Deterrenza nucleare e Scala di Kahn. Dalla guerra fredda all’aggressione russa dell’Ucraina
1.Il “ricatto atomico” di Putin
Domenica 27 febbraio 2022. Nella tarda mattinata il presidente bielorusso Alexander Lukashenko è il primo a evocare lo spettro nucleare. "Le sanzioni - dichiara - spingeranno la Russia verso la Terza Guerra Mondiale. Quindi dobbiamo mostrare moderazione per non finire nei guai. Perché una guerra nucleare sarebbe un disastro".
“Poche ore dopo da Mosca la notizia della nuova mossa di Putin: è stato infatti allertato il sistema difensivo nucleare. Poche parole, riferite dall'agenzia russa Sputnik, che hanno parlato di un nuovo scenario nella guerra in Ucraina. "Putin - si legge - ha ordinato di porre le forze di deterrenza dell'esercito russo in regime speciale di servizio da combattimento". La decisione sarebbe stata presa dopo un incontro con il ministro della Difesa, Serghei Shoigu, e il capo di stato maggiore Valeri Gerasimov. "I Paesi occidentali - sono state la parole di Putin riportate dalle agenzie russe - non stanno solo intraprendendo azioni ostili contro il nostro Paese nella sfera economica, intendo quelle sanzioni di cui tutti sono ben consapevoli, ma anche gli alti funzionari dei principali Paesi della Nato fanno dichiarazioni aggressive contro il nostro Paese". Da qui la decisione dell'allerta. Le forze di deterrenza messe in servizio da combattimento comprendono anche le armi nucleari”. (Mauro Indelicato “Putin attiva il sistema di allerta nucleare. Kiev: “Pronti a incontro coi russi”, “Il Giornale”, 27 febbraio 2022).
Un brivido corre sulla schiena dei popoli di tutto il mondo. La parola deterrenza, ricorrente in ambito tecnico-strategico ma pressochè ignota al grande pubblico, significa letteralmente “potere di distogliere da una azione dannosa per timore di una punizione o una rappresaglia; azione o potere deterrente (soprattutto con riferimento alle armi nucleari e ai loro vettori)”. Nella crisi ucraina irrompe prepotentemente il cosiddetto “ricatto nucleare” russo. Rafforzato il 2 marzo da un ulteriore carico di minaccia e arroganza gettato sul piatto della bilancia dal ministro degli esteri di Mosca Serghei Lavrov: “ "Una Terza Guerra Mondiale, se dovesse scoppiare, sarebbe nucleare e devastante", ha avvertito il ministro degli Esteri russo Lavrov in un'intervista ad Al Jazeera citata dalla Tass. La Russia non resterà mai isolata con il numero di amici che ha, ha detto il ministro degli esteri russo, Serghei Lavrov, in un'intervista al canale tv Al Jazeera. "La Russia ha molti amici ed è impossibile isolarla", ha detto Lavrov, secondo quanto riporta la Tass citando frammenti dell'intervista sul profilo twitter del canale. (“Lavrov, la Terza Guerra Mondiale sarebbe nucleare”, Ansa 2 marzo 2022).
2.Deterrenza ed escalation
Di deterrenza e di rischio di guerra nucleare nonché delle conseguenze che comporta si argomenta nel mondo negli ambienti scientifici, politici e militari già da prima del lancio delle due bombe atomiche finora sganciate dagli americani, nel 1945 in Giappone. Non basterebbero tutti gli scaffali di una grande biblioteca, gigantesche banche dati ed enormi archivi informatici per contenere tutte le pubblicazioni di scienziati, fisici, filosofi, strateghi, militari, politologi e via discorrendo sulla deterrenza. In tutte le sue sfaccettature: concettuale, applicata, impostata, modificata, reimpostata nel corso dei decenni trascorsi fino ad ora. Come funziona? Cosa e chi garantisce? Che pericoli potenzialmente apocalittici comporta? Quali sono le sue controindicazioni? Cercheremo di approfondirlo e di capirne qualcosa in più nelle pagine che seguono. Ora che con l’aggressione all’Ucraina da parte dell’esercito russo i rischi di allargamento della guerra in Europa, con i fondati timori di scontro tra Russia e Nato – anche non voluto, anche accidentale – niente sarà più come prima. Ora che persino la più impensabile, mostruosa, planetaria follia di un conflitto nucleare su vasta scala viene minacciata e dunque può materializzarsi ai più alti livelli decisionali. Lo faremo attraverso mirate spiegazioni, non facili né semplici per un argomento così complesso, che ci saranno d’aiuto per comprendere definizioni e dottrine. Corre l’obbligo di una avvertenza: facciamo ricorso a pochissime analisi, in più di un caso compendiali, rispetto alle migliaia di trattati, studi, pubblicazioni, approfondimenti, manuali cartacei quando ancora il web non era nato e non si era diffuso. Così come rispetto ad altrettante montagne di documentazione e pubblicazioni che ora riempiono migliaia e migliaia di pagine sostitutive delle pubblicazioni cartacee nell’universo parallelo internettiano.
Una seconda avvertenza: avranno una funzione di rilievo nella nostra ricognizione concetti come la “risposta flessibile” e, in particolare, una scala di misurazione della “escalation” prima politica e poi militare (la “Scala di Kahn”). Vecchia di 57 anni. Secondo molti studiosi è del tutto superata sul piano scientifico, concettuale, politico, militare. Tuttavia dà ancora la misura in modo fotografico - dalla lettura dei suoi “gradini” e dalla terminologia che adotta - di come la deterrenza ossia il pilastro su cui si fondano i rapporti di confronto tra le grandi potenze ed i blocchi anche nel XXI secolo se scricchiola persino nella sua più piccola fessura fa crollare l’intera costruzione. In modo devastante ed irreversibile. Insomma può comportare persino l’Apocalisse o l’Olocausto nucleare.
Iniziamo con una serie di definizioni e concettualizzazioni accompagnate anche da confutazioni che nel corso degli anni le hanno rese superate od obsolete. Ci viene in aiuto una eccellente (e comprensibile) schematizzazione operata dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Perugia intitolata “Deterrenza e difesa nell’era nucleare”:
“Raymond Aron (Pace e guerra tra le nazioni, 1983) evidenzia quattro aspetti importanti della strategia di deterrenza:
La deterrenza è al contempo di carattere offensivo e difensivo, convertendo una tattica offensiva (rappresaglia) in una strategia difensiva.
“La dissuasione dipende tanto dai mezzi materiali di cui dispone lo stato che vuol fermarne un altro, quanto dalla risolutezza che lo stato oggetto di dissuasione attribuisce allo stato che lo minaccia di una sanzione”.
È importante che il potenziale attaccante possieda la certezza (o almeno un considerevole dubbio) che le minacce del dissuasore saranno realmente attuate in caso di necessità.
Da questo punto, segue l’importanza della percezione dell’avversario, nella considerazione di quanto le potenziali azioni di deterrenza vengono considerate sufficienti a dissuadere.
Le relazioni tra stati sono state e sono caratterizzate da un rapporto di deterrenza: l’avversario è dissuaso dall’attaccare perché teme la risposta dello stato attaccato, la quale può concretarsi in una sconfitta per l’attaccante o in un’azione punitiva (rappresaglia) i cui costi per l’attaccante risulterebbero superiori ai benefici derivanti dall’attacco.
La tipologia classica della deterrenza si basa su tre fattori posti in alternativa:
Deterrenza per negazione all’avversario di benefici (timore della sconfitta).
Deterrenza attraverso l’imposizione all’avversario di costi eccedenti i benefici (timore della rappresaglia). Tale aspetto riguarda sia le circostanze nel corso della guerra, sia quelle esterne alla guerra stessa.
Deterrenza in relazione agli attori: diretta, quando riguarda i due soggetti coinvolti; indiretta o estesa, quando la minaccia dissuasiva di rappresaglia implica la presenza di stati terzi, dei quali lo stato dissuasore deve in qualche modo garantire la protezione (“ombrello nucleare”).
Secondo Aron, si possono delineare tre modelli di funzionamento della strategia di deterrenza:
Modello dell’impunità dell’aggressore: lo stato attaccato non è stato in grado di parare il colpo né di rispondere in modo adeguato. La deterrenza non ha funzionato e l’aggressore rimane impunito e vittorioso.
Modello dell’equivalenza del delitto e del castigo: lo stato che ha subìto l’attacco è in grado di lanciare una rappresaglia di entità almeno pari a quella dei danni subiti (MAD, Mutual Assured Destruction). La minaccia contenuta nel rapporto di deterrenza è stata attuata.
Modello intermedio: la minaccia è attuata, ma i danni inflitti all’aggressore sono minori di quelli subiti dallo stato aggredito.
L’entità delle conseguenze ipotizzabili con l’avvento delle armi atomiche, al di fuori di ogni ragionevolezza, e il possesso di ingenti arsenali nucleari da parte delle due superpotenze (allora Aron si riferiva a Usa e Urss, n.d.r.), rende di fatto poco credibile se non impossibile l’idea stessa di una tale forma di deterrenza. Da qui il paradosso: può veramente essere credibile una minaccia basata su qualcosa di virtualmente impossibile?
Intorno a questo interrogativo si sviluppò il dibattito strategico a partire dagli anni Cinquanta, tanto più a seguito della crisi di Berlino del 1948 e della guerra di Corea del 1950, nel corso delle quali il non-uso della bomba fece emergere con chiarezza il problema della credibilità del suo utilizzo come strumento di rappresaglia e la difficoltà di estendere la copertura offerta dalla deterrenza oltre i confini nazionali.
Tale dibattito vide emergere sostanzialmente due teorie prevalenti: quella del warfighting (basata su un costante incremento dei propri mezzi di deterrenza al fine di garantirsi la vittoria finale) e quella del conflitto stabile (basata su una reciproca accettazione delle condizioni di partenza, che non contemplano vincitori in un conflitto nucleare).
La teoria del warfighting
I teorici del warfighting partivano dalla constatazione che le armi nucleari erano ormai divenute mezzi affidabili di rappresaglia e che, di conseguenza, una strategia basata sulla minaccia del loro utilizzo era tecnicamente possibile, trasferendo così il problema dal piano tecnico a quello della credibilità, della risolutezza.
Di fronte ad un avversario ritenuto aggressivo e poco affidabile come l’Urss, l’unico modo per dimostrarsi risoluti era quello di mantenere la superiorità militare e di preparare la vittoria in caso di conflitto.
Strategia della “rappresaglia massiccia” (amministrazione Eisenhower, 1953, segr. di stato John Foster Dulles): basata sulla maggiore capacità nucleare USA
Si ponevano tuttavia due problemi: quello dei ‘conflitti limitati’ e della ‘possibilità di difesa’. Il primo relativo alla evidente impossibilità di rispondere in misura “illimitata” con uno scontro totale ad un’azione offensiva limitata; il problema della difesa evidenziava la necessità di strumenti difensivi tali da garantire da un eventuale primo colpo nucleare in modo da rassicurare anche gli alleati sulla reale volontà di usare armi nucleari in circostanze diverse da un attacco diretto contro il territorio americano.
B. Liddell Hart: “Oserebbe un governo responsabile fare uso della bomba H come risposta ad un’aggressione locale limitata?... Nella misura in cui la bomba H riduce la verosimiglianza di una guerra totale, accresce le possibilità di una guerra limitata promossa attraverso un’aggressione locale massiccia”.
William Kaufmann: “Se raccogliessimo la sfida sovietica piomberemmo nell’orrore incommensurabile di una guerra atomica. Se non reagissimo, però, patiremmo una grave perdita di prestigio e diminuiremmo la nostra capacità di costituire un deterrente contro un’ulteriore espansione del comunismo.
Problema 1: come definire gli obiettivi limitati per i quali sarebbe valsa la pena di rischiare un allargamento del conflitto?
Problema 2: l’uso di mezzi limitati (armi nucleari tattiche) avrebbe generato una inevitabile escalation (Kissinger, guerra limitata: l’unico modo per mantenere un conflitto limitato è l’uso di armi convenzionali, in grado di evitare perdite non giustificabili e pericoli di escalation).
La teoria del conflitto stabile
Alle problematiche definite dal warfighting i fautori del conflitto stabile sommano l’enorme e intollerabile capacità distruttiva delle armi nucleari.Di fronte a tali evidenze, il valore del possesso di armi nucleari consiste nella capacità di garantire la rappresaglia attraverso un secondo colpo e non nel rendere possibili strategie basate sulla credibilità della minaccia di un primo colpo.
Scopo della strategia non è la vittoria, ma lo stallo, raggiunto attraverso il reciproco riconoscimento della capacità di esercitare la deterrenza nei confronti dell’avversario (teoria dei giochi: “gioco del pollo”).
Le armi nucleari non devono essere giudicate secondo il criterio militare dell’operatività, ma secondo quello politico della stabilità.
Tale approccio determina la possibilità di una seria politica di controllo degli armamenti e il raggiungimento di accordi su livelli stabili dei mezzi di deterrenza.
McNamara, la risposta flessibile e la MAD
Tipica dell’opera di McNamara (Segretario alla Difesa dal 1961 al 1968 sotto le amministrazioni Kennedy e Johnson) fu la ricerca di una molteplicità di opzioni strategiche che permettessero di evitare, durante una crisi, scelte obbligate e non credibili. Non si trattava di stabilire come una guerra dovesse essere combattuta, quanto piuttosto di essere pronti a combattere diversi tipi di guerra, a partire naturalmente dai conflitti convenzionali.
Passaggio dalla “rappresaglia massiccia” alla “risposta flessibile” (riscontrabile anche nel build-up militare nucleare e convenzionale: più armi e di tipo diverso = più opzioni disponibili).
Si tratta di stabilire una vasta gamma di opzioni militari che vanno dalla risposta convenzionale ad uno scambio nucleare counterforce “lontano dalle grandi città”, tale dunque da limitare i danni nel corso di una guerra nucleare, rendendo quindi credibile una risposta diversamente ritenuta troppo devastante per essere tollerata.
La gestione della questione dei missili di Cuba, in cui la minaccia di ritorsione fu tenuta ai massimi livelli fino a determinare la “resa” sovietica, portò all’evoluzione del pensiero strategico nella cosiddetta MAD (Mutual Assured Destruction) derivante dal concetto di “rappresaglia massiccia” attraverso la garanzia di una reciproca capacità di infliggere danni inaccettabili al proprio avversario anche dopo aver subito un primo colpo a sorpresa.
Il raggiungimento di un’analoga capacità da parte sovietica diventava la migliore garanzia reciproca di una stabilità internazionale.
Attraverso la MAD si riconosceva che le forze offensive di per sé non avevano alcuna speranza di eliminare le forze offensive dell’avversario.
Paradossalmente il fattore difensivo ne usciva fortemente penalizzato. Infatti “la possibilità che una delle superpotenze sviluppi un’efficacia difesa antimissile ... finirebbe per annullare la forza deterrente dell’avversario, esponendo quest’ultimo ad un primo attacco contro cui non sarebbe in grado di reagire”. (York e Wiesner, 1984)
Missili antibalistici contro MAD
Un punto di debolezza della MAD era costituito dall’assenza di indicazioni sull’uso delle forze strategiche da utilizzare nell’eventualità che la deterrenza fallisse il suo scopo.
In questo senso lo sviluppo da parte dell’Urss di ABM (missili antibalistici) determinò la messa in discussione della MAD.
Che senso aveva ancora parlare di possibile riposta a fronte di un sistema di missili anti missile in grado di arginare o arrestare ogni risposta?
Da qui il rinnovato impegno verso nuove armi offensive come i vettori a testata multipla indipendente (MIRV), in grado di moltiplicare il numero degli ordigni che la difesa avrebbe dovuto arrestare.
Il perfezionamento degli ABM sovietici, oltre ai progressi della tecnologia radar, determinò a sua volta la corsa agli armamenti di difesa da parte USA, riaprendo la sfida (interna e internazionale) tra attacco e difesa.
Azione-reazione e “folle precipitazione”
McNamara: “Quali che siano le loro o le nostre intenzioni, le azioni – o addirittura le azioni potenziali – che ciascuno dei due intraprende nello sviluppo delle forze nucleari scatenano necessariamente una reazione da parte dell’altro. Se noi schierassimo un potente sistema ABM negli Stati Uniti, è chiaro che i Sovietici sarebbero fortemente motivati ad aumentare la propria capacità offensiva in misura tale da cancellare il nostro vantaggio difensivo”.
La “folle precipitazione”, avrebbe spinto la corsa agli armamenti verso livelli sempre più pericolosi, portando ad una proliferazione degli arsenali e ad un continuo miglioramento della precisione delle testate. A partire dal 1967 il totale dei missili americani si era mantenuto costante al livello di 1.750, ma dieci anni dopo gli stessi missili potevano trasportare oltre 7.000 testate, con eguale evoluzione da parte sovietica.
Il concetto di escalation
Il termine viene usato per indicare una trasformazione qualitativa del carattere di un conflitto verso una crescita in ampiezza e intensità.
Esiste ora un accordo generale sul fatto che esso si riferisce a qualcosa di più del semplice allargamento di un conflitto ed implica piuttosto il superamento di un limite accettato in precedenza da entrambe le parti. Un limite del genere è, ad esempio, quello tra obiettivi militari e civili, tra l’attacco al territorio degli alleati e quello delle stesse superpotenze e tra l’uso di armi convenzionali e nucleari.
Herman Khan identificava 44 gradini di una “scala dell’escalation”, nella quale le armi nucleari iniziavano ad essere utilizzate al quindicesimo, sebbene la soglia nucleare non si considerasse superata veramente fino al ventiduesimo. I responsabili politici potevano esercitare il proprio controllo lungo tutto il percorso verso il finale apocalittico di una spam war (guerra spasmodica o insensata).
Il concetto di escalation
Il dibattito sulla strategia nucleare si è incentrato sulla possibilità per uno dei due avversari di controllare il conflitto nucleare in modo da non dover soffrire un livello di danni inaccettabile, raggiungendo però i propri obiettivi strategici.
Alla fine emersero due approcci fondamentali al problema dell’escalation:
Tentare di prevalere in un conflitto dominando a qualsiasi livello ed attribuendo all’avversario l’onere del passaggio ad un livello più alto e pericoloso;
Sfruttare le incertezze inerenti al processo dell’escalation a fini di deterrenza, avvertendo l’altra parte che la situazione poteva finire fuori controllo”.
3.La “Scala di Kahn”
Ora che possediamo, grazie alle informazioni appena lette, una sufficiente infarinatura sui concetti di escalation e deterrenza nell’era nucleare (naturalmente solo una infarinatura perché le variazioni sul tema e gli aggiornamenti dottrinali ed applicativi sono numerosi) soffermiamoci sulla “Scala di Khan”. Non prima di conoscerlo un po’ meglio rispetto alle brevi informazioni su di lui appena lette nella schematizzazione.
Figlio di ebrei immigrati dall’Europa orientale, futurologo, teorico dei sistemi, stratega militare, lo statunitense Hermann Kahn (1922–1983) è stato uno dei fondatori dell’Hudson Institute ed uno dei più eminenti futurologi dell’ultima parte del XX secolo. Inizialmente divenne famoso come stratega militare e teorico dei sistemi lavorando nella Rand Corporation.
Ha analizzato fasi e probabili conseguenze della guerra nucleare. I principali contributi di Kahn furono le diverse strategie che sviluppò durante la Guerra Fredda per contemplare "l'impensabile" - vale a dire, la guerra nucleare - utilizzando applicazioni della teoria dei giochi. Kahn è spesso citato (con Pierre Wack) come il padre della pianificazione degli scenari. Sostenne che affinché la deterrenza avesse successo, l'Unione Sovietica doveva essere convinta che gli Stati Uniti avessero capacità di secondo attacco per non lasciare dubbi al Politburo che anche un massiccio attacco perfettamente coordinato avrebbe garantito una misura di rappresaglia che li avrebbe lasciati anche devastati: “Come minimo, un deterrente adeguato per gli Stati Uniti deve fornire una base oggettiva per un calcolo sovietico che li persuaderebbe che, non importa quanto abili o ingegnosi fossero, un attacco agli Stati Uniti comporterebbe un rischio molto alto se non certezza di distruzione su larga scala alla società civile e alle forze militari sovietiche”. Tra le decine di opere di Khan - molte parecchio predittive e confermate nel tempo, anche nei campi dello sviluppo economico, delle scienze, dello spazio - ai fini della nostra indagine ne segnaliamo tre: “Sulla guerra termonucleare”, Princeton University Press 1960; “Pensando all’impensabile”, Stampa Orizzonte 1962; “Sull’escalation: metafore e scenari”, Preager 1965.
