Dal romanzo alla narrazione: storytelling sì, storytelling no

Cultura | 12 luglio 2019
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Storytelling sì, storytelling no. Una cosa è certa la narrazione non soltanto è entrata nel linguaggio collettivo a tutto tondo, addirittura presiede, se non domina, la rete e i social network.

Qualcuno vorrà sapere cosa s’intende. Bene, filmati, battute, post, musiche, canzoni con i quali rappresentare quotidianità e ... eternità!

Adesso, dopo il successo di diversi politici nella comunicazione diretta con i cittadini, affidata a specialisti, i migliori sicuramente versati nella speculazione filosofica, taluni critici invocano il romanzo, narrato dal basso. Insomma, la letteratura dovrebbe adeguarsi ai canoni del parla come mangi.

Esagerare? drammatizzare, banalizzare, provocare il riso? Alleggerire il contesto espressivo o semplificare il plot? In sostanza, divertire i lettori o, come si lascia intendere, la tendenza dovrà arrivare fino a lisciare il pelo per il loro verso a chi di letteratura non ne vuole sentire parlare e pretende una sostanziale leggerezza del segno e della sinossi del romanzo?

A dire il vero, un approfondimento sull’argomento sarebbe salutare, superando la facile ironia di cui, a proposito, è stato permeato l’inizio dell’articolo.

Quindi, cominciamo dall’inizio: il romanzo è in crisi?

No, il bisogno di sentire storie, di riconoscersi in esse, di fissarne, come fossero fotografie d’antan emozioni, costumi, luoghi, oggi più che mai, è cresciuta. I motivi sono molteplici, uno tra tutti, Dio è morto e io non sto molto bene. Al di là del motto di spirito, la crisi delle religioni, quantomeno le maggiori, soprattutto le monoteiste, cattolica, ebrea e musulmana, hanno aperto la voragine dei dubbi da un lato e la paura della morte dall’altro.

In questo spazio si muove la memoria collettiva, nell’affidare alla scrittura, al racconto, le tracce dei viandanti del mondo.

All’aedo viene affidato il compito di cantare le gesta e, in questa prospettiva, il ruolo del poeta, del narratore è proibitivo. Se si passasse l’iperbole: con la scomparsa delle divinità, soltanto i vati ciechi, veggenti del presente, il futuro non esiste!, sono destinati a vergare versi in musica. Guai a sbagliare, nell’essere all’altezza si accenderebbe il buio, nel fallimento si condannerebbe l’umanità all’oblio.

E dunque, si chiederanno Il lettori?

Mai, come adesso, la pittura, la scultura, la letteratura, l’arte nel suo complesso, ha avuto tanti spazi, al punto di mettere in primo piano il teatro drammatico, la commedia, la rivista, il cabaret ciascuno, naturalmente con un ruolo diverso, con l’intrattenimento come protagonista assoluto.

Ebbene, questa sì, sarebbe se non una novità, una conferma, nessuna disciplina artistica, nessun genere dovrebbe dimenticare di catturare il pubblico.

Anzi, di più, la polverosa distinzione della narrativa d’intrattenimento da quella classica è da superare, da accantonare.

Non tanto perché i giallisti, i noiristi, i lialisti non esistono più, solo, perché servirebbe prendere atto dei loro successi e se la rete e i social network possono dominare, creando realtà virtuali, anche e soprattutto i romanzieri sono autorizzati a chiedere ai lettori la sospensione dell’incredulità per narrare la virtualità come componente essenziale della finzione.

Lo si comprende subito il dilemma, legato alla contemporaneità, cioè alla società delle assenze, mentre il legame, nel testo narrativo, tra sincerità e autenticità dominava il secolo scorso, oggi il dilemma da sciogliere per lo scrittore è tra finzione e virtualità, due cose diverse, se qualcuno saprà raccontarle.

Partendo dalla dicotomia, peraltro già indicata da capolavori del secolo scorso, sarà possibile narrare questi tempi che ci accompagnano.

 di Angelo Mattone

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