Dall'impegno nel '68 italiano alla cultura nomade, il mondo svelato di Tano D'Amico
Cultura | 7 dicembre 2022
«I dieci anni di Lotta Continua sono stati gli anni più belli della mia vita». Tempo di bilanci per gli
ottanta anni di Tano D’Amico, autore che ha segnato la storia del fotogiornalismo con la sua
personalissima cifra stilistica. Sue le immagini drammaticamente più belle che raccontano il ’68
italiano.
«Volevo fare la rivoluzione ma i miei compagni volevano le mie fotografie». Tano D’Amico con un
velo di ironia racconta l’inizio della sua avventura artistica. «Avevo lasciato Milano per una
delusione amorosa. Nel 1967 approdai in una Roma magnifica, attraversata da una spettacolare
energia di cambiamento, aderendo con entusiasmo al movimento studentesco. Comincia uno
svogliato lavoro di decodifica negli uffici. Per vivere riempie moduli di rimborso agrario. Poi il
lavoro di amministratore di teatro con Carmelo Bene. I miei compagni continuavano a chiedermi di
fotografare. La richiesta muoveva dai miei primi scatti nelle cantine romane dove di suonava il free
jazz. Quegli scatti insoliti che ritraevano bianchi e neri, musicisti straordinari, suscitarono curiosità.
Si decise di dare vita a un giornale del movimento. Gli organizzatori si recarono da un grande
grafico, Piergiorgio Maoloni. Lui accettò di progettare il nostro quotidiano. Quando gli chiesero
un’indicazione per i contributi fotografici, lui fece il mio nome e i miei compagni risposero: “Ah,
quel presuntuoso che rifiuta sempre di darci le sue foto”. Fu l’inizio di un grande amore durato dieci
anni».
Arrivano finalmente i reportage fotografici. Come quello in terra di Sardegna. Documentando la
trasformazione sociale in operai dei pastori e dei contadini. Fotografava la trasformazione dei volti
e dei costumi inventando inediti tagli fotografici, composizioni mai viste. Ha fatto scuola
l’immagine degli operai sardi alla fermata dell’autobus. D’Amico immortala le grandi adunanze, le
manifestazioni di piazza, migliaia di facce, folle infinite, sintetizzate da dettagli, primi piani, visioni
eccentriche. Pubblica sulle prime pagine dei giornali la bellezza umana del disagio sociale che si
trasforma in speranza di cambiamento. Infila in ogni fotogramma tutto quello che rischiava di
perdersi per le strade pericolose di quei giorni. Storica l’immagine del poliziotto in borghese con la
borsa di tolfa a tracolla e la pistola in mano. Era il 12 maggio 1977, il giorno dell’uccisione della
militante Giorgina Masi. Il suo stampatore Claudio Bessi, lo convinse per primo a stampare quelle
foto insolite. Inquadrature inedite, come quella della ragazza con il volto coperto da un fazzoletto
incorniciata tra due carabinieri di spalle. D’Amico vagava nelle zone d’ombra, fuori dai riflettori,
raccontando le storie di balordi, accidentati, irregolari, sconfitti, vinti e sognatori eccentrici. Voleva
cambiare il mondo fotografandolo. Le sue inquadrature sovvertirono il racconto fotografico
imperante.
«Lo scatto che preferisco in assoluto è quello del militante che torna indietro per soccorrere il
compagno riverso a terra con una gamba maciullata. Cadrà anche lui vittima di una raffica di mitra.
Anni spaventosi, terribili, spero non tornino mai più. Quelle che facevo erano fotografie scattate da
un uomo che si era smarrito. Ero smarrito dai gas lacrimogeni, dalle ondate di terrore, dalla violenza
dilagante. Scattavo foto come un automa. Spesso tentavano di fermarmi, di impedirmi di
fotografare. I colleghi fotografi più anziani e autorevoli come Franco Pinna e Tazio Secchiaroli,
quando venivano a conoscenza di un torto che avevo subito, inviavano telegrammi di fuoco ai
prefetti e ai questori. Mi fermavano con il pretesto che non possedevo la licenza di fotografo
ambulante. Mi bloccavano evocando circolari risalenti alla presa di Porta Pia, quando si
assimilavano i fotografi ai saltimbanchi, ai guitti e agli zingari».
