Dal delitto Mattei alle stragi di Stato: un complotto tutto italiano
Una
democrazia incompiuta. La storia alle origini delle stragi di Stato.
Una Seconda Repubblica nata nel sangue di innocenti. Un filo nero
come il petrolio che lega strettamente la morte di tre personaggi:
l’imprenditore e presidente dell’Eni, Enrico
Mattei,
il cui aereo precipitò nei pressi di Bascapè il 29 ottobre del
1962, il giornalista de “l’Ora” Mauro
De Mauro sequestrato
davanti a casa sua a Palermo il 16 settembre 1970 e lo scrittore Pier
Paolo Pasolini ucciso
all’Idroscalo di Ostia il 2 novembre 1975. Nomi dei responsabili?
Sconosciuti, o almeno non accertati in giudizio: misteri archiviati
nel cassetto dei segreti inconfessabili della nostra Nazione. Quei
segreti che, se realmente minacciati, sono in grado in ogni momento
anche a distanza di moltissimi anni di riattivare il campanello di
allarme e di mobilitare quel sistema di complicità e di intrecci
oscuri che da sempre agisce indisturbato dietro le decisioni
politiche, economiche e militari del nostro Paese.
Di tutto questo
parla “Profondo
Nero”,
un libro scritto a quattro mani dai due giornalisti Giuseppe
Lo Bianco e Sandra
Rizza pubblicato
la prima volta nel 2009: un’opera che tenta di ricostruire,
soprattutto a partire dalla terza inchiesta iniziata nel 1994 dal pm
di Pavia Vincenzo
Calia (chiusa
nel 2003) sul caso Mattei, quello che accadde all’imprenditore
negli ultimi giorni di vita, la storia delle diverse figure politiche
ed istituzionali che hanno ruotato intorno a lui e il filo che ha
connesso la sua morte a quella di De Mauro e di Pasolini. Una
riproduzione di fatti, di immagini, di documenti e di dichiarazioni
che riproponiamo oggi, alla luce anche delle motivazioni della
sentenza di Cassazione del 2015 del processo per la scomparsa del
giornalista de “l’Ora”,
nel giorno in cui si commemorano 58 anni dalla morte del presidente
dell’Eni.
Chi
era Enrico Mattei per l’Italia?
Enrico
Mattei era
il secondo dei cinque figli di un brigadiere e la sua ascesa fu molto
rapida: da operario a direttore di laboratorio, da industriale alla
nomina di commissario straordinario dell’Agip nel 1945. Tutta la
storia di Mattei ruotò intorno a ciò che, dopo la Seconda guerra
mondiale, era diventato letteralmente uno dei beni di prima necessità
delle grandi potenze mondiali: il petrolio. L’Agip fu la prima
realtà attraverso la quale Mattei riuscì a farsi strada e anche
quella che iniziò ad esporlo alle dinamiche internazionali dove i
protagonisti erano già i grandi oligarchi petroliferi, in
particolare quelli americani. Nel 1953 fondò l’Eni, l’Ente
nazionale idrocarburi, del quale diventò presidente. A partire da
quel momento Mattei iniziò a farsi conoscere nel mondo: costruì
nuovi rapporti con l’Iran, ne avviò con la Libia, stabilì
contatti con l’Egitto, trattò con il re della Giordania, viaggiò
in Tunisia, in Libano, in Marocco, visitò l’Urss. Ovunque andasse
l’imprenditore cercava di aprire porte che avrebbero potuto
assicurare all’Italia una vera indipendenza economica, e
conseguentemente politica, disturbando molto quelli che erano i piani
americani per il nostro Paese nel dopo guerra. Mattei diventò in
pochissimo tempo uno degli uomini più potenti e più influenti
politicamente in Italia e la sua grande forza contrattuale faceva
paura a molti.
Durante tutto quel periodo, a partire
dall’esperienza all’Agip, Mattei fu sempre affiancato da Eugenio
Cefis.
Ex ufficiale del Sim (Servizi informazione militare), in rapporto con
l’Oss durante la guerra e con la Cia successivamente, i due si
incontrarono in una Chiesa di Milano e Cefis diventò il braccio
destro del presidente e direttore dell’Agip: una figura misteriosa
che secondo molti osservatori era destinata alle operazioni più
sporche. “L’amico
degli americani”,
muovendosi dietro Mattei, passo dopo passo, diventò in Italia sempre
più influente. Filoamericano, Cefis non condivideva la stessa
strategia politica e la stessa modalità di gestione economica
dell’Eni portata avanti dal suo capo. Infatti subito dopo la
tragedia di Bascapè nel 1962 prese di fatto tutti poteri dell'ente e
venne eletto ufficialmente nuovo presidente nel 1967. In quella sede
cambiò radicalmente metodologia ristabilendo i rapporti con le
oligarchie petrolifere (le c.d. Sette Sorelle).
Chi
era Cefis realmente?
Il
1° gennaio del 1962 Eugenio
Cefis lasciò
l’ente petrolifero italiano. Perché? Nel verbale del 25 gennaio
1995 di Angelo
Mattei al
pm Calia, il nipote di Enrico raccontò che suo zio si era “accorto
che qualcuno metteva le mani nella sua cassaforte personale” e
che un giorno aveva trovato con le mani nel sacco proprio il suo
“presunto” braccio destro mentre stava leggendo i documenti
riservati del presidente che riguardavano finanziamenti ai partiti o
personaggi politici. Inoltre nel fascicolo Ucigos (Ufficio centrale
per le investigazioni generali e per le operazioni speciali)
intestato a Eugenio
Cefis era
contenuto un “appunto” all’interno del quale era scritto
che “la
prova dell’allontanamento di Cefis dall’Eni, alcuni mesi prima
del disastro di Bascapè, non fu un gesto spontaneo, ma fu imposto
dal defunto Enrico
Mattei in
quanto questi avrebbe scoperto che il Cefis faceva il doppio gioco ed
era collegato con i servizi segreti americani”.
Ecco spiegato, probabilmente e in parte, il motivo di
quell’allontanamento improvviso.
Dal momento in cui Cefis non fu
più al fianco di Mattei iniziarono le prime lettere di minaccia
firmate inizialmente dall’Oas (Organisatión
de l’armée secrète,
gruppo terroristico clandestino che militava in Algeria per il
mantenimento della presenza coloniale francese sul territorio) e poi
in forma anonima. Mentre il timore e l’inquietudine del presidente
dell’Eni aumentavano si sviluppò attorno a lui lo stesso clima che
sarà vissuto trent’anni dopo dal giudice Giovanni
Falcone,
successivamente al fallito attentato all’Addaura: l’indifferenza
del governo e dei servizi segreti e la derisione da parte delle
testate giornalistiche e dei principali mezzi di informazione che non
credevano affatto alle minacce che Mattei riceveva.
Quegli
ultimi giorni in Sicilia: un vero e proprio giallo
Pochi
giorni prima dell’attentato Enrico
Mattei si
recò due volte in Sicilia per consolidare gli interessi dell’Eni
sul territorio. Si impegnò addirittura a realizzare nel Paese ennese
di Gagliano una fabbrica in cambio della concessione offerta dalla
Regione all’ente per l’estrazione del petrolio. Dopo essere
tornato a Milano, durante una notte ricevette una telefonata dal
segretario della Dc siciliana, futuro senatore, alto funzionario
dell’Agip e soprattutto capo dell’ufficio pubbliche relazioni
dell’Eni nell’isola e poi presidente dell’Ems (Ente minerario
siciliano), Graziano
Verzotto,
che gli chiese inaspettatamente di fare ritorno urgente nell’isola
a causa delle pressioni provenienti dalla popolazione del Gagliano.
Il pm Calia disse che quella telefonata aveva l’aria di essere un
vero e proprio “pretesto” per attirare Mattei in Sicilia. A
prescindere da ciò, prima del suo arrivo sull’isola le
attrezzature dell’aeroporto di Gela, dove il presidente dell’Eni
doveva atterrare, subirono un attentato e in generale il suo ultimo
periodo passato sull’isola fu un vero e proprio giallo. Dopo
l’atterraggio l’imprenditore scomparve per 3 ore senza che
nessuno sapesse dove si trovasse e l’aereo dove Mattei doveva
volare si mosse tra gli aeroporti della Sicilia senza che fossero
sempre conosciuti i passeggeri a bordo. Verzotto, l’ultimo a salire
su quel velivolo la sera prima, il principale organizzatore del
viaggio del presidente e colui che gli aveva telefonato urgentemente
per chiedergli di scendere in Sicilia, decise alla fine di non
accompagnarlo a Gagliano la mattina del 29 ottobre del 1962. Infine
Mattei, dopo essere stato inaspettatamente trattenuto ad un pranzo
che durò fino al pomeriggio e dopo aver manifestato a diversi
durante la giornata un certo timore e una particolare inquietudine
per qualcosa, quella stessa notte, con pessime previsioni
metereologiche, salì insieme a Irniero
Bertuzzi,
suo pilota, sull’aereo diretto a Milano.
Lo
scrittore, Pier Paolo Pasolini © Letizia Battaglia
La
figura di Graziano Verzotto
I
fatti e i movimenti che hanno riguardato la figura di Graziano
Verzotto,
nonostante quest’ultimo non sia mai stato imputato in un processo,
nella vicenda Mattei fanno sorgere ancora alcuni dubbi. Una vicenda
interessante fu quella che riguardò il pilota dell’aereo
dell’imprenditore, Irniero
Bertuzzi,
il quale nell’ultimo periodo era stato avvicinato dal segretario
democristiano, per una nuova prospettiva di lavoro come manager della
compagnia aerea siciliana Alis, avviata da Gualtiero
Nicotra,
cugino acquisito del Verzotto. L’Alis in realtà era in
liquidazione già da un anno: perché quest’offerta illusoria
paventata al pilota dal Verzotto e dal cugino e perché proprio
Bertuzzi? Cosa sapeva il pilota che poteva tornare utile? Bertuzzi
era il solo che conosceva su quale aereo sarebbe salito il presidente
dell’Eni (che viaggiava sempre con due aerei e decideva all’ultimo
su quale salire) ed era quindi il solo da cui poter avere
informazioni sul velivolo da manomettere per l’attentato. Un’altra
vicenda alquanto misteriosa fu quella che riguardò una telefonata
fatta da Verzotto subito dopo la caduta dell’aereo di Mattei alla
moglie di Bertuzzi, Lina Poli, alla quale chiese se “il
comandante fosse atterrato a Roma”. Verzotto
ha sempre negato ed escluso di aver fatto questa telefonata ma la
donna è assolutamente certa in quanto ha dichiarato di aver “più
volte parlato con lui al telefono per la questione dell’Alis”.
29
ottobre 1962: testimonianze e presenze rivelano misteri dietro la
tragedia
Il
27 ottobre del 1962 l’aereo di Mattei precipitò nei pressi di
Bascapè in provincia di Pavia. Le prime dichiarazioni raccolte
furono quelle dell’agricoltore Mario
Ronchi il
quale subito dopo la tragedia disse a Fabio
Mantica,
reporter del “Corriere
della Sera” di
aver visto il “cielo
rosso, che bruciava come un grande falò e le fiammelle che
scendevano tutte attorno”. Disse
di aver capito che si trattava di un aeroplano. Disse ancora: “Si
era incendiato e i pezzi stavano cadendo sui prati”. Dopo
circa un mese Ronchi venne interrogato dal maresciallo Augusto
Pelosi a
cui fornì una versione completamente diversa, dichiarando che quella
che lui aveva descritto prima come una esplosione in cielo era in
realtà un incendio verificatosi a terra dopo l’impatto dell’aereo.
Ma cosa era successo in quel lasso di tempo, dalle prime
dichiarazioni del Ronchi all’interrogatorio davanti al comandante
della stazione dei carabinieri? Nel verbale del 1997 del pm Calia si
legge che durante quel periodo l’agricoltore venne accompagnato da
alcuni dipendenti della Snam (Società nazionale metanodotti) a San
Donato Milanese dove, a detta di Ronchi, venne interrogato.
La
Snam era a quel tempo un’azienda consociata all’Eni ed era
guidata operativamente da uomini vicini a Eugenio
Cefis.
Al contadino venne per caso promesso qualcosa in cambio del silenzio?
Ronchi in effetti ammise di aver ricevuto benefici dalla
Snam.
Ancora, Carlo
Mantovani,
il primo fotografo a giungere sullo scenario, vendette le sue foto al
suo migliore acquirente, ossia all’investigatore Tom
Ponzi,
uomo vicino a Cefis. In un verbale di Raffaello
Romano,
cronista del "Corriere
della Sera”,
il giornalista dichiarò di essere stato testimone della presenza
di “un
signore che sale in una lussuosa auto nera con autista, vestito di
scuro”:
uomo che si allontanò di fretta dirigendosi verso l’Eni a San
Donato Milanese e che dopo 10 minuti uscì dal palazzo portando con
sé una borsa molto gonfia. Al cronista, nel pezzo che doveva
redigere, venne detto di non riportare l’episodio appena
raccontato. Non conosciamo ancora il nome e il cognome di quest’uomo.
Sulla presunta presenza di Eugenio
Cefis sul
luogo del delitto, l’ex partigiano e militante della Dc, Felice
Fortunato Ziliani,
dichiarò al pm Calia di essere a conoscenza, così come molti
all’interno dell’Eni e della Snam, della preoccupazione di Cefis
di trovare sul luogo della tragedia la borsa contenente i documenti
che Mattei aveva con sé sull’aereo. E ancora: “Si
diceva che Cefis fosse andato sul posto diverse volte e della ricerca
della borsa erano stati incaricati i suoi uomini più fidati
all’interno dell’Eni”.
Cefis:
strada spianata dopo la morte di Mattei
Sicuramente,
colui che tra tutti i personaggi in gioco, trasse i più importanti
benefici dalla morte di Mattei fu proprio Eugenio
Cefis.
Quest’ultimo, dopo quella tragedia, non solo prese la presidenza
dell’Agip e di molte altre società del gruppo, ma nel 1967, grazie
ad un fortissimo sodalizio con l’allora presidente del
consiglio Amintore
Fanfani,
riuscì a diventare il nuovo presidente dell’Eni. Allo stesso tempo
conquistò il vertice della Montedison e il ruolo di finanziatore
occulto della grande stampa italiana, diventando di fatto l’uomo
più potente d’Italia.
Ma per quale motivo Mattei poteva essere
considerato un personaggio così scomodo e pericoloso per la politica
italiana e internazionale, tanto da spingere uomini ed apparati ad
organizzare la sua eliminazione? Il presidente dell’Eni
rappresentava sicuramente un rischio per gli interessi internazionali
delle grandi aziende petrolifere mondiali e degli Stati Uniti
d’America, che sentivano minacciato il loro potere d’influenza
sul nostro Paese, ma Mattei era un pericolo soprattutto per la
stabilità politica italiana, a causa del suo fortissimo potere
d’influenza e di contrattazione. Mattei era il solo uomo capace di
sfuggire a qualsiasi tipo di controllo e questo faceva paura a quei
sistemi di potere che con continuità dirigono da sempre la
Nazione.
Le
inchieste sul caso Mattei
L’inchiesta
avviata dal pm di Pavia Edgardo
Santachiara sul
caso Mattei si chiuse molto rapidamente con una sentenza di
archiviazione il 31 marzo del 1966 “perché
il fatto non sussisteva”. Ma
l’errore attribuito a Bertuzzi come causa della caduta dell’aereo
non convinceva affatto e la voce riguardo il coinvolgimento di Cefis
nella tragedia appariva sia in un fascicolo Ucigos sia in un rapporto
del Sisde. Ma comunque i fatti, le dichiarazioni e le testimonianze
non erano stati sufficienti per aprire un processo. Nel 1994 il pm di
Pavia Vincenzo
Calia decise
di aprire la terza inchiesta sul caso Mattei. Quest’ultima
racchiudeva migliaia di verbali, testimonianze, rapporti, perizie e
dichiarazioni di pentiti: il magistrato svelò le menzogne del
contadino Ronchi, scoprì negli archivi le prove degli interventi dei
servizi segreti, ricostruì in maniera molto precisa le ultime ore di
Mattei e gli spostamenti di tutti i personaggi che ruotarono attorno
al presidente dell’Eni. Dal 1996 al 1998 il pm interrogò
anche Graziano
Verzotto rientrato
in Italia dopo quasi venti anni di latitanza ma le sue dichiarazioni
furono abbastanza contraddittorie. Certamente anche il senatore parlò
di “sabotaggio” e non di “incidente” e fece due nomi
importanti: Eugenio
Cefis e Vito
Guarrasi (luogotenente
di Cefis in Sicilia, già consulente dell’Eni allontanato da Mattei
dal consiglio di amministrazione dell’Anic Gela per gli interessi
contrastanti che coltivava, e poi tornato in sella dopo la tragedia
di Bascapè). Guarrasi, l’avvocato palermitano, era il più fidato
collaboratore di Cefis: partecipò alle trattative dell’armistizio
del 1943, diventò amministratore di numerose società industriali ed
estrattive e consulente di molte delle più importanti società
nazionali operanti in Sicilia, tra cui Eni, Agip, Snam e Montedison.
Dall’esame del fascicolo personale tenuto dall’Eni “si
evince che era stato Eugenio
Cefis a
fare avere l’incarico di consulente dell’ente all’avvocato Vito
Guarrasi”. Ancora
non è stato chiarito invece il rapporto tra il Verzotto e il
Guarrasi.
Per il pm il delitto Mattei fu “un
complotto tutto italiano” in
cui depistaggi, manipolazioni, soppressione di prove e di documenti,
pressioni e minacce la fecero da protagonisti. Per non parlare delle
complicità emerse dai fatti o dalle dichiarazioni di testimoni e dei
collaboratori di giustizia, riguardanti il ruolo dell’Oas, della
Cia, delle Sette sorelle e anche della mafia.
Sequestro
Mauro De Mauro, un filo unico che conduce alla morte del cronista
Il
16 settembre del 1970 il giornalista de “L’Ora” Mauro
De Mauro venne
sequestrato davanti a casa sua a Palermo e non se ne seppe più
nulla. L’inchiesta sull’uccisione del giornalista durò tre mesi
e mezzo e poi 36 anni di silenzio. Nel 2001 la Questura di Palermo
iniziò l’inchiesta e il processo si aprì finalmente nel 2006:
finì con una sentenza di assoluzione della Cassazione del 2015 per
il boss Totò
Riina,
unico imputato.