Nel 1965, appunto, lo studioso americano elabora la “Scala di Kahn”. Ecco i 44 gradi della scala che costituiscono lo schema base della teoria strategica dell’«escalation»:
Sub–crisi: 1) Crisi in evidenza; 2) Manovre politiche, economiche diplomatiche; 3) Dichiarazioni solenni e formali.
Crisi tradizionali: 4) Posizioni irrigidite- confronto di volontà; 5) Dimostrazioni di forza; 6) Mobilitazione; 7) Provocazioni e ritorsioni; 8) Intense azioni di disturbo; 9) Confronti militari drammatici.
Crisi accentuate: 10) Rottura delle relazioni diplomatiche; 11) Stato di grande allarme; 12) Guerra, o grande azione militare tradizionale; 13) Grande escalation complessa; 14) Dichiarazione di guerra limitata(tradizionale); 15) Quasi guerra nucleare; 16) Ultimatum nucleari; 17) Sfollamento delle popolazioni (limitato al 20%); 18) Dimostrazione di forza molto minacciosa; 19) Attacco antiforze (limitato); 20) Embargo o blocco mondiale.
Crisi di intensità eccezionale: 21) Guerra nucleare (limitata e dimostrativa); 22) Dichiarazione formale di guerra nucleare limitata; 23) Guerra nucleare limitata (a carattere militare), 24) Contromisure insidiose; 25) Grande sfollamento (70%).
Attacchi centrali dimostrativi: 26) Attacchi contro zone interne; 27) Attacchi contro sistemi militari; 28) Attacchi contro impianti industriali; 29) Attacchi contro le popolazioni; 30) Sfollamento generale (95%); 31) Rappresaglie da ambo le parti.
Guerre centrali militari: 32) Dichiarazione di guerra totale; 33) Guerra lenta contro industrie; 34) Guerra lenta contro forze; 35) Attacco simultaneo contro forze (circoscritto); 36) Attacco disarmante vincolato; 37) Attacco contro forze (risparmiando le città); 38) Attacco contro forze senza vincoli.
Guerre centrali contro le popolazioni: 39) Guerra lenta contro città; 40) Attacco simultaneo contro potenziale; 41) Attacco disarmante terroristico; 42) Attacco devastatore contro le popolazioni; 43) Altri tipi di guerra totale ma controllata; 44) Guerra spasmodica, incontrollata.
Ognuno di questi «scalini» di Kahn corrisponde ad un determinato momento strategico nella dialettica fra le potenze, lungo una scala che dalla «guerra fredda» arriva ad una guerra totale con uso di tutti i mezzi e incontrollata. La «soglia nucleare» passerebbe fra il numero 20 e il 21.
Inventiamoci un esercizio. Ogni lettore provi ad indicare nel momento in cui legge questo testo a quale gradino della scala più o meno siamo arrivati in Ucraina e in Europa.
Quanto è attendibile la “Scala di Kahn”? Non dobbiamo dimenticare che risale a 57 anni fa. Di acqua sotto i ponti ne è passata tanta. Decine di variabili nuove sono intervenute. Pensiamo solo al pericolo di terrorismo nucleare o al numero di paesi dotati di armi militari e vettori per trasportali che si sono aggiunti da allora alle “potenze nucleari”. E, più di recente, alla dirompente novità rappresentata da pochi anni a questa parte dai missili ipersonici capaci di una velocità di crociera almeno cinque volte superiore alla velocità del suono, praticamente inintercettabili. Tuttavia la “Scala” rimane uno dei non molti tentativi che visualizzano possibili accadimenti e, con il progressivo appesantimento delle crisi, consentono di rendersi conto all’impronta, ben più chiaramente rispetto ad interminabili pagine ed elucubrazioni di studiosi e strateghi militari, verso quali catastrofi ci si diriga passo dopo passo.
4.Una scala di misurazione ormai superata?
Nel corso degli anni – con il modificarsi del sistema politico internazionale, con il passaggio dal bipolarismo Usa-Urss all’unipolarismo statunitense ed ora al tripolarismo Usa-Cina-Russia – tanti scenari sono cambiati e da tempo la “Scala di Khan” è stata dichiarata superata. Inevitabile, tutto sommato.
Già nel 1971 da noi Stefano Silvestri scriveva:
“Lo studioso americano che meglio di ogni altro ha definito i limiti della rigidità nella strategia atomica è stato probabilmente Kahn. E’ sua l’invenzione esplicativa della Doomsday Machine, o macchina del giudizio universale, ed è sua la migliore analisi delle conseguenze di una tale invenzione (invenzione che influisce direttamente sulla “logica” dello stratega, prima ancora di essere realizzata, e anche se non viene realizzata). Questa macchina di “fine del mondo” è semplicemente lo sviluppo logico della rappresaglia massiccia, cioè di quella rigida concezione (che fu di Foster Dulles nonché dei sovietici) per cui a qualsiasi attentato contro di noi si risponde distruggendo tutto (la pantoclastia di cui parlavamo all’inizio). L’automaticità renderebbe tale macchina anche credibile. Ma sarebbe utile? ci farebbe raggiungere qualche obiettivo? ci difenderebbe realmente, nella complessità e globalità dei nostri interessi? o non avrebbe piuttosto un effetto paralizzante anche verso di noi?
La teoria della risposta flessibile è stata elaborata proprio per rispondere a questa domanda. Essa prevede lo stabilimento di varie priorità, alle quali si risponderebbe con l’uso di forze convenzionali e/o nucleari a vario livello (al livello cioè ritenuto sufficiente per scoraggiare l’aggressore da ulteriori attacchi, per ristabilire la deterrenza e per “punirlo” dell’attacco iniziato). Tale strategia, rifiutando l’immediata prospettiva pantoclastica e graduandola nel tempo, rende più credibile, oltre che manovrabile, la strategia di impiego dell’arma atomica.
La risposta flessibile può essere definitiva sia a vari livelli quantitativi che a vari livelli qualitativi. Un esempio di quest’ultimo criterio è la distinzione fatta da McNamara tra attacchi "controforze" cioè essenzialmente su obiettivi militari e attacchi “controcittà” (cioè globali e con fini unicamente strategici). Un’altra distinzione è tra obiettivi, tattici o strategici, al di fuori del territorio delle superpotenze (definito “santuario”), e obiettivi, tattici o strategici, direttamente sui santuari. Alla base di questa strategia è la necessità, affermata anch’essa da McNamara, di disporre di una capacità di distruzione, ai vari livelli, assicurata (cioè in grado di sopravvivere a qualsiasi attacco e di penetrare qualsiasi difesa: di qui la dispersione delle basi, i sottomarini con i missili nucleari, il perfezionamento tecnologico, ecc.) e di avere una efficace strategia di limitazione dei danni (sia propri che eventualmente del nemico).
Hermann Kahn ha razionalizzato e enfatizzato queste decisioni, elaborando la strategia dell’escalation. Tale strategia non è ufficialmente definita nei particolari (né lo potrebbe mai essere, perché un eccesso di automatismo limiterebbe le possibilità di scelta politica), ma chiarisce molto bene l’arco delle scelte entro cui opera una strategia “flessibile”. L’escalation, secondo Khan, è l’enfatizzazione de concetto di brinkmanship. Essa prevede la manipolazione del rischio non solo in situazione di compellenza (con il termine compellenza si intende una politica di coercizione particolare che ha lo scopo di modificare la volontà del nemico piuttosto che ridurre le sue capacità militari, n.d.r.), ma in situazioni guerreggiate vere e proprie: è il tentativo di scalare, e riconfermare, a livelli sempre maggiori, la deterrenza anche durante la guerra, convenzionale e nucleare. Così Kahn arriva a costruire un celeberrimo esempio (o scenario) di escalation portata ai suoi limiti estremi, e graduata in ben 44 gradini. Ogni tanto tra un gradino e l’altro si situa una “soglia”, che è largamente politica e provoca un particolare acceleramento dell’escalation.
E’ inutile sottolineare qui quanto vi è di artificioso in tali schematizzazioni. Ma deve essere chiaro che questa risposta “razionale” alla pantoclastia è un elemento politico e strategico molto raffinato, perché permette, ad alto livello, una “capacità di gioco sui margini di rischio” estremamente ampia, avvalorando l’ipotesi di eventuali larghi margini di recupero. L’impiego illimitato delle forze, mezzo impolitico, viene così sostituito dall’impiego limitato delle forze, mezzo che può diventare politico. Questa reintroduzione della guerra come mezzo della politica non è naturalmente priva di grandi rischi (…)”.(“La strategia sovietica” a cura di Stefano Silvestri, Ed. IAI, 1971)
5.Una rivisitazione dopo mezzo secolo della “Scala di Kahn”. Il pensiero di Kahn sulla guerra termonucleare
In anni più recenti una significativa rilettura critica, per così dire “aggiornata”, del pensiero di Kahn viene effettuata nel 2010 da John Wohlstetter nel saggio “Hermann Kahn Public Nuclear Strategy 50 Years Later”. L’autore, ricercatore del Discovery Institute, fiduciario dell’Hudson Institute, snocciola nel suo saggio “un compendio dei passaggi salienti di Hermann Kahn sulla strategia nucleare”. Una rilettura allora a poco meno di mezzo secolo dalla elaborazione non solamente della nota “Scala di Kahn” ma di decine di tesi, opinioni, analisi espressi da Khan in particolare nelle sue tre principali opere che abbiamo sopra segnalato. Riportando a volte direttamente in corsivo o virgolettato interi concetti e pagine dello studioso. Fanno parte del pensiero di Kahn decine di definizione che proviamo a riportare nella maggiore sintesi possibile:
Definisce utopistico il disarmo totale. Elenca sei caratteristiche desiderabili di un deterrente: 1) spaventoso; 2) inesorabile; 3) persuasivo; 4) a buon mercato; 5) non soggetto ad incidenti; 6) controllabile. Definisce tre tipi di deterrenza: di tipo I è la deterrenza di un attacco diretto; la deterrenza di tipo II è indicata come l’uso di minacce strategiche per dissuadere un nemico dall’impegnarsi in atti molto provocatori; la deterrenza del III tipo potrebbe essere chiamata deterrenza “tit-for-tat” (colpo per segno, n.d.r.), graduale o controllata. Avverte sulla trappola di elaborare ipotesi attente e convenienti su ciò che potrebbero fare gli avversari. Difende la tecnica dell’utilizzazione dei calcoli quantitativi nell’analisi strategica. Nota che il primo attacco comporta enormi vantaggi nella guerra nucleare (“Nella maggior parte delle situazioni che non implicano l’annientamento reciproco automatico ci sarà un vantaggio nel colpire per primi”). Valuta la paura dell’incidente come parte del calcolo strategico. Avverte di trattare con i paesi neutrali (“Non dobbiamo sembrare troppo pericolosi per i neutrali”). Sulle minacce ai nemici scrive: “Non dobbiamo sembrare troppo pericolosi per i nostri nemici”. E tuttavia: “Non possiamo permetterci di far sentire i nostri nemici troppo al sicuro”. Nota che nella guerra termonucleare l’obiettivo strategico di un attaccante è negativo (“Il primo e il più importante degli obiettivi dell’attaccante è limitare i danni a se stesso”). Correla la mega-letalità della guerra nucleare con le decisioni delle leadership e nota che molti leader potrebbero rifuggire dalla guerra nucleare: “La maggior parte dei governi preferirebbe comunque osservare tali limiti. Quasi nessuno vuole passare alla storia come il primo uomo a uccidere 100.000 persone”. Sottolinea l’importanza delle potenze nucleari per la salvaguardia da guerre accidentali. Evidenzia che con le armi nucleari più potenti (“multi-megaton”) “la questione della continuazione delle nazioni (per alcuni, della civiltà) si pone anche nella più breve delle guerre”. Mette in chiaro che dobbiamo pensare alla guerra termonucleare: “Ai nostri tempi, la guerra termonucleare può sembrare impensabile, immorale, folle, orribile, o altamente improbabile, ma non è impossibile. Per agire in modo intelligente dobbiamo imparare quanto più possibile sui rischi. Potremo così essere in grado di evitare la guerra nucleare. Potremo anche essere in grado di evitare le crisi che ci portano sull’orlo della guerra nucleare”.
Kahn scrive inoltre sull’opinione diffusa che l’annientamento risulterebbe inevitabilmente dalla guerra nucleare. Si sofferma sulla differenza tra il modo in cui politici e scienziati affrontano i problemi. Cita una frase di Stalin detta nel 1949 all’ambasciatore americano in Urss che in questi nostri giorni sembra risuonare più che mai attuale nella narrazione russa (putiniana) dell’attacco all’Ucraina e all’Europa: “Non vogliamo la guerra più di quanto non voglia l’Occidente. Ma ci interessa meno la pace rispetto all’Occidente, e in ciò sta la forza della nostra posizione”.
Altri concetti di Kahn o frasi di altri da lui riportate appaiono profetiche o comunque attualissime nella grave crisi di questi giorni. In tanti adesso additano Vladimir Putin come un Hitler del XXI secolo senza alcuno scrupolo. Ebbene, scrive Khan, “oggi un Hitler del tipo che immaginiamo ora, uno che è sconsiderato, assolutamente determinato, e chi è pazzo o simula realisticamente la follia, avrebbe un importante vantaggio negoziale. Se qualcuno ti dice: “Uno di noi deve essere ragionevole e non sarò io, quindi devi essere tu” ha molto vantaggio contrattuale effettivo, in particolare se è armato di armi termonucleari”. E ancora: “Un mondo armato di armi termonucleari fornirebbe un campo fertile per i paranoici, i megalomani e in effetti tutti i tipi di fanatici”.
