Dai pescatori mazaresi a Regeni, i nodi irrisolti nel Mediterraneo

Politica | 15 dicembre 2020
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Cosa hanno in comune il sequestro in Cirenaica di diciotto pescatori di Mazara del Vallo e, in Egitto, il caso Regeni e il caso Zaki? Semplice: l’inconsistenza della politica estera italiana. Ossia l’incapacità della Presidenza del Consiglio (leggi: Giuseppe Conte) e, se possibile ancora di più, del Ministero degli Esteri (leggi: Luigi Di Maio) di gestire vicende e rapporti con paesi situati geograficamente non nella lontana Oceania ma a poche centinaia di chilometri dai nostri confini.

Che l’Italia non abbia né numeri né fondamentali per essere una potenza globale lo sappiamo bene. E’ logico, assodato, accettabile. Che sia incapace però di avere persino il rango di potenza regionale di corto raggio nel perimetro del suo spazio condominiale non lo possiamo accettare. Nessuno vuole o cerca la politica delle cannoniere di ottocentesca memoria ma un minimo di prestigio ed autorevolezza - quanto meno in casi che hanno direttamente a che fare con diritti umani violati e calpestati di nostri concittadini da parte di altri stati - lo pretendiamo. Conosciamo paesi ben più piccoli del nostro – ne citiamo due, la Norvegia e la Svizzera – che, senza bisogno di mostrare i muscoli, senza dare vita ad azioni eclatanti, godono d’un prestigio internazionale ben più riconosciuto del nostro.

L’ultima volta che la Repubblica italiana ha saputo farsi rispettare in campo internazionale probabilmente risale al governo Craxi, alla notte di Sigonella del 10-11 ottobre 1985. Nella crisi seguita al dirottamento del transatlantico “Achille Lauro” e al sanguinario assassinio sulla nave di un crocierista, un anziano cittadino americano ebreo sulla sedia a rotelle, da parte di terroristi palestinesi, andò in scena un incredibile vero e proprio confronto militare, fortunatamente senza spargimento di sangue. A Sigonella attorno all’aereo civile che trasportava i terroristi reparti speciali americani circondano carabinieri e avieri e sono a loro volta circondati da altri carabinieri fatti affluire nella base, dotati anche di automezzi blindati.


I pescatori di Mazara del Vallo e il ricatto di Haftar

Oggi andiamo in bambola per molto meno. A Bengasi, capoluogo della Cirenaica, il capobanda generale Khalifa Haftar dall’1 settembre di quest’anno tiene in ostaggio diciotto pescatori di Mazara del Vallo – otto siciliani, sei tunisini, due senegalesi, due indonesiani – e i due pescherecci sui quali erano imbarcati per una battuta di pesca. Sequestro di persona in piena regola, in stile criminale, organizzato – sono in tanti a sostenerlo – per imbastire uno scambio con alcuni scafisti amici o della cordata del generale. Incappati nella giustizia italiana ed ora ospiti delle nostre patrie galere a causa di gravi reati consumati nei traffici di migranti sulle rotte che dall’Africa del Nord portano sulle coste siciliane o del Meridione. Più precisamente si tratterebbe di quattro giovani cittadini libici detenuti in Sicilia, condannati per l’affondamento di un barcone partito come al solito dalla Libia e naufragato. Nel naufragio morirono quarantadue migranti africani. I quattro libici viaggiavano sul barcone e avrebbero contribuito a imprigionare i migranti sottocoperta. Un gesto fatale in quanto ha precluso agli sventurati migranti la possibilità di tuffarsi in mare e tentare di salvarsi quando il barcone colava a picco scomparendo tra le onde.

Trattative, gran lavorio sottotraccia di nostri servizi segreti e diplomatici ma – come ben sanno le dignitosissime famiglie dei pescatori che organizzano continui sit-in di protesta in Sicilia e a Roma per reclamare la liberazione di mariti e padri e come ben sa l’intera comunità mazarese a loro vicina – risultati niente. E i mesi trascorrono nell’angoscia sulla sorte dei sequestrati detenuti a el Kuefia, 15 chilometri a sudest di Bengasi senza una accusa formale.

Ha scritto il 26 novembre 2020 in un commento su “La Repubblica” dal titolo “La Libia mai così lontana” Lucio Caracciolo, uno dei nostri più autorevoli esperti di geopolitica: “Fra le troppe vittime del Covid 19 e del suo semi-monopolio dell’informazione c’è la nostra coscienza politica. Come spiegare altrimenti il silenzio quasi totale con cui abbiamo accolto lo strategico cambio della guardia al nostro confine meridionale? Nel giro di pochi mesi, lo stretto che bordeggiando la Sicilia separa l’Italia dall’Africa, attraverso cui passa il grosso dei traffici tra Oriente ed Occidente, ha visto insediarsi sulla costa meridionale due potenze di rango: Turchia e Russia. I turchi a Tripoli e dintorni, i russi nella Cirenaica. In tempi di guerra fredda, tale scenario avrebbe provocato reazioni frenetiche. Probabilmente la guerra calda. Oggi niente. Perché?

Prima ricordiamo il come. Tra marzo e ottobre 2011, per decisione francese accompagnata dai britannici e protetta dagli americani, il regime di Gheddafi, ormai al tramonto, fu spazzato via. Ma gli atlantici non avevano un dittatore di ricambio. Oppure pensavano che la nazione libica esistesse davvero. Sicché potesse avviarsi verso orizzonti filo-occidentali. Per l’Italia, che malvolentieri sostenne l’impresa avendo appena ratificato un trattato di amicizia con Gheddafi, il problema era immediato: alla nostra frontiera marittima meridionale, fianco sud della Nato, ecco aprirsi un colossale vuoto geopolitico. Grande sei volte il nostro Paese. I francesi, dimentichi del detto cartesiano per cui la natura aborre il vuoto, scoprirono che quel deserto a ridosso del loro pré carré nordafricano se non gestito da un cliente sarebbe finito a disposizione di jihadisti o peggio di potenze avversarie. Idem per gli altri atlantici. Noi compresi.

Da allora le Libie sono coriandoli contesi fra milizie attratte dalle notevoli risorse locali, tra petrolio e traffico di esseri umani. Due apparenti attori principali: il generale Khalifa Haftar, sostenuto da Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, a tratti dagli Usa, surrettiziamente anche dalla Francia. E Fayez al-Serraj, leader di un teorico “governo” tripolino benedetto dall’Onu e dall’Italia, armato da turchi e qatarini. Il duello è in provvisorio stallo. A questo punto i due presunti protagonisti si sono svelati teste di turco. Serraj in senso proprio, essendo ormai la Tripolitania protettorato turco, più cogente di quanto fosse ai tempi ottomani. Haftar in metafora, visto che dietro di lui si è allungata l’ombra di Mosca e delle sue milizie Wagner, che stanno stringendo i bulloni della presenza russa in Cirenaica”.

La Libia ormai non esiste più come stato. A Tripoli il debolissimo governo Serraj, ora puntellato e rifornito di armi dal bullo di Ankara Recep Tayyip Erdogan. A est, a Bengasi, spadroneggia il succitato capobanda Haftar, ex generale di Gheddafi (quando si dice che a volte ritornano…), sotto il protettorato di fatto di un altro noto nobile difensore della democrazia: Vladimir Putin. Il quale ha già impiantato da quelle parti basi militari, navali e aeree, russe e foraggia il generale Haftar più o meno apertamente. Anche con il ricorso a contractor privati, ormai da diversi anni ulteriore braccio operativo della politica espansionistica del Cremlino. I mercenari del Wagner Group hanno operato nel Donbass, in Siria, Madagascar, Venezuela a fianco del dittatore Maduro. E ora in Libia. Il tutto a un tiro di schioppo dalla Sicilia.

“Scenario impensabile senza l’allentamento della guardia americana in Nordafrica e nel Mediterraneo. – prosegue Caracciolo – Washington è concentrata sul Mediterraneo asiatico: il Mar Cinese Meridionale. Dove ci sollecita a partecipare con una nostra spedizione navale al contenimento/strangolamento della Cina (è la “Nato globale”, bellezza!).

Intanto occupiamoci del Mediterraneo di casa. A meno di non considerare normale di confinare con due potenze come Turchia e Russia. La prima, formalmente alleata, di fatto in pulsione neoimperiale. La seconda, considerata nemica fissa dal nostro capocordata d’Oltreoceano. Alle prese con una grave crisi di identità e strategia, Washington non considera prioritario il contenimento mediterraneo della Russia. E’ anzi tentata di subappaltarlo alla Turