Euromissili 2.0. Anzi, euromissili punto e a capo

Società | 20 novembre 2018
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Ritorno al passato?

Il mese scorso, il 20 ottobre, l’amministrazione Trump ha annunciato l’intendimento di ritirare gli Stati Uniti dal Trattato sulle forze nucleari a medio raggio (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty - INF). Siglato nel 1987, è il Trattato che ha posto fine alla pericolosa stagione degli “euromissili”.

Questo centro studi non può non tenere i riflettori accesi sull’intenzione dichiarata e sui suoi sviluppi. Pio La Torre è conosciuto soprattutto per due fondamentali battaglie: per l’intuizione di aggredire i patrimoni della criminalità mafiosa (tradottasi nella “Legge Rognoni – La Torre”) e per la lotta finalizzata allo smantellamento degli euromissili americani installati nell’aeroporto di Comiso. E’ pertanto un obbligo, un preciso dovere, seguire ed analizzare come si evolverà questa intenzione che non fa che aumentare la velocità di collisione nella rotta in cui si sono avventurati gli Usa di Trump e la Russia di Putin alle prese con i rispettivi deliri di superpotenza. Deliri sempre più minacciosi, sempre più pericolosi ed incontrollabili. Assumiamo l’impegno di tornare nei prossimi mesi più volte sull’evoluzione, o piuttosto l’involuzione, che la questione assumerà.


Le intenzioni dell’amministrazione Trump nella stampa italiana

Prima di entrare nei risvolti tecnici, militari e strategici – probabilmente in alcuni passaggi astrusi sia come linguaggio che concettualmente ma necessari per capire di cosa stiamo parlando, quale è la posta in gioco, quali sono i rischi che si tornano a correre con questo ennesimo esempio di “storia che riavvolge il nastro all’indietro” – sarà bene partire da una domanda: come è stato riportato dalla stampa italiana l’annuncio americano? All’attenzione alla notizia dei primi tre -quattro giorni è seguita una sostanziale rimozione. Fatte salve troppo poche eccezioni, la stampa – radiotelevisione compresa – in Italia è troppo provinciale e spasmodicamente concentrata sulla politica nazionale per dedicare molte pagine, cartacee od on line, alla politica internazionale. Basta mettere a confronto i quotidiani italiani con i quotidiani inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli per cogliere visivamente questa distanza. Impegnata a seguire con milioni di citazioni al giorno la “de rebus gestis” dei due competitori consoli della repubblica, Salvini e Di Maio, di cui si riporta tutto – selfie, interviste, dichiarazioni, interventi del giorno su facebook, repliche e controrepliche, foto, esibizioni canore, battute, menu delle cene, poco ci manca che ci siano anche audio dei rutti – non si trova poi spazio, e minuti in radio e tv, da dedicare alle vicende d’oltreconfine. Tranne che si tratti della saga della casa reale inglese, gettonatissimo campo di incursione.

Fateci caso: persino nelle visite di stato e di lavoro dei nostri Presidenti della Repubblica e del Consiglio o nelle visite a Roma di Presidenti di stati esteri – a cui si dedicano servizi sempre più stringati, marginali come collocazione – tutto viene ricondotto alle nostre polemiche politiche nazionali del momento. Solo le dichiarazioni in conferenza stampa dei Presidenti che le riprendono o le sottintendono o ad esse si riferiscono vengono riportate. Dei temi affrontati, del contenuto degli accordi firmati, delle prospettive - produttive, economiche, culturali spesso miliardarie - che aprono non si accenna neppure o non si va oltre una toccata e fuga di qualche secondo.

In un contesto del genere comprensibile che alla fiammata conseguente alla notizia dell’annuncio abbia fatto seguito un assordante silenzio. Su di un tema sul quale viceversa occorre conoscere, documentarsi, scavare per capire quali scenari si prospettano.


Cosa cambia per l’Europa

Cominciamo a farlo riportando i commenti alla notizia di tre istituti/organi di stampa/centri studi specializzati – “ISPI-Istituto per gli studi di politica internazionale”, “Limes”, “Analisi Difesa” – che considerata la loro, chiamiamola così, “ragione sociale” dedicano al tema approfondimenti significativi. Ripetiamo. C’è un dazio da pagare, un tecnicismo nel linguaggio che può scoraggiare nella lettura i non addetti ai lavori ma di cui, considerato il tema, non si può fare a meno.