Altri temi del pensiero di Kahn. I pericoli della proliferazione nel corso dei decenni. “Nazioni con un numero relativamente piccolo di megatoni nelle loro mani potrebbero esercitare una leva sproporzionata sulla distribuzione del potere politico” (né più né meno il caso della Corea del Nord che lo studioso ha così precisamente previsto). La rabbia crescente diretta contro l’Occidente. Le pressioni in Occidente per il disarmo. Comportamenti o minacce irrazionali. Indebolimento della soglia nucleare (“La temuta escalation incontrollata sarebbe piuttosto più probabile che si verifichi al secondo, terzo o uso successivo di armi nucleari rispetto al primo utilizzo”). La difficoltà di ripristinare la tradizione del ‘non uso’ dopo l’uso dell’arma nucleare. L’uso strategico della “capacità di primo colpo credibile”. Le conseguenze della mancata considerazione delle opzioni nucleari. La minaccia di ricorso alle armi nucleari (anche in questo caso, come si vede, ritroviamo un parallelo con i nostri giorni ed il ricatto atomico del Cremlino).
Sui temi affrontati merita infine di essere citato per la sua completezza di analisi il corposo studio, 245 pagine, approntato per la “United States Air Force” nel 2008 dalla Rand Corporation. Si intitola “Dangerous Thresholds. Managin Escalation in the 21st Century” e lo firmano Forrest E. Morgan, Karl P. Mueller, Evan S. Medeiros, Kevin L. Polipeter e Roger Cliff.
6.Aggiornamenti: la deterrenza nel XXI secolo
Recentissimo, dell’anno scorso, è infine il saggio di Niccolò Petrelli del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Roma Tre intitolato “La deterrenza nel XXI Secolo: Un’Analisi Storica e Teorica”. Nel saggio, molto interessante ed aggiornato, l’autore sull’evoluzione storica del concetto di deterrenza scrive che è possibile identificare quattro dimensioni fondamentali di variazione del concetto di deterrenza: “Attori; Capacità; Meccanismo; Processo”. Le quattro dimensioni sono utilizzate come criteri “per analizzare i cambiamenti nel fenomeno e nel concetto della deterrenza attraverso le varie ondate di ricerca”. Il ricercatore individua le seguenti ondate: Le Prime Tre Ondate: 1945-1990; La Quarta Ondata: 2000-2009; la Quinta Ondata: 2007-2016.
Petrelli liquida in poche battute la “Scala di Kahn”: “Durante la Guerra Fredda, lo stratega Hermann Kahn equiparò in un noto studio il funzionamento della deterrenza ad una scala, i cui pioli rappresentavano i possibili livelli nella minaccia dell’uso della forza a fini coercitivi. Tale modello ha esercitato una notevole influenza ed ha rappresentato per molti anni il paradigma concettuale (a volte inconscio) attraverso cui studiosi, politici, funzionari pubblici pensavano la deterrenza e il suo funzionamento. Esso appare oggi drammaticamente inadeguato a rappresentare la natura e quelli che potremmo definire i possibili “percorsi” del fenomeno.
Da questo elaborato emerge come la più moderna teoria della deterrenza abbia evidenziato percorsi di funzionamento multipli del fenomeno, sia orizzontali che verticali. Una metafora più appropriata per pensarne il funzionamento della deterrenza in senso ampio appare dunque quella di una rete di percorsi trasversali ed intersecanti assimilabili ad un network. In tale modello, ad una minaccia in uno specifico dominio e/o fondata su un determinato meccanismo è possibile rispondere in un dominio alternativo, con un tipo di capacità differente attivando un meccanismo di altro tipo. Tale sempre più diffusa consapevolezza si è tradotta a livello concettuale in quanto accennato pocanzi: una progressiva fusione della nozione di deterrenza con quella di compellenza. Quest’ultima può essere definita un’altra strategia coercitiva mirante a costringere l’obiettivo a intraprendere un’azione o a sospenderne una già in corso. In altre parole, come sottolineato da Lawrence Freedman, la compellenza riguarda la modifica del comportamento di un avversario/competitore più che il suo condizionamento del suo calcolo strategico”.
7.Crisi dei missili di Cuba nel 1962 e crisi russo-ucraina. Se un leader è chiamato a decidere di premere quel fatidico bottone
Non sono pochi gli analisti e gli osservatori - ma anche comuni cittadini avanti negli anni che ne hanno ricordo in quanto allora bambini o giovani - ai quali questi giorni caldi che stiamo attraversando fanno rivivere i giorni non meno gravidi di tensione della crisi dei missili di Cuba dell’ottobre 1962. Come vive un capo di stato di una nazione impegnata sul terreno situazioni del genere? Nella sua brillante tesi “Quale risposta flessibile? La dottrina strategica americana nell’Era Kennedy”, LUISS Guido Carli, Dipartimento di Scienze politiche, Cattedra di Storia delle Relazioni internazionali, A.A. 2015-2016, la giovane Giulia Altimari descrive l’evoluzione della strategia nucleare statunitense, la cosiddetta “The Uncertain Trumpet” e la già sopra richiamata “Mcnamara Revolution”, il revisionismo della Risposta Flessibile (Flexible Response), gli avvenimenti di Cuba e i prodromi del conflitto in Vietnam (il primo coinvolgimento in Vietnam inizia nel 1963 durante la presidenza Kennedy). E dedica pagine che non possono non essere riportate al processo decisionale in caso di crisi internazionale grave, a quanto il leader di una superpotenza sia disposto a mettere in conto. “L’inizio di JFK aveva attratto attenzioni e sollecitazioni fuori dalla norma. Le sue parole, la sua campagna elettorale, i suoi modi diretti e immediati avevano aperto le porte alla speranza di un nuovo inizio in un contesto internazionale segnato dall’emergere di possibili spiragli di dialogo…”. Poi vennero i problemi, le incoerenze, le logiche ed i linguaggi da Guerra Fredda. La Altimari - citando nella parte finale il saggio di E. Krippendorff “La politica estera e la morale” pubblicato in “Critica della politica estera”, Fazi Editore, 2004 – così argomenta: “(…) in questa prospettiva siamo come al cospetto di una ‘storia alternativa’, quando la storiografia si avvale di discorsi preparati – e mai pronunciati – dai leader, discorsi spesso antitetici a quelli che il mondo ascoltò e su cui edificò paure ed aspettative. Discorsi vertenti, in prevalenza, su tragedie poi evitate – a volte di un soffio – rimasti a lungo secretati, ma capaci di configurare una ‘storia nuova’, ex oblivione solutis. Si dice che la storia non sia fatta di ‘se’, di ‘giochi controfattuali’; eppure, leggendo questi documenti, meditando su ciò che poteva essere e non fu, è lecito chiedersi in che mondo ci saremmo trovati se i leader li avessero declamati, loro malgrado; chiedersi, ancora, che cosa provarono quando, in procinto di prendere ‘decisioni epocali’, non poterono escludere che potessero sortire conseguenze spaventose. Un caso emblematico è rappresentato dal discorso pronunciato da Kennedy all’apice della crisi missilistica di Cuba (ottobre 1962): “Concittadini americani, con cuore pesante, nella necessaria osservanza del giuramento da me prestato alla mia carica, ho ordinato – e l’aviazione degli Stati Uniti ha già eseguito – operazioni militari con sole armi convenzionali per la rimozione dal territorio cubano di un importante arsenale nucleare”. Nel discorso ‘desecretato’ Kennedy giustifica così la decisione: “Questa operazione è condotta in base all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite sulla legittima difesa e per la sicurezza nazionale”. Il presidente non adombrava ma non escludeva il ricorso ad armi atomiche, cedendo ad una ‘fatalità delle cose’, ad una follia mascherata di calcolo e di retorica. “Sulla disponibilità, in linea di principio, di Kennedy - ritenuto un presidente particolarmente illuminato e razionale – e dei suoi consiglieri – in prevalenza intellettual-accademici (eggsheads) – non solo a usare armi atomiche come mezzo intimidatorio, ma anche ad impiegarle realmente, non può più sussistere alcun serio dubbio…I governi sono costituiti da esseri umani e non da funzionari interscambiabili, come supposto da analisti soggetti al fascino delle strutture. Proprio la politica estera dipende, in notevole misura, dall’individualità degli attori, dal loro comportamento, dal loro concetto di se e della politica, e dalle relazioni tra gli antagonisti. Il mondo della diplomazia al vertice è un mondo dalle dimensioni contenute e molto ‘umano’, nel quale conta soprattutto la professionalità. L’affermazione di Kant che “le grandi potenze non si vergognano mai di fronte al giudizio del popolo comune, ma ben più l’una di fronte all’altra” trova piena conferma nella politica a rischio, spietata –perché mise in conto la totale distruzione della civiltà umana- di quel presidente americano”.