Il volto del fotografo si rabbuia evocando la fine della stagione del movimento. «Cominciò a calare
il sipario su quel sogno durato dieci anni. Simbolicamente coincise con la convocazione dei
liquidatori fallimentari del giornale che avevo fondato. Volevano saldarmi tutte le spettanze
maturate in quegli anni. Una bella cifra, mi avrebbe fatto comodo, ma mi alzai e rifiutai l’offerta.
Non potevo consentire di smaterializzare con i soldi la felicità che mi avevano regalato quegli anni.
Forse ho fatto male, ma lo rifarei. Molti militanti avevano duramente pagato pur di tenere fede alla
loro coerenza, non erano mai scesi a compromessi. Ecco perché non ho accettato quei soldi, la mia
ricompensa erano stati i dieci anni più belli della mia vita. Giunse anche il momento della fine della
collaborazione con l’Unità. Con imbarazzo, gli archivisti del quotidiano del Partito comunista mi
comunicarono che non avrebbero più pubblicato le mie scomode foto, ma io continuai ad amarli.
Avevo imparato a leggere sulle pagine dell’Unità, quelle affisse sulle macerie dei muri di Milano.
Ricordo ancora quando, in seconda media, ho letto i titoli dell’eccidio di Melissa, il massacro dei
contadini calabresi. I braccianti del Marchesato marciavano per chiedere la concessione delle terre
incolte. Ho ancora impresse nella memoria le fotografie delle cariche della polizia di Scelba. Il dato
che mi ha segnato fu quello della strage degli animali dei contadini. Muli e cavalli uccisi come
estrema ritorsione contro i manifestanti. Quelle fotografie di animali riversi a terra hanno segnato il
mio immaginario visivo. La mia cultura fotografica risiede proprio in quelle pagine dell’Unità. Quel
giornale di partito è stato il mio primo maestro elementare. Quando l’Unità chiuse i battenti, mi
riservarono un grande regalo. Trovai la mia fotina accanto a quella di Italo Calvino, Natalia
Ginzburg e degli altri storici collaboratori».
Per Tano D’amico la fine dell’epoca dell’impegno sociale si traduce nella ricerca di nuove
prospettive. «Il mio mondo crollava. Non avevo più giornali di riferimento. Gli operai erano stati
sconfitti a Mirafiori. Il Sud aveva perso quello che rimaneva della cultura contadina. A quel punto
ho deciso di seguire gli zingari, le loro ritualità».
Proprio ai Rom è dedicato il nuovo libro di Tano D’Amico “Orfani del vento. L’autunno degli
zingari” (Mimesis editore, pag. 128, euro 12,00). Un titolo che sembra sintetizzare un’intera vita
artistica. Orfani del vento della rivoluzione e il tramonto di un popolo di irregolari. «Gli zingari
sono un popolo che incarna un aspetto di umanità smarrita, senza patria. Non utilizzano la lingua
scritta, quella imposta dal potere. Parlano con gli occhi, come i grandi attori. “Sembrano lanciare
coltelli con gli occhi”, scriveva Garcia Lorca. A loro mi lega una comune natura ribelle e
indipendente. Un popolo che non ha capi, non ha mai dichiarato guerra a un altro popolo. Sono
sempre in cammino, con il convincimento che la terra non si deve possedere. Una cultura priva di
muri e torri. Perseguitati dai nazisti e sterminato nei lager. Una direttiva imperiale sanciva che chi
uccideva uno zingaro non commetteva reato. Zingari usati come bersagli mobili nelle battute di
caccia dei ricchi. Gipsy & travellers per gli inglesi, gens des voyages per i francesi, zingari, gitani,
sinti. Li amo perché come i fotografi, gli zingari suscitano diffidenza».
Prezioso questo libro curato da Francesca Adamo. Immagini di bambini arruffati, infreddoliti,
capelli unti, visi sporchi mentre si aggirano tra le pozzanghere dei campi. Foto di mamme-bambine
che allattano con i loro seni turgidi, come nella più alta tradizione pittorica. Pagine che sono il
tripudio di fisarmoniche, baffoni ottocenteschi, fuochi fatui, bivacchi improvvisati. Certificano le
continue irruzioni delle forze dell’ordine, sgomberi forzati, fughe frettolose. Smarrimenti catturati
sotto lo sguardo vigile di carabinieri con la bandoliera a tracolla come in una moderna favola di
Collodi.