Ma qual’è il filo che collega l’eliminazione
del giornalista alla morte di Mattei? Poco tempo prima il
regista Francesco
Rosi gli
aveva chiesto aiuto per scrivere la sceneggiatura su un film che
avrebbe girato sulla storia e sugli ultimi giorni del presidente
dell’Eni. Il giornalista aveva così iniziato delle indagini molto
approfondite: aveva ricostruito le giornate dell’imprenditore a
Gela e a Gagliano e aveva incontrato tutti i personaggi che avevano
girato intorno all’orbita di Mattei negli ultimi giorni, tra cui
anche Verzotto e Guarrasi. De Mauro aveva poi fatto confidenze a
colleghi, amici e ai familiari di avere tra le mani uno “scoop”
clamoroso, “qualcosa di grosso”. Probabilmente era arrivato a
scoprire qualche elemento di verità che poi ha fatto paura a
qualcuno? Nell’ultimo periodo il cronista de "L’Ora" era
anche stato trasferito nella sezione dello sport, un cambiamento che
non aveva accettato volentieri. Inoltre dal diario di Junia e da un
rapporto della Squadra mobile diretto alla magistratura emerse che il
dott. Nisticò, direttore de "l’Ora”,
il giorno dopo la sua scomparsa senza attendere la polizia e prima
ancora di aver avuto la certezza dell’avvenuto sequestro, forzò il
cassetto della scrivania di De Mauro. All’interno di quest’ultimo
erano contenuti gli appunti del giornalista per la sceneggiatura di
Rosi e tra quelli consegnati poi alla polizia manca la pagina n.7.
Nelle pagine di questo documento il nome di Cefis era scritto sempre
a lettere maiuscole.
La
pista Mattei nel caso De Mauro
La
pista Mattei emerse per la prima volta dalle dichiarazioni di un
certo Nino
Buttafuoco,
un commercialista palermitano, il quale subito dopo il sequestro di
De Mauro si recò più e più volte alla casa del giornalista per
chiedere informazioni e facendo intendere di sapere molte cose.
Buttafuoco venne arrestato e poi scarcerato tre mesi dopo. Il
palermitano sembrò essere in stretti rapporti (confermati nella
relazione della Commissione parlamentare antimafia legislatura VI)
proprio con l’avvocato Vito
Guarrasi (il
collaboratore fedele di Cefis), il quale ad un certo punto rischiò
di essere arrestato. La prova stava in una telefonata
(definitivamente ritenuta provata della sentenza del 1981 del
tribunale di Palermo, a conclusione del procedimento contro i
giornalisti Vittorio
Nisticò, Felice
Chilanti ed
altri, imputati di diffamazione in danno di Vito
Guarrasi),
la cui trascrizione è poi scomparsa e della cui esistenza avrebbe
dovuto testimoniare il magistrato Pietro
Scaglione,
ucciso purtroppo il giorno prima della sua deposizione in
tribunale.
Il
giornalista, Mauro De Mauro
La
brusca interruzione delle indagini: intervengono i servizi
segreti
Proprio
quando era vicino l’accertamento della responsabilità per Vito
Guarrasi,
iniziarono i depistaggi: si voleva eliminare la pista Mattei e
favorire la pista della droga, più facile, più rapida da archiviare
e soprattutto non scomoda. I depistaggi iniziarono con le
dichiarazioni di Verzotto, che “su
suggerimento dei carabinieri” confessò
anni dopo al pm Calia di “avere
depistato”.
Le indagini sia della polizia sia dei carabinieri (molto vicini alla
verità) furono interrotte bruscamente un mese dopo la morte di De
Mauro. Ma come è possibile che le indagini potessero venire così
platealmente insabbiate? Perché arrivarono i servizi segreti, che
misero uno stop. Il pm Ugo
Saito rivelò
al collega Calia una verità inquietante: incontrando Boris
Giuliano,
dell’Arma dei carabinieri, Saito gli chiese il motivo per cui le
investigazioni su De Mauro si erano fermate e lui gli spiegò della
circostanza per cui alla “Villa
Boscogrande, un night club in località Cardillo, vi era stata una
riunione alla quale avevano partecipato i vertici dei servizi segreti
e i responsabili della polizia giudiziaria palermitana. In tale
riunione fu impartito l’ordine di “annacquare” le indagini”. Il
questore Li
Donni recepì
l’ordine e chiese di raccogliere tutte le prove e i documenti fino
ad ora raccolti sulla vicenda.
