Donne che uccidono i figli

8 marzo 2013
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In una notte di febbraio, a Carpi, una donna di ventidue anni, immigrata in Italia dalla Moldavia, avverte le prime doglie del parto. Si alza in silenzio, attenta a non svegliare il marito, la figlia, né la sua stessa madre che fa da badante a un’anziana italiana. Si chiude in bagno. Sola, senza chiedere aiuto, la ragazza partorisce una bambina, poi l’avvolge in un fagotto di panni e la chiude nella lavatrice spenta. All’alba, sfiancata da un’emorragia, si presenta al pronto soccorso dell’ospedale. Ai medici basta uno sguardo per capire che ha appena partorito. Ma la donna nega. I medici chiamano i carabinieri. Saranno loro a trovare nella lavatrice il cadavere della neonata. Piantonata in ospedale, la madre giura che la piccola è nata morta. Dice anche: «Non posso permettermi un altro figlio». Un’inchiesta è già aperta: per omicidio e occultamento di cadavere.

La giovane moldava, che a ventidue anni ha una figlia di sei, è da mesi senza lavoro. Disoccupato è anche suo marito. L’unica a poter contare su un reddito, in quella famiglia d’immigrati, col suo lavoro di badante, è la madre di lei.

Le scarne cronache che i giornali hanno dedicato alla storia non annotano la reazione di questa donna al gesto della figlia e alla morte della nipote. Si limitano a elencare “i precedenti”: neonati ritrovati in un cassonetto (a Bologna, il 19 gennaio scorso) o, ancora, chiusi nella lavatrice (due anni fa, a Mantova). Sono parecchi, “i precedenti”. A Roma, il 30 dicembre del 2012, nel bagno di un MacDonald’s, una ragazza trovò nella tazza del water un neonato insanguinato – e gli salvò la vita. Nelle telecamere del locale restò impressa la possibile immagine della madre: una donna giovane, dai capelli lunghi, che nei fotogrammi registrati sembra muoversi con disinvolta freddezza. Forse, si disse, una prostituta dell’Est, una delle migliaia di giovani donne offerte ai nove milioni di maschi che, secondo approssimate statistiche, formano il mercato nazionale di clienti della prostituzione.

Nell’Italia del femminicidio, dell’omofobia, delle bulle che pestano la compagna di colore urlandole «negra», le storie di donne che uccidono i figli alla nascita o li abbandonano per strada o in un cassonetto vengono accolte con fuggevole orrore e virtuoso sdegno. Ogni volta, capita che qualcuno ricordi che una legge consente alla madre di partorire in sicurezza in ospedale e di non riconoscere il figlio. E’ una delle tante buone leggi italiane che suonano così dolci alla coscienza e restano ignote ai più, soprattutto a quelle donne immigrate che, come la ragazza moldava di Carpi, più avrebbero bisogno di conoscerle.

Nella solitudine di queste madri, nell’estremismo della loro scelta, è difficile non avvertire l’effetto di una violenza sottile: un’invisibile, taciuta, non misurabile violenza esercitata contro donne che la condizione di immigrate rende deboli. Chiamarla violenza di genere non è una stravaganza perché solo alle donne succede di restare incinte e una gravidanza, nella vita di queste donne, può significare la perdita del lavoro e, con quella, la fine del permesso di soggiorno. Non è un caso che, secondo l’ultimo Rapporto del ministero della Salute sull’attuazione della legge 194, il 34,2 per cento delle donne che hanno abortito in Italia sono straniere. E’ una percentuale da anni in crescita: nel 1998 gli aborti di donne straniere erano il 10,1 per cento del totale. Da allora la percentuale è triplicata, mentre il numero delle italiane crollava del 41 per cento.

Oggi, con buona pace dei tanti che strepitavano contro la 194, profetizzando l’aumento esponenziale delle interruzioni di gravidanza, il tasso di abortività in Italia, secondo il Rapporto ministeriale, è “tra i più bassi osservati nei paesi industrializzati”. Forse per questo nessuno fa più caso all’impennata di obiezioni di coscienza tra ginecologi, anestesisti e personale non medico. Un’impennata che coincide, da un lato, con l’aumento del numero di donne straniere che abortiscono e, dall’altro, con il “continuo decremento” (così la prudente prosa ministeriale) del numero dei consultori, ovvero di quelle strutture che, tra l’altro, dovrebbero prevenire il ricorso all’aborto. Si legge nel Rapporto che, in tema di contraccezione, «le donne straniere presentano un quadro di conoscenze scarse, di attitudini (buone) e di competenze pratiche (scarse) simile a quello riscontrato tra le donne italiane nel 1982-1983». Come cambiare questa situazione, il Rapporto non lo dice. Né sindacati o partiti, ancorché di sinistra, sembrano preoccupati di mettere a punto un sistema di tutele che difenda la parte più debole della disoccupazione nazionale, i migranti che perdono il lavoro e con quello, spesso, il diritto di restare in Italia. Ma sarà il caso di cominciare a ragionarci – o non avremo il diritto di indignarci se una giovane moldava infila in lavatrice la figlia neonata, non sapendo come farla vivere.

 di Bianca Stancanelli

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