Quel presidente si chiamava John Fitzgerald Kennedy. Un gigante del suo tempo. Un politico che per molti continua ad essere un mito. Se nella testa di chi non si separa dalla valigetta nucleare scattarono allora decisioni e responsabilità del genere figuriamoci cosa potrebbe albergare nella testa di Vladimir Putin. Anche perché non c’è confronto tra i due. Putin è solo un cleptocrate, un avventuriero, un despota che si è autocondannato ancora in carica come feccia della Storia. Tra lui ed uno statista come l’allora presidente americano J.F. Kennedy esiste un abisso di differenza, di stile di pensiero e governo.
8.Intanto in Ucraina sul terreno…
Per concludere, un aggiornamento sulla situazione sul terreno in Ucraina. Cominciando però dalla Russia. Dove tutta la stampa non asservita al Cremlino è stata imbavagliata. A Mosca si è arrivati alla vergogna che chi definisce questa aggressione con il suo nome - cioè guerra e di occupazione invece di “operazione speciale” - grazie ad un nuovo giro di vite legislativo può beccarsi fino a 15 anni di galera. Anche molti giornalisti russi stanno scappando dal paese. Non solo i giornalisti stranieri accreditati per timore di finire in qualche lager siberiano per una parola di troppo in una corrispondenza da Mosca. E si è arrivati nei giorni scorsi al gesto di una infamia senza pari di caricare sul cellulare e portare in cella nella centrale di polizia due mamme e soprattutto le loro cinque bambine piccole (età da scuola dell’infanzia o delle elementari) ree di aver deposto fiori davanti all’ambasciata ucraina.
L’avanzata russa, che non ha impressionato il mondo per condotta strategica, probabilmente ha cambiato obiettivi e scenari con il passare dei giorni. Ora sembra sempre più evidente come la Federazione russa punti a “spegnere” l’Ucraina ed a condannare al freddo i suoi abitanti puntando su centrali elettriche, atomiche e non, su dighe, su centri di produzione di energia. E punti a saldare i “suoi” territori sottratti all’Ucraina sia nel 2014 che adesso – Crimea, Donestk, Lugansk nel Donbass – con l’area costiera meridionale rimanente dell’Ucraina. Così da negare del tutto l’accesso al mare alla nazione ucraina. A nord, nord-est, est, sud molte aree territoriali ucraine confinanti con Bielorussia e Federazione russa, per un totale di decine e decine di migliaia di chilometri quadrati, sono state occupate dalle armate di Mosca. Se la capitale Kiev resiste non tutti hanno capito che le mani russe sul paese, grande produttore di cereali, in particolare frumento, si tradurranno – sommando la produzione ucraina a quella russa – in una inquietante prospettiva: Mosca diventerà sempre più quasi-monopolista nel mondo per produzione ed esportazione non solo di gas e petrolio ma anche di frumento ed altri cereali. Detto brutalmente: siamo nelle mani della banda Putin non solo per scaldarci, cucinare, far funzionare le fabbriche e la produzione, spostarci ma anche per la sopravvivenza alimentare.
I colloqui a puntate tra le due parti non fanno registrare passi in avanti; la tregua per i corridoi umanitari di sabato 5 marzo non ha retto, si è presto arenata.
Sottratte all’Ucraina grandi porzioni di territorio, il prossimo obiettivo delle armate moscovite saranno non tanto, per ora, Lituania, Estonia e Lettonia – paesi aderenti alla Nato – quanto piuttosto la Moldavia. Povera e piccola, appena 33.000 chilometri quadrati (un po’ più estesa della Sicilia), meno di 3 milioni di abitanti.
Il copione sarà sempre lo stesso. Come nel Caucaso, come in Ucraina orientale. Una provincia della piccola Moldavia, la Transnistria, nel 1990 ha dichiarato la propria indipendenza, non riconosciuta da nessuno stato. In Transnistria vivono comunità di origine russa rispetto alla grande prevalenza in tutta la Moldavia dell’etnia romena. In Transnistria sono presenti da tempo contingenti militari russi. Al Cremlino si inventeranno chissà quali massacri da parte dei moldavi nei confronti degli abitanti della provincia secessionista ed i reparti russi interverranno - grazie anche alla continuità territoriale che hanno creato via Donbass, Crimea, Ucraina meridionale occupata - per aggredire e papparsi l’intero stato moldavo. In una giornata o poco più appena, niente a che vedere con la resistenza che stanno mettendo in atto gli ucraini. La Moldavia ha aderito al Partenariato per la Pace della Nato il 16 marzo 1994 ma non è membro della Nato. E nemmeno dell’Unione Europea alla quale, preoccupata, ha chiesto di aderire nei giorni scorsi. Ma si comprende bene come una mossa del genere aprirebbe ancora più le porte ad uno scontro diretto Nato-Federazione russa. La Moldavia ha un link in più con la Nato rispetto a Kiev.
Intanto la catastrofe umanitaria, la marea umana di milioni di profughi che abbandonano, si spera temporaneamente, l’Ucraina diretti verso ovest, verso l’Europa centrale e occidentale, raggiunge sempre più numeri da esodo biblico mentre le devastazioni delle città assumono consistenza sempre più ampia. Bombardamenti russi massicci. Si spara persino sulle centrali nucleari e si parla della ricorrente arma degli stupri nei confronti delle donne ucraine.
