Dai Promessi Sposi in musica alla Scortecata, Catania fa scintille

Cultura | 1 aprile 2019
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Bissato qualche giorno fa il successo ottenuto con l’esordio – con un traboccante en-plein del teatro “Metropolitan” di Catania – la commedia musicale I promessi sposi, riportata in scena per la felice regia di Alessandro Incognito (anche attore nei panni di Renzo), s’invola felicemente verso gli indimenticabili spettacoli della debordante stagione teatrale etnea 2018-2019.

 E mentre al “Brancati” proseguono le repliche del Principe del foro (fino al 7 aprile) che l’inossidabile Pippo Pattavina ha tratto da “Durant et Durant”, satira politica e di costume scritta nel 1887 da Albin Valabrègue e Maurice Ordonnea (regia di Ezio Mauro), l’acclamata Emma Dante porta nello scampato teatro “Musco”, ora “Must-Musco” (che pare aver superato il rischio chiusura) una sua personale Scortecata, celeberrima fiaba nera “trattenimento decimo de la iornata primma” de “Lo cunto de li cunti” di Giovanbattista Basile, capolavoro della letteratura secentesca, di cui ha curato testo e regia (produzione Festival di Spoleto-Teatro Biondo di Palermo). L’ingannevole realtà sensibile (la soave voce di cui s’innamora un re e il mignolo levigato che gli verrà offerto attraverso la serratura) regge bordone alla pietosa menzogna di due laide e vecchissime sorelle, una delle quali verrà dall’ignaro re concupita al buio (al ritmo indiavolato del “Mambo italiano”), prima che questi scopra l’orrida verità. Ma se nella favola una ritroverà la giovinezza per sortilegio d’una fata (mentre all’altra non resterà che scorticarsi, per riavere la delicata epidermide d’un tempo), qui l’inganno è ordito dalle due vecchie per se stesse, che (dopo un incipit di reciproche invettive) interpretano e rivivono la fiaba per raggirare fittiziamente la morte, sicché la richiesta finale di scorticamento di una delle due sorelle appare invero dolorosa supplica di morte, muovendo gli spettatori ad ineluttabile pietas umana. Il disgusto provato per le ripugnanti vegliarde, interpretate da due uomini acconciati in terrificanti guepiere, perennemente piagati da posture artrosiche nell’ormai usuale minimalismo scenografico (due sedie e un piccolo castelletto blu), è compensato dalla faticosa e incessante loquacità, in un vernacolo partenopeo oscillante tra tradizione e modernità, dei due instancabili e trascinanti protagonisti (Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola), alla fine più volte chiamati in scena da un pubblico affatturato. Matteo Garrone lo aveva già inserito nel suo film ad episodi “Racconto dei racconti” (2015). 

In cartellone per la terza stagione di “Teatro Mobile” (diretto da Francesca Ferro), il grande Bardo arriva al “Centro Zo” in una “sconvolgente” versione al femminile dell’Otello. Al centro un disorientato “moro” circondato e fisicamente dominato da una presenza “sovrastante” ed opprimente di tre donne (Roberta Andronico, la quarta prevista, vittima di un incidente scenico, ne è stata esclusa), che arrampicate su supporti lignei (“per essere martellato da ogni parte”, spiega il regista Giampaolo Romania, mentre nei ruoli maschili “scendono” al suo livello terreno) ne salgono e discendono ritmicamente, cambiando continuamente ruolo o come prefiche urlanti accompagnando all’unisono il dispiegarsi della tragedia. Funesto l’epilogo con l’innocenza punita e l’inganno del perfido Iago luttuosamente vincente. Visual effects su una scenografia essenziale fatta di legni e lenzuola. Interpreti: Franz Cantalupo, Lorenza Denaro, Anita Indigeno e Leandra Gurrieriu. 

Può un vincente sentirsi sconfitto? L’apparentemente retorico interrogativo domina lo stringente monologo che Mattia Fabris, autodirigendosi, ha tratto dalle “confessioni” di Andrè Agassi, campione mondiale di tennis, che il tennis ha odiato per tutta la vita, incaglio maledetto e insormontabile imposto da un padre-tiranno. Con Open (penultimo spettacolo della fortunata stagione di “Palco Off”, impostosi con autorevolezza al pubblico etneo con la direzione di Francesca Vitale,) lo stesso protagonista narra in prima persona il dramma individuale della propria vita: l’impossibile espletamento d’una personalità concussa, che solo alla fine della carriera si scuote dai gravami d’una imposizione mai accettata e divenuta conformisticamente esistenza “altra” da quella anelata. Una personale discesa agli inferi da Fabris percorsa impietosamente, tra racconti di vittorie sempre più sofferte, non volute eppure necessarie, rispecchiamento universale di tutte le vite immolate ad un dio invisibile e dispotico (alla chitarra Massimo Betti). 

Parte (o riparte, come dice il giovane e promettente regista Sebastiano Mancuso) dall’indiscussa capitale del teatro siciliano, Catania, il thriller psicologico “Piano, piano dolce Carlotta” dal celeberrimo lavoro di Henry Farrel (sempre al “Must-Musco”) che dopo “Che fine ha fatto Baby Jane”? prosegue coerentemente il proprio progetto teatrale affidando al genere psicodramma il talento “in nuce” d’una compagnia giovane, ma già foriera d’un successo consegnato a scelte non usuali, confermate anche dall’annuncio dei prossimi lavori (“Misery non deve morire” di Stephen King e “Le sixième jour” ovvero “Il sesto giorno” tratto dal romanzo di Andrée Chedid). Stimolato più che scoraggiato dal magistrale film di Robert Aldrich (1964), Mancuso rende ancora più ellittica la scrittura teatrale, scorciando il percorso, ma penetrando nei meandri dell’infernale complotto contro la povera e ricca Carlotta (da sempre sospettata dell’orrendo omicidio del suo amante) senza nulla sottrarre al tragico crescendo della storia e agli oscuri motivi d’una vendetta a lungo covata. Nei panni difficili di Carlotta Ermo Lern, verosimile nella resa “schizofrenica” d’un personaggio ossessionato e perseguitato dai fantasmi d’un orribile passato, ben corrisposto dal team attoriale in progress. (Loriana Rosto, Antonella Scornavacca,, Gaetano Festinese). Spazio scenografico suggestivamente diviso da Francesca Nicosia da lunghi drappi trasparenti.

 di Franco La Magna

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