Il primo contributo alla comprensione è un articolo di Gianluca Pastori pubblicato il 22 ottobre sul sito dell’ISPI. Titolo: “USA verso il ritiro dall’INF: cosa cambia per l’Europa”. Pastori, collaboratore dell’ISPI, è professore associato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa nella Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ecco quale è la sua lettura del ventilato ritiro americano: “L’annuncio dell’amministrazione Trump della volontà di uscire dal Trattato sulle forze nucleari a medio raggio ha sollevato prevedibili reazioni, sia in Russia, sia in Europa. Siglato nel 1987, all’inizio della distensione sovietico-americana inaugurata da Michail Gorbachev, il Trattato ha rappresentato la prima breccia nel muro di ostilità che separava, all’epoca, i due Paesi e il primo prodotto concreto della “diplomazia dei summit” che avrebbe caratterizzato il sistema delle relazioni fra USA e URSS negli ultimi anni di vita di quest’ultima. Anche per queste ragioni, il Trattato INF ha sempre avuto un forte peso simbolico. Per l’Europa ha significato il ritiro dei missili “SS” sovietici (in particolare gli SS-20) stanziati in Europa orientale e dei Pershing II e dei Cruise (BGM-109G) statunitensi schierati come risposta in Gran Bretagna, Belgio, Paesi Bassi, Germania e Italia. Pur non interessando i missili lanciati da aeroplani (ALBM) e sottomarini (SLBM), esso ha inoltre significato, più in generale, l’avvio di una fase di credibile denuclearizzazione della difesa continentale, con l’eliminazione di tutti i vettori con gittata compresa fra 500 e 5.500 chilometri e con il mantenimento dei soli vettori “strategici” (ICBM).

Da questo punto di vista – osserva Pastori – è comprensibile il timore che la nuova posizione di Washington ha sollevato presso alcuni alleati, che vedono il rischio di un “ritorno al passato” dagli effetti difficilmente prevedibili. Il governo tedesco, in particolare, ha espresso preoccupazione per il possibile impatto di una decisione definita “deplorevole” e destinata a “porre difficili interrogativi a noi [tedeschi] e a tutta l’Europa”. E’ tuttavia significativo che la posizione di Berlino non sia del tutto condivisa. Già negli scorsi mesi gli alleati orientali della NATO si erano detti preoccupati per le presunte violazioni da parte di Mosca delle clausole del Trattato, mentre nelle ultime ore le autorità britanniche hanno espresso un chiaro sostegno alla scelta di Washington, rimarcando la necessità di inviare alla Russia il “chiaro messaggio che […] deve rispettare gli impegni previsti dall’accordo sottoscritto”.

Quello della sopravvivenza del trattato INF (almeno nella sua forma attuale) è, infatti, un problema “di lungo periodo” che, seppure sottotraccia, avvelena da tempo le relazioni Stati Uniti-Russia. Già nel 2005, le autorità di Mosca avevano ventilato la possibilità di un ritiro unilaterale dall’accordo, proponendo in seguito a Washington quella (rifiutata) di revocarlo congiuntamente. Sempre da Mosca è stata avanzata la proposta di estendere la portata del Trattato INF a livello globale, invitando altri paesi ad aderirvi, anche se in questo caso la mossa è sempre parsa più propagandistica che dettata da vera convinzione. Fra questi due poli – la crescente sfiducia delle parti riguardo alla sua effettività e i timori per le conseguenze di un impegno che non contrasta effettivamente la proliferazione se non fra le parti stesse – si colloca tutta la storia recente del documento. Il fatto che, dal 2014, si siano moltiplicate le voci riguardo ai tentativi russi di aggirare i vincoli del Trattato attraverso lo sviluppo di un nuovo vettore “non compliant” (SSC-8) e, di contro, le proteste russe per la presunta non conformità di alcuni componenti del sistema della difesa missilistica implementato dalla NATO nei Paesi dell’Europa orientale non fanno che alimentare questa sfiducia.