Tano D’amico è doppiamente isolano: siciliano e nato nelle Eolie. Filicudi è come Procida, l’isola
incantata di Arturo. «Sono uno storto perché sono nato alle Eolie. Ho abitato a Filicudi fino a
cinque anni. Sono gli anni nel corso dei quali si consolidano i ricordi e il carattere. La mia
convinzione è che gli isolani sono tutti strambi. Una stranezza he muove dai tempi della battaglia di
Lepanto. Quando gli ammiragli musulmani irritati dalle lungaggini della battaglia decisero di
razziare le isole, rastrellando l’intera popolazione. Gli abitanti furono venduti come schiavi nei
mercanti orientali. Il successivo ripopolamento portò sulle isole i diversi, quelli considerati peggior,
pazzi, prostitute, teste calde. Quelli come me a cui va stretto il mondo. Ogni isola ha una peculiarità.
Salina, addirittura ha tre comuni, tre popoli diversi. Alicudi era famosa per la bellezza delle sue
donne. Nella mia isola Filicudi, sono certo, inviarono le streghe. Mia nonna aveva un rapporto
speciale con il mondo magico. Quando si placavano le tempeste e le trombe d’aria, lei mi spiegava
che era accaduto perché avevano tagliato le nubi minacciose con le parole magiche, ancestrali.
Nell’isola avevamo tutti un rapporto misterico con gli animali. Io avevo un attrazione inspiegabile
con i delfini e loro con me. Si avvicinavano alla battigia, scivolando sui sassi levigati, giungendo a
pochi centimetri da quel bambino. Trascorrevo minuti interminabili a guardarci negli occhi. Mia
nonna dal promontorio a fine giornata mi gridava: “Ancora con i delfini?”. Tutti gli isolani avevano
un soprannome. Solo in Israele ho ritrovato quei profumi in un forno di un quartiere popolare, al
cospetto del profumo dei biscotti appena sfornati, socchiudendo gli occhi mi sono ritrovato
all’interno della stanza del forno di mia nonna. Mi hanno immediatamente rimandato al rito della
cottura di mia nonna Peppina. Faceva il pane aiutandosi a vicenda con le nostre vicine. I primi pani
erano per quelli che non potevano farlo. Io portavo il pane ancora caldo, avvolto in un fazzolettone,
era destinato alla pazza del villaggio. Una donna che era impazzita dopo ripetuti oltraggi. Era quella
una cultura avvincente».
La Sicilia in questi anni è cambiata radicalmente. Trasformazioni che suscitano perplessità agli
occhi del fotografo. «La Sicilia che ho lasciato non esiste più. La trasformazione radicale si legge
anche negli aspetti più insoliti. In tutti gli store più prestigiosi del mondo ho trovato bottiglie di vino
siciliano firmate da prestigiose cantine, un tripudio di etichette costosissime. Quando io sono andato
via nessuno imbottigliava il vino siciliano. Ma come in tutte le trasformazioni si annida un rischio.
Quello di trasformare la Sicilia in un brand, un prodotto alla moda».
Tra i reportage sociali più noti firmati da D’Amico, anche quelli della Palermo degli anni ’90. «Il
ricordo più bello di Palermo è quello della città che tentava di puntare i piedi grazie all’impegno di
preti come Don Cosimo Scordato. Giunsi in città per testimoniare i suoi esperimenti sociali e
culturali all’Albergheria. Quando rincasavo in albergo, attraversando le viuzze del quartiere, ero
terrorizzato. Dopo pochi giorni però avevo conosciuto tutta la gente che affollava le assemblee i
Don Cosimo. Ero galvanizzato da quella umanità che voleva riscattarsi. Una meravigliosa atmosfera
di rinascita. A notte fonda mi aggiravo per le piazze e i vicoli sentendomi pienamente a mio agio».
A chiusura della lunga conversazione Tano D’Amico che è un artista del bianco e nero, non
manifesta riserve alla nuova frontiera della fotografia digitale. «Non sono contrario al digitale. Non
mi terrorizza la tecnologia. Come sempre dipende dall’uso che se ne fa. Non uso il digitale perché
non ho committenze che mi richiedano foto immediate – il tempo di una pausa e con tono divertito
rima della risata di commiato sentenzia- In verità, non ho proprio committenze».
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