Lo
scoop da far tremare l’Italia
Ma
cosa aveva scoperto nel suo “scoop” Mauro
de Mauro?
Secondo le dichiarazioni di Verzotto al pm Calia a partire dal 1996
il segretario Dc era in contatto con il giornalista e i due si erano
incontrati più volte: “Mauro mi riferì di aver raggiunto un suo
convincimento sulla morte di Mattei”, la pista era esclusivamente
italiana e “secondo
De Mauro, portava direttamente a Eugenio
Cefis e Vito
Guarrasi.
Quest’ultimo in posizione subordinata rispetto a Cefis”, disse
Verzotto. Come si evinceva anche dalla relazione della pg di Pavia
sul caso De Mauro, la morte di quest’ultimo aveva visto “un
coinvolgimento diretto di tutte le massime cariche
politico-economiche dello Stato”: le
indagini del giornalista cadevano nel periodo del rinnovo delle
cariche di presidente della Repubblica e di presidente dell’Eni e
quindi potevano destabilizzare quel sistema di rapporti di potere. La
verità dietro l’omicidio Mattei quindi doveva restare sotterrata
per sempre. Le varie inchieste e il processo iniziato nel 2006
davanti ai giudici di Palermo avevano ipotizzato il coinvolgimento di
Verzotto in primo grado. Secondo questo primo giudizio la rivelazione
di un attentato a Mattei, progettato con la complicità di apparati
italiani (e forse con il supporto della Cia), avrebbe avuto “effetti
devastanti per i precari equilibri politici generali, in un paese
attanagliato da fermenti eversivi e tentato da svolte autoritarie”.
Una valutazione quest’ultima stravolta dai giudici d’Appello che,
con la sentenza del 27 giugno 2014, hanno affermato come a causa “del
lasso di tempo trascorso” e dell’“opera di sistematico
depistaggio” risulti particolarmente difficile se non impossibile
distinguere con certezza i fatti come realmente accaduti”. Un
giudizio confermato anche dalla Suprema Corte nel 2015. Ciò ha
significato che a differenza di quanto ritenuto dai giudici di primo
grado il ruolo di Verzotto nella vicenda non era affatto da ritenersi
certo o “centrale”. Il processo si è concluso appunto con
un’assoluzione dell’unico imputato, il boss Riina.
A
prescindere da cosa è stato o non è stato accertato in giudizio
restano però i fatti e moltissimi dubbi: la scomparsa delle bobine e
della trascrizione della telefonata tra Guarrasi e Buttafuoco, la
scomparsa degli atti che dovevano essere trasferiti dopo la prima
inchiesta alla procura di Pavia, le impronte dei killer
misteriosamente eliminate dallo schedario della polizia criminale. E
anche su De Mauro un intreccio oscuro di apparati e di strutture non
ha permesso di far emergere la verità.
Il
delitto Pasolini, cosa c’entra con Mattei e De Mauro?
Il
2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia morì lo scrittore e
poeta Pier
Paolo Pasolini.
Il caso venne rapidamente archiviato e posto in un cassetto come una
banale “lite tra froci” e venne condannato come solo responsabile
un “pischello” allora di soli diciassette anni, Pino Pelosi. Ma
c’è solo questo dietro la morte dell’autore? Cosa c’entra
Pasolini con Mattei e con De Mauro e come entrò a far parte di quel
filo nero? Dalle diverse testimonianze che sono state raccolte emerse
come all’Idroscalo erano presenti due macchine e come in realtà si
fosse trattato di un vero e proprio massacro commesso da più
persone. I primi nomi e cognomi uscirono grazie al rapporto
investigativo di Renzo
Sansone,
infiltrato per mesi tra i balordi del Tiburtino. Emersero così i tre
nomi dei presunti killer: i fratelli Franco e Giuseppe
Borsellino,
siciliani di Catania, Giuseppe
Mastini,
detto Jhonny
lo Zingaro.