E’ presto per dire – prosegue il professor Pastori - se l’amministrazione Trump abbia davvero deciso di mettere in soffitta il Trattato INF. L’esperienza degli ultimi anni ha insegnato che gli annunci “a effetto” del Presidente sono stati spesso strumentali alla rinegoziazione su basi più favorevoli di accordi che l’amministrazione considerava non più confacenti agli interessi degli Stati Uniti. Tuttavia, i punti di frizione fra Mosca e Washington sono, oggi, parecchi, non solo in campo nucleare. L’approssimarsi del voto di midterm e della lunga rincorsa per le presidenziali del 2020 concorre anch’esso a spingere Trump (spesso accusato di eccessiva sudditanza nei confronti di Mosca) ad assumere posizioni più rigide; posizioni, peraltro, non sgradite a una fetta importante dell’elettorato democratico. In questa prospettiva, considerazioni di natura interna, non meno di quelle di natura internazionale, concorrono a sostenere le posizioni del Presidente”.

La conclusione di Pastori mette in risalto una delle più plateali tra le tante contraddizioni di Donald Trump: “Resta in sospeso il tema delle ricadute che la vicenda potrà avere sulla sicurezza europea. E’ stato ripetutamente osservato come l’amministrazione Trump abbia accentuato in modo significativo lo “scollamento” esistente, in tema di visione della sicurezza, fra le due sponde dell’Atlantico. Da questo punto di vista, la posizione sul Trattato INF non sembra fare eccezione. D’altro canto, Stati Uniti più coinvolti nel campo dei vettori intermedi sono anche Stati Uniti più coinvolti sul teatro europeo. Paradossalmente, si potrebbe anzi affermare che proprio la scelta di relegare il Trattato INF tra le reliquie di un tempo passato finisca per “riaccoppiare” gli interessi di Washington e quelli dei partner dell’Europa centro-orientale. Si rafforza, quindi, lo “sbilanciamento a est” dell’asse nordatlantico? E’ uno degli esiti possibili. Già negli ultimi mesi dell’amministrazione Obama si era assistito a un simile processo, con il dispiegamento di nuovi assetti USA al confine orientale della NATO. Non sarebbe però senza ironia che questa politica fosse portata avanti, oggi, da un Presidente che sin da prima di arrivare alla Casa Bianca aveva individuato nell’enfasi posta sulla difesa dell’Europa contro una possibile minaccia da est un inutile e costoso retaggio delle guerra fredda”.


L’ “equilibrio di potenza” di Mosca e la minaccia di rappresaglia militare

Scenari ancora più inquietanti disegna Pietro Figuera in un contributo dal titolo “Il missile Trump sul trattato antimissile” apparso su “Limes” il 26 ottobre: “L’evento più rilevante della settimana dal punto di vista geopolitico è l’annuncio di Donald Trump dell’intenzione di ritirare gli USA dal Trattato sulle forze nucleari intermedie stipulato con l’allora Unione Sovietica nel 1987. La decisione è maturata nonostante l’apparente disponibilità russa a qualche forma di compromesso sui missili, o anzi forse proprio per questa, che potrebbe essere interpretata come un segnale della debolezza di Mosca.

Da tale punto di vista, l’amministrazione USA non ha tutti i torti. La svolta sul trattato prende infatti in contropiede il Cremlino, costringendo a impegnarsi in una probabile nuova corsa agli armamenti, proprio in una fase di tagli obbligati al bilancio militare. Benché l’odierna Federazione Russa non abbia le stesse difficoltà economiche dell’Unione Sovietica al termine della sua storia, è chiaro che il confronto missilistico con Washington non sia sostenibile nel lungo periodo. Né fino a ieri rientrava nei piani di Putin, che piuttosto prevedevano la riduzione delle spese militari sotto il 3 per cento del Pil.

Ad ogni modo la Russia non resterà a guardare passivamente gli eventi. Secondo Konstantin Kosacev, presidente della commissione esteri al Consiglio federale russo, Mosca non reagirà tanto alla fine in sé del Trattato, bensì alle azioni concrete che Washington potrebbe portare avanti in seguito. Tra queste, l’installazione dei missili in Europa (o in Giappone), alla quale, stando alle ultime dichiarazioni di Putin, la Russia potrebbe rispondere con una rappresaglia militare.

Il mantenimento dell'equilibrio di potenza, obiettivo strategico di Mosca, è sempre più difficile”.


La minaccia di ritiro dall’INF e la spesa militare di quest’anno di USA, Cina e Russia

Gianandrea Gaiani nell’editoriale del 24 ottobre su “Analisi Difesa” dal titolo “Gli USA fuori dal Trattato INF: gli obiettivi di Trump” mette l’accento sia sugli aspetti strettamente militari che sul diverso approccio seguito dall’amministrazione in carica rispetto alla precedente di Obama: “Forti critiche e perplessità ha suscitato in tutto il mondo la decisione annunciata da Donald Trump che gli USA intendono uscire dal Trattato INF che vieta di schierare in Europa missili balistici terrestri a medio raggio (500-5.500 chilometri di gittata) stipulato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov.

