Everett racconta tutte le donne di Zach Wells
Zack Wells ha un cognome che significa pozzi, cavità e non è un caso, visto che è un geologo/paleobiologo a caccia soprattutto di fossili preistorici, la cui catalogazione segna, ritma le giornate della sua vita, e visto che davanti a momenti di tensione drammatica finisce per scappare e rifugiarsi appunto in un caverna del Grand Canyon, prima di finire nel deserto del New Mexico.
Nell’isolamento si riappropria di sé e trova la strada da seguire, come affrontare i problemi non semplici con cui la vita lo ha costretto all’improvviso a confrontarsi e trovare soluzioni magari estreme, tragiche e personali, come nel caso dell’amatissima figlia Sarah, bambina diventata ottima giocatrice di scacchi e lo provoca, vincendolo costantemente.
Questa un bel giorno ha una sorta di mancamento e altri curiosi sintomi che finiranno per farle diagnosticare una malattia genetica rara e degenerativa. Zack e la moglie Meg sanno quindi che la figlia morirà e assistono ai mancamenti e le crisi che aumentano più velocemente del previsto, finché questa non riconoscerà più nessuno e nella sua totale assenza i genitori si sentiranno costretti a ricoverarla in una casa di cura per malati terminali.
Il vero tema portante del romanzo è questa malattia e come la vive Zach, mentre la sua vita continua, in casa, con la moglie e all’università, con colleghi e studenti. Con Meg c'è uno stringersi forte, abbracciarsi di disperata tenerezza e assieme un sentirsi soli. Quanto all’università ecco l’impegno per far aiutare nel lavoro la ricercatrice Hillary Gill, che però è molto depressa e alla fine si suicida, o il sottrarsi ai ripetuti e diretti tentativi di sedurlo della bella e giovane studentessa Rachel, o il tenere a distanza studenti di colore, come è lui, che gli chiedono di appoggiare una protesta per l'uccisione di un ragazzo nero da parte della polizia.
Il racconto di tutte le diverse donne della vita di Zach però appare come una sorta di divagare, di affrontare altre storie, di darci un quadro delle inquietudini e incertezze del protagonista, col rischio che in alcuni momenti si perda la coerenza e l’intima forza del racconto, che vive anche un’altra vicenda sostanziale, anche se prima di quagliare viene a lungo molto diluita. In una camicia che torna dalla lavanderia Zack scopre un biglietto che in spagnolo chiede aiuto. Un bel giorno, rimandando a lavarla, vi nasconde una risposta, ma solo quando la curiosità e la voglia di allontanarsi lo spingeranno a fare un’indagine personale la vicenda prenderà quota, contrapponendo alla opprimente vicenda famigliare di morte una rischiosa storia di salvezza di un gruppo di donne rese schiave dopo essere state rapite a città Juarez, il celebre luogo in Messico dove le donne spariscono di continuo.
Un’impresa che può ridare un senso alla sua vita, ma solo nel primo, netto finale, visto che Everett per questo romanzo, che arriva dopo l’intenso e visionario «Quanto blu», ha deciso di scrivere tre versioni con sostanziali avvenimenti diversi che riguardano, in un altro caso, la storia della figlia e, nell’ultimo, la fuga delle donne messicane. Il lettore scoprirà solo leggendo quale versione ha acquistato, visto che l’editore, come voluto dall’autore, le ha stampate senza pubblicare indicazioni o dare alle copie diversi connotati. Sarà il lettore poi a decidere se si tratta solo di un gioco superfluo, per alleggerire una storia drammatica, o di un modo pleonastico per sottolineare ancor più la casualità e imprevedibilità dell’esistenza.
PERCIVAL EVERETT, «TELEFONO»
(LA NAVE DI TESEO, pp. 286 - 22,00 euro
Traduzione di Andrea Silvestri
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