Dalla ricerca della felicità alla ricerca della sopravvivenza
Dalla ricerca della felicità alla ricerca della sopravvivenza. Dall’homo deus all’homo fragilis. Che regressione!
C’è una malattia che scava e corrode l’esistenza di tutti: non abbiamo più speranza in un futuro migliore. Da un po’ di anni a questa parte ognuno di noi si è rassegnato all’idea che i nostri figli vivranno non meglio di noi – come è successo, generazione dopo generazione, specialmente negli anni che vanno dal 1950 al 2007 – ma peggio. Vivranno peggio sul piano lavorativo ed economico ma anche culturale, della rispondenza delle istituzioni e dei servizi pubblici, della sicurezza sociale, della legalità. Abbiamo smesso di sperare nella ricerca della felicità, ammesso che la felicità dipenda dalla professione, dal reddito, dal numero di vacanze che ti fai nel corso degli anni, da quanti musei visiti, da quanti concerti od opere liriche ascolti o dai metri quadrati dell’appartamento nel quale abiti. Non sarà così ma un conto è affrontare la vita in un crescente benessere e con affermazioni professionali, un conto annaspare nel disagio sociale e nella povertà. E’ una depressione collettiva, un tunnel di cui non si scorge nessuna luce in fondo.
Questa rassegnazione generalizzata inizia nel 2008 con la crisi economica globale (di origine statunitense). Si trascina fino al 2019 con tanti i paesi che non sono riusciti a recuperare e non ce l’hanno fatta a tornare ai livelli economico- finanziari precrisi e meno che meno a superarli. Esplode nel 2020 con la pandemia in corso (di origine cinese). Il Covid-19 inietta in tutto il globo una impressionante dose di fragilità non più solo legata al reddito, allo status sociale, alla disponibilità di risorse o alle prospettive occupazionali ma, in aggiunta e in modo ancora più invasivo, direttamente connaturata alla salute, alle condizioni fisiche di vita, alle sue aspettative di durata media. E’ la mazzata definitiva.
Il concetto di homo deus era stato teorizzato da uno dei più brillanti pensatori contemporanei, lo storico e saggista israeliano Yuval Noah Harari. Nato nel 1976, Harari è autore nel 2011 di Sapiens. Da animali a dei. Breve storia dell’umanità, best sellers mondiale tradotto in trenta lingue, e nel 2015 di Homo deus. Breve storia del futuro. Ebbene, ora l’homo deus - l’uomo potente come un dio, capace di creare l’intelligenza artificiale, la vita artificiale e i robot, capace di allungare anno dopo anno la durata media della vita grazie alla migliore alimentazione, grazie soprattutto alle sue ricerche, alle sue conquiste scientifiche e mediche – si scopre sempre più homo fragilis. Eccome fragile. In balia di un virus, decimato specie nella quarta età orgogliosamente conquistata, esibita, allungata, sepolto nello squallore senza fine di fosse comuni, costretto a mille cautele e protezioni già a sei anni sui banchi della prima elementare. Al tempo della pandemia che tutto travolge e che sta uccidendo anche le più essenziali relazioni sociali, anziani e meno anziani si vedono preclusa, per arginare la diffusione del contagio, persino la possibilità di starsene a chiacchierare seduti sulla panchina di una villetta o di una piazza con i coetanei, con gli amici di una vita. Grava sopra tutti noi una cappa mefitica di morte. Altro che homo deus.
Non si è interrotta solo la ricerca della felicità. Ora la posta in gioco è la ricerca della sopravvivenza. Dell’homo deus – ormai così frastornato, piegato – rimane qualche traccia della perduta potenza “divina” nei laboratori scientifici e nelle industrie farmaceutiche spasmodicamente votati allo studio e alla produzione sia di farmaci che per fortuna diventano armi sempre meno spuntate contro il coronavirus sia, soprattutto, del fatidico vaccino anti-Covid-19.
Ma, con gli ospedali intasati, monopolizzati dall’emergenza coronavirus, si è costretti a trascurare prevenzione e controlli di altre malattie gravi. Così crescerà il numero di malati e morti di patologie cancerogene e non solo. Tra qualche anno sapremo di quanto a partire dal 2020 nei vari paesi del mondo si riduce - piuttosto che aumentare - la durata media della vita.
Quanto alla ricerca della felicità, è sospesa. Per il momento e per chissà quanti altri anni ancora. Sostituita dalla ricerca della sopravvivenza. Sopravvivenza significa riuscire a mettere assieme pranzo con cena nei casi più critici, significa disponibilità di euro nel portafoglio, non essere licenziati, non chiudere le proprie attività imprenditoriali, commerciali, artigianali, professionali, evitare il fallimento, non perdere il proprio lavoro, riuscire ad affrontare le spese per mantenere i figli negli studi. Ancora più d’istinto sopravvivenza significa confrontarsi ogni giorno con la preoccupazione di ammalarsi, di contagiarsi, di tirare le cuoia per Covid-19. O, per meglio che vada rispetto all’ipotesi più letale, di beccarsi comunque un lungo periodo di ospedalizzazione e sofferenza. Sopravvivere insomma contando i mesi e gli anni che trascorreranno prima che l’emergenza coronavirus sarà se non sconfitta quanto meno ridimensionata, messa sotto controllo. Poi, se non saremo nelle spire d’una depressione divenuta nel frattempo inguaribile, forse potrà riprendere la ricerca della felicità come aspirazione al miglioramento delle condizioni di vita della generazione seguente rispetto alla precedente.
Occorrerà tempo per invertire un trend negativo già da più di dodici anni. Molto tempo. E non è neppure scontato che il trend negativo non possa diventare irreversibile.
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