L’intesa raggiunta alla fine della Guerra Fredda portò allo smantellamento dei missili di crociera Tomahawk e balistici Pershing 2 statunitensi ed SS 20 sovietici e soprattutto ad una corsa al riarmo in quel segmento degli arsenali missilistici e nucleari che anticipò il ritiro sovietico dall’Afghanistan, il crollo del Muro di Berlino e la fine dell’URSS.

Trump accusa i russi di non rispettare l’accordo a causa di due battaglioni di missili di crociera Novator 9M729 (SSC-8) con raggio d’azione di 1.500 chilometri basati ai confini russi occidentali.

Mosca nega ma Barak Obama già nel 2014 aveva minacciato di uscire dal Trattato INF a causa dei test sui missili R-500 lamentando anche lo schieramento nell’enclave russa di Kaliningrad, incuneata tra la Polonia e le Repubbliche Baltiche, dei missili Iskander con raggio d’azione limitato a 415 chilometri ma rapidamente estensibili.

Le due armi di Mosca, impiegabili dallo stesso veicolo-lanciatore, costituiscono però la risposta all’avvio della costruzione dello “scudo” antimissile che gli USA hanno schierato in Polonia e nella Repubblica Ceca dotato di radar e missili avanzatissimi, ufficialmente per intercettare eventuali missili balistici lanciati dall’Iran. Una motivazione che non ha mai convinto né il Cremlino né gli osservatori imparziali dal momento che i radar dello “scudo” sono in grado di esplorare in profondità lo spazio aereo russo.

La decisione di abbandonare il trattato INF annunciata da Trump sembra nascondere quindi motivazioni ben diverse. Del resto il Trattato bandiva solo i missili basati a terra e oggi armi simili sono ben presenti su molte navi da guerra e aerei da combattimento statunitensi e russi, come hanno dimostrato le esibizioni di forza degli ultimi anni dalla Libia alla Siria, allo Yemen”.

Secondo Gaiani “per Washington denunciare il Trattato significa soprattutto premere per nuovi negoziati con Mosca da allargare però anche a Pechino, vera potenza strategica emergente rispetto agli anni ’80, attualmente libera da vincoli nello sviluppare missili con capacità nucleare a breve, medio e lungo raggio. Washington potrebbe schierare missili a medio raggio a Taiwan, in Corea del Sud, Giappone e nell’Europa Orientale minacciando Pechino e Mosca con armi che potrebbero raggiungere con una testata atomica il bersaglio in tempi di volo brevissimi.

La denuncia del trattato INF scatenerebbe una nuova corsa al riarmo atomico e balistico simile a quello voluto da Reagan negli anni ’80, costringendo Russia e Cina a fare altrettanto per minare le loro economie costringendole ad investire nella difesa più di quanto vorrebbero”.

Il direttore di “Analisi Difesa” riporta a questo riguardo dati significativi sulla spesa militare di americani, russi e cinesi. Importi che fanno impressione per il loro colossale ammontare ma anche per il loro marcato squilibrio: “Al di là dei reiterati allarmismi a cui ci hanno abituato Casa Bianca, Pentagono e NATO, gli USA spendono quest’anno per le forze armate oltre 700 miliardi di dollari (l’intera NATO circa 1.000) contro i 220 della Cina e i 70 della Russia.

Ci sono poi aspetti non strettamente militari che Trump sembra volere perseguire con questa iniziativa nei confronti degli alleati europei. Accentuare le tensioni con Mosca anche sul fronte missilistico-nucleare porterà a nuove pressioni USA tese a indurre i partner europei a spendere di più per la difesa (almeno il 2 per cento del Pil è la pretesa di Washington) acquistando soprattutto armi “made in USA” e ospitando sul proprio territorio nuovi missili americani come gli Euromissili degli anni ’80. Non a caso Obama rinunciò a uscire dal trattato INF in seguito alle pressioni dell’Europa. Oggi tale operazione favorirebbe da un lato l’ulteriore export militare americano, sul quale Trump non fa mistero di puntare per riequilibrare la bilancia commerciale con molti stati alleati”.