Coloro che dimostrano comprensione se non indulgenza per il comportamento di Mosca (“Colpa dell’Occidente, la Russia vuole creare solo un cordone protettivo di stati cuscinetto visto che è circondata ad ovest da stati aderenti alla Nato”) non si rendono conto che fior di politologi e strateghi a Mosca già da anni spalleggiano Putin nella sua delirante crociata tesa a ristabilire sfere d’influenza russa nell’intera Europa centrale e balcanica (nelle prossime settimane occhio alla Bosnia-Erzegovina dove il leader della comunità serbo-bosniaca Milorodan Dodik non fa mistero della sua ammirazione interessata per Putin). Non si rendono conto che l’allargamento della Nato ad est non è stato imposto ma è stato liberamente richiesto nel trentennio trascorso dai quattordici paesi ex facenti parte dell’Urss e del Patto di Varsavia. Non si rendono conto che nessuno in Europa e neppure in America si sognerebbe mai di attaccare e meno che meno di aggredire o invadere la Russia come teme o finge di temere l’uomo solo al comando a Mosca. Dopo Napoleone Bonaparte ed Hitler e dopo gli esiti catastrofici di quelle due campagne nessuno ci proverà più. Quindi la sindrome di accerchiamento della Federazione russa deve considerarsi solo strumentale. E, in realtà, pretestuosa per perseguire uno storico orizzonte strategico che piuttosto si lancia avventurosamente in direzione opposta e contraria: ripristinare le glorie imperiali e le conquiste territoriali zariste, da Ivan il Terribile a Caterina di Russia fino a Nicola II. Antecedenti a partire da tre secoli prima al settantaquattrennio sovietico che, ad ogni buon conto, ha continuato sulla strada dell’espansione e delle sfere di influenza. In ogni incontro pubblico a Mosca dal cerchio magico del Duce ex agente segreto oltre che personalmente da lui viene sbandierato il bisogno di “sicurezza” della Federazione russa. A sentire questa ossessiva presa di posizione parrebbe che non esista al mondo nessuno che non voglia aggredire la Russia. Niente di più falso. E’ Mosca che, non da ieri o da qualche settimana, non fa altro che aggredire, forte del suo sterminato territorio, del suo impressionante arsenale militare e nucleare che diventa una sorta di “assicurazione sull’impunità”, forte delle sue immense riserve energetiche. Così come niente è più lapalissiano e documentabile della costante attitudine di Putin a minacciare. Considera il Diritto internazionale nulla più che carta straccia, aggredisce, invade. Ma è sempre lui ad alzare l’asticella, sempre lui a minacciare. Le sanzioni occidentali sono per Putin come “una dichiarazione di guerra”, le armi occidentali mandate in Ucraina “una dichiarazione di guerra”. Strano che non abbia minacciato con le stesse parole tutti i paesi del mondo che il 2 marzo all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno umiliato ed isolato il suo paese condannando l’aggressione ad uno stato sovrano come l’Ucraina: dei 193 paesi facenti parte dell’Onu 181 hanno preso parte alla votazione, ben 141 hanno condannato l’aggressione, 35 si sono astenuti, solo 5 si sono dichiarati favorevoli (Russia, Bielorussia, Corea del Nord, Siria, Eritrea, una combriccola che si commenta da sola per condizioni di asservimento della popolazione e di assenza di ogni diritto umano, con le mani dei rispettivi dittatori abbondantemente sporche di sangue). Una umiliazione planetaria per la Russia che dovrebbe fare riflettere i cittadini di un paese che ha dato i natali a giganti della letteratura, a scienziati, a grandi pensatori. E che ora è precipitato così in basso, nelle mani di un agente segreto da quattro soldi divenuto capo politico: se Ivan è passato alla storia come “il Terribile” per lui ci sono tutti i presupposti perché venga bollato nei libri di storia come “Vladimir il Minacciatore”.
Putin ha come sogno da emulare la Russia degli zar più che l’Urss dei segretari del Pcus. Ironia della storia - corsi e ricorsi storici - ora gli ex paladini del proletariato mondiale sono dall’altra parte della barricata in una guerra di popolo, di partigiani civili e non solo di militari (la disperata difesa degli ucraini della loro terra) contro una guerra di occupazione (quella dei russi).
In questo contesto il tanto odiato Occidente democratico sta dimostrando prudenza e pazienza di fronte alle quotidiane minacce ed ai quotidiani ricatti del presidente della Federazione russa. Non deve cadere nella trappola della pur comprensibile richiesta di “No fly zone” che da Kiev implora il presidente Zelensky. Significherebbe che i cieli dell’Ucraina diverrebbero l’area di primo generalizzato scontro aereo tra caccia russi e caccia della Nato, combattimenti che comporterebbero l’ “apertura ufficiale” della Terza Guerra Mondiale. Quanto all’invio di armi da parte di paesi della Nato agli ucraini aggrediti, sarà cinico affermarlo ma va detto chiaramente che, al punto in cui è la situazione, è il minimo che si possa fare se non si vuole che l’intera Ucraina finisca nel giro di pochi giorni sotto la totale occupazione russa.
Con altrettanta chiarezza va detto che non bisogna perdere tempo: va posta in essere senza ulteriori indugi una mediazione visto che i colloqui diretti tra le parti non sembrano portare lontano data la distanza delle posizioni. Sono pochissime le personalità mondiali che per ruolo e prestigio possono caricarsi sulle spalle un compito così gravoso ed indispensabile visto il rischio concreto di Terza Guerra Mondiale (nucleare, come minaccia la Russia) che incombe sull’umanità: Papa Francesco (ovviamente con il supporto della Segreteria di Stato e del servizio diplomatico vaticano, storicamente il più qualificato del mondo), il capo indiscusso della Cina Xi Jinping, il Segretario generale dell’Onu Guterres, l’altro autocrate turco Erdogan, il premier israeliano Bennett (Zelensky proviene da una famiglia ebrea e in Israele è presente sia una numerosa comunità originaria della Russia che una altrettanto consistente comunità proveniente dall’Ucraina), il francese Macron che nelle scorse settimane ha condotto una caparbia quanto infruttuosa opera di convincimento su Putin. In passato, ma per crisi regionali circoscritte, assai meno esplosive di questa, preziosa è stata l’opera di mediazione della romana Comunità di Sant’Egidio. E’ il momento dei viaggi dei mediatori (Bennet ha già cominciato a provarci sabato 5 marzo), dei pellegrinaggi e degli incontri di persona. Lunghi, instancabili, ostinati.
La domanda alla quale rispondere – chiarificatrice di intendimenti ed atti compiuti, al di là della propaganda militare e delle fake news – è sempre e solo una: in questa guerra chi sono gli aggrediti e chi sono gli aggressori? La risposta la danno i fatti, i morti, le macerie, la scellerata distruzione di una intera grande nazione. Nel centro dell’Europa. Nel 2022. Ed è una risposta incontrovertibile. Anzi, una condanna senza appello della Storia per la Russia di Putin.
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