Il 7 maggio del 2005 Pino
Pelosi dichiarò
per la prima volta di essere stato minacciato e di aver avuto paura
fino a quel momento ad esporsi. Nel 2008 Pelosi tornò a parlare,
questa volta indicando i nomi dei complici dell’omicidio, che
coincidevano con quelli scoperti da Sansone, a differenza di Giuseppe
Mastini,
la cui partecipazione Pelosi negò categoricamente. Queste
dichiarazioni non hanno provocato alcun effetto e l’unico
responsabile in giudizio dell’omicidio è rimasto Pelosi.
Il
libro di denuncia di Pasolini, “Petrolio”
Ma
perché proprio Pasolini? Su che cosa stava investigando? L’autore
stava scrivendo un romanzo di nome “Petrolio” in cui parlava
dell’Eni, della morte di Mattei, della scalata al potere del suo
successore Eugenio
Cefis,
della politica italiana fino alla metà degli anni Settanta. Pasolini
era ossessionato proprio dalla figura di Cefis, che in quel momento
era uno degli uomini più potenti d’Italia. Del libro sono
rinvenute solo 522 di 600 pagine ed è scomparso l’”Appunto 21”,
“Lampi sull’Eni”. Il cuore della denuncia di “Petrolio”
stava proprio nella spiegazione dettagliata di quella ramificazione
del potere economico italiano che teneva le redini del Paese e che
veniva affiancato da uno sporco gioco manipolatorio svolto dagli
organi di informazione. Nel romanzo, Pasolini individuava il progetto
eversivo e autoritario di Cefis e gli elementi di continuità che
avevano trasportato il potere dalle mani di quest’ultimo a quelle
di Berlusconi, tramite la figura di Licio
Gelli.
Da una nota riservata del Sismi in effetti, con notizie acquisite nel
1983, emerse come la “La
Loggia P2 fosse stata fondata da Eugenio
Cefis,
che l’ha gestita sino a quando è rimasto presidente della
Montedison”.
Cefis, nel suo progetto autoritario, era stato il primo a comprendere
la necessità di controllare tutti i mezzi di comunicazione e
infatti, come altri potentati, assalì i giornali: era il momento
della ristrutturazione dei mass media e della sottoposizione della
carta stampata ai gruppi finanziari tramite l’eliminazione dei
cosiddetti “editori puri”.
I parallelismi e gli elementi di
continuità tra Cefis e Gelli non stavano solamente nelle coincidenze
di uomini che lavorarono prima per l’uno e poi per l’altro, ma
anche e soprattutto nella funzione ormai permanente che le strutture
volte all’organizzazione e alla gestione del potere in Italia
dovevano esercitare nel panorama politico del Paese. Con l’ascesa
di Berlusconi in campo infine il Piano venne quasi completato: il
cosiddetto “golpe bianco”. Si doveva infatti sbloccare il sistema
politico italiano e per farlo era necessario eliminare i partiti
politici tradizionali aprendo la strada alla Seconda Repubblica, con
la discesa in campo del premier di Forza Italia: per realizzare tutto
questo si dovette versare sangue. È il periodo delle stragi di Stato
del 1992 dove morirono i giudici Falcone e Borsellino e
gli agenti delle loro scorte e delle stragi del Continente del
1993.
I misteri che si nascondono dietro quei decenni di storia
italiana probabilmente, per il lungo periodo di tempo ormai trascorso
e per gli infiniti depistaggi, manomissioni e manipolazioni di prove
che ci sono stati, non verranno mai alla luce. Il presidente dell’Eni
voleva attuare una “rivoluzione impossibile” che avrebbe cambiato
per sempre le sorti del nostro Paese. Certamente dal delitto Mattei
prende il via “un’altra storia d’Italia” che arriva fino ai
giorni nostri e che si è lasciata alle spalle il sangue di uomini
giusti e di quella sacrosanta democrazia sancita nella nostra
Costituzione.
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