Bisogna osservare a questo riguardo che raramente i rapporti tra alleati dell’Europa occidentale e Stati Uniti – con l’eccezione della sempre “USAaccodata” Gran Bretagna e dell’Italia gialloverde, new entry nelle grazie trumpiane – sono stati ad un livello così basso. Di altro tenore invece l’intesa con gli stati orientali dell’Europa, dalla Polonia ai Paesi Baltici. Intimoriti con fondate ragioni dal nostalgico mix di gradassate, esibizioni muscolari, supporto ai movimenti filorussi orchestrato da Putin in quello che continua a considerare una specie di recinto di casa, si abbracciano sempre più strettamente al governo di Washington.


Il nemico preferito dagli USA? La Russia

Infine, sempre da “Limes” una analisi di Laura Canali. Rivelatoria – o piuttosto premonitoria, in quanto risale al 22 febbraio di quest’anno – sebbene non strettamente ancorata all’annuncio del ritiro dal Trattato, ancora di là da venire. Titolo: “La Russia è il nemico preferito dagli USA”. Prova a spiegare quali intenti strategici muovono la politica militare statunitense nel confronto con Mosca. Con due sottolineature. La prima: “la superpotenza americana è ormai consapevole che necessita di un nemico corrispondente per restare incollata al mondo”. La seconda: “la Russia serve agli Stati Uniti per ottimizzare la propria politica estera”.

“Ad animare la russofobia di Washington sono ragioni strategiche, industriali, politiche e operative.

Alla volontà di prevenire l’ascesa di un egemone russo-tedesco in Eurasia, si sommano le esigenze del complesso militare industriale che drammatizza l’attuale congiuntura internazionale per ottenere dal Congresso finanziamenti e commesse. Al riguardo vige la regola descritta dal libertario Ron Paul, per cui i grandi produttori bellici si costruiscono in laboratorio la minaccia maggiormente aderente ai loro interessi.

In un periodo di tagli alla spesa, il solo spauracchio cinese non può bastare. Quindi a corroborare la risolutezza di presidente e parlamentari contribuisce il sentimento antirusso diffuso tra la popolazione statunitense, a sua volta scientificamente alimentato dalla propaganda governativa. Come palesato dall’ultimo sondaggio Gallup, per cui gli americani vedono in Mosca la principale insidia alla sicurezza nazionale. Molto più grave di Pechino o Pyongyang.

Da ultimo – ma non per rilevanza – la Russia serve agli Stati Uniti per ottimizzare la propria politica estera. Per pensarsi coerenti e ricordarsi dei propri limiti. In nuce: per agire in una dimensione geopolitica. In realtà concentrarsi oltremodo sul Cremlino distoglie risorse preziose al contrasto dell’ascesa cinese. E Putin potrebbe sparigliare le carte alleandosi con il cinese Xi Jinping.

Ma la superpotenza americana non se ne cura. Non solo perché considera contro natura una possibile sintonia russo-cinese. Danneggiata nel periodo post-guerra fredda dalla propria erratica condotta, è ormai consapevole che necessita di un nemico corrispondente per restare incollata al mondo”.


Dai poco piacevoli ricordi alla miscela sempre più esplosiva

Due tratti comportamentali accomunano Trump e Putin: l’inaffidabilità e la spregiudicatezza. Sommiamoli all’ ”America first” dell’inquilino della Casa Bianca e alla certezza dello zar del Cremlino che “la Russia non è mai stata vinta” e che “è una superpotenza globale in crescita” dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la durissima crisi economica seguita a quello sfaldamento. Il risultato della somma è che il braccio di ferro dei due signori della guerra planetari – anche per dimostrare che “manine” intervenute in aiuto elettorale di Trump e che Russiagate non hanno scalfito la rivalità tra le due superpotenze – innesca settimana dopo settimana una miscela sempre più esplosiva.

Nei mesi a venire sarà tutta da vedere come il governo gialloverde italiano - che non fa mistero delle sue simpatie sia per l’America di Trump che per la Russia di Putin, non a caso entrambi nemici dichiarati dell’Unione Europea – si barcamenerà tra due posizioni sempre più conflittuali.

Sul tema “euromissili sì, euromissili no” o “nuovi euromissili” torneremo, come promesso. Credevamo che nomi e sigle sinistri come Pershing, Cruise, SS-20 fossero ferrivecchi e poco piacevoli ricordi di quando eravamo giovani. Non è così. Non sarà così.

 di Pino Scorciapino

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