Don Giovanni? Un quasi clochard
Incapace di sublimare le fandonie in arte della seduzione, il “Don Giovanni” di Binasco vive rottamato in habitat di estremo pauperismo. Mastino ma non (del tutto) meschino, velleitario senza il senso del visionario, edonista e sessista in disarmo. Al suo ultimo stadio di logoramento e discesa agli inferi ancor prima che la “giustizia divina” (non meglio classificata) gliene infligga destinazione. Accolto semmai – dalla ribalderia alla cronica misoginia – in una spoglia effigie di pietas e misericordia che richiama, nelle apparenze grigio-miserande di un Commendatore canuto e allampanato (il convitato di pietra), l’archetipo di un Michelangelo ‘senza più gloria’ mentre cinge fra le sue braccia un gradasso privo di carisma, senza arte ne parte e alla fuga di casa.
Nella progressiva atmosfera di un degrado ‘cosmico e periferico’ al contempo (come se, puta caso, il Lido di Ostia o i Bassi di Napoli fossero gli ultimi rimasugli del pianeta), il seduttore seriale, egregiamente modellato da Gianluca Gobbi (che ha le ‘physique du rôle’ e una vaga somiglianza istrionico-accattivante con il Tino Buazzelli da giovane), sa essere schietto e sprezzante nella ‘congrua misura’, quasi un Falstaff contemporaneo e insicuro. La cui urgenza di ‘solennizzare’ l’istinto predatorio con il ‘sacramento’ del matrimonio (plurimo, rapace) assegna ulteriori connotati ossessivi e impuberi – liddove il “predatore di anime”, spavaldo e crapulone ambirebbe simbolizzare l’incostanza e l’incontinenza di una subcultura mirata a ‘ridurre’ prede e avversari a squallida selvaggina di passo.
Più demenziale che delinquenziale, Don Giovanni vive alle estremità di uno spregio dispotico e capriccioso, che ne affievolisce le ‘sostanze’ di libertinaggio e ne accresce quelle del compulsivo anarcoide autolesivo. Non un “eroe solitario alla ricerca della libertà assoluta, anche quando sfocia in blasfemia e ateismo”, ma uno sbandato ed ingordo girovago cui religione, metafisica, pensieri d’amore e metafisica non sfiorano nemmeno i periodi ipotetici. Non perché egli affoga in un degrado di maniera, ma in quanto privo di postulati e progetti contigui ad una normale intelligenza. Un caso limite ma non avvincente.
Da un’estremità all’altra, dovrebbe erigersi il mondo dei padri, dei benpensanti, del ‘figliol prodigo’ rinnegato e anelato da un rigidissimo padre, cieco e retorico nel suo gorgo di minacce, ripudio, punizioni a venire. E da una madre inerte, imboccata a vista, consunta da malattia terminale: se non fosse che il tutto si esaurisse (ed esaurisce) in posture fumettistiche e atmosfere scialbe, asfittiche. Consunte su immagini bidimensionali (e smidollate) e in aloni iper-pauperistici, evocanti (forse) qualcosa di Fassbinder o del primo Garrone.
Da una sponda all’altra (fra i libertino e i suoi censori, primo fra tutti il servo Sganarello) resta purtroppo una terra di mezzo, vuota e mingherlina, un’accelerazione di sequenze squinzie, schematiche, azzardate sino alla arbitraria spericolatezza (fine a se stessa), rispetto alla quale – un esempio fra tanti – non sapremo perché il Don Giovanni con giubbotto da coatto (dalla parlantina tipicamente ‘nordista’) vada poi a parare, ex abrupto, in una taverna partenopea per fare incetta di nuove pulzelle in sostituzione dell’ormai rinnegata Elvira ‘la monachella’.
Nulla di strabiliante o eversivo, comunque. Dalla metà degli anni sessanta, giusto per restare al teatro italiano (a iniziare, se non erro da un delizioso, parodistico “Giove in doppiopetto” con Carlo Dapporto), il dileggio, lo scherno demistificante di eroi mitologici e letterari è stato pane quotidiano di Trionfo, Cobelli, Castri, Cecchi, sino alle più recenti kermesse di Emma Dante: amati o detestati dal pubblico più composito. Ciò che qui manca è, al dunque, un’idea forte di regia, nel lavorare all’impronta e in mancanza di uno specifico progetto drammaturgico – senza che i ‘garanti’ Molière e Tirso de Molina possano porre rimedio.
°°°
“Don Giovanni” di Molière
regia Valerio
Binasco
con (in o. a.) Vittorio Camarota, Fabrizio Contri, Marta
Cortellazzo Wiel
Lucio De Francesco, Giordana Faggiano, Elena
Gigliotti, Gianluca Gobbi
Fulvio Pepe, Sergio Romano, Ivan
Zerbinati
scene Guido Fiorato
costumi Sandra Cardini
luci
Pasquale Mari
musiche Arturo Annecchino
Produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
al Teatro Argentina di Roma e, da febbraio, al Piccolo di Milano
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