe 52 anni, e Filippo 54 anni, sono i boss, allora trentenni, che hanno condotto la strategia stragista del 1992-1993 da via D’Amelio alle stragi di Firenze e Milano e come hanno appurato i magistrati di Caltanissetta anche con un ruolo fattivo nella strage di Capaci. Sono loro anche le bombe contro le chiese a Roma tra maggio e luglio del ’93 che lanciavano segnali alla politica e al Vaticano. Inoltre sono sempre loro, secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza – che è stato creduto e riscontrato su tante altre vicende ma non su questo punto – che vantavano di avere intessuto i rapporti con Marcello Dell’Utri per ottenere in quel periodo garanzie sui benefici per i carcerati in caso di vittoria di Forza Italia alle elezioni del 1994. Sono state le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina, uomini di peso della mafia di Brancaccio, a togliere i dubbi sul loro ruolo avuto nell’eccidio del 23 maggio del 1992. L’avviso di conclusione di indagine sulla strage di Capaci, infatti, riguarda quasi tutti uomini legati a doppio filo con i fratelli Graviano e tutti avrebbero fatto attivamente parte della famiglia mafiosa di Brancaccio. È stato il procuratore Sergio Lari, ad affermare che Salvatore Riina ordinò a Giovanni Brusca di procurare l’esplosivo per compiere la strage, ma la stessa richiesta, all’oscuro di Brusca, venne fatta dallo stesso capo di Cosa nostra ai Graviano. Fino a poco tempo fa il ruolo dei fratelli Graviano nella strage di Capaci era stato ritenuto marginale, invece con la nuova indagine vengono indicati come protagonisti non solo dell’eccidio del 23 maggio del ’92 ma anche di tutti quelli che sono stati compiuti in successione. Le prime indagini sulle due stragi del ’92 ipotizzavano che la famiglia di Brancaccio, guidata dai Graviano, avesse organizzato la strage di via D’Amelio, perché a suo tempo tenuta «fuori» da quella di Capaci. Una ipotesi azzerata dalle indagini della Procura di Caltanissetta. E sul ruolo avuto dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano si è, a suo tempo, soffermato l’allora procuratore aggiunto di Caltanissetta Domenico Gozzo: «Se c'è un filo comune individuato nelle stagione stragista questo è rappresentato dai Graviano. Mentre per l'attentato a Borsellino - ha aggiunto Gozzo - è stato scoperto un depistaggio finalizzato a nascondere il ruolo della cosca di Graviano a discapito di quella di Santa Maria di Gesù, per la strage di Capaci dopo oltre venti anni abbiamo scoperto responsabilità rimaste in ombra che avevano alimentato dubbi sulla provenienza dell'esplosivo militare come è il tritolo. Abbiamo illuminato percorsi bui - ha concluso - anche se abbiamo tutto l'interesse a capire se ci sono altri elementi su cui fare luce. Sulla strage di Capaci e in parte su quella di via D'Amelio sappiamo quasi tutto, ora si ci deve concentrare sul resto: sui pochi buchi neri rimasti. Come ad esempio un salto di qualità fatto da Cosa nostra che da associazione mafiosa diventa associazione terroristico-mafiosa».
di Giuseppe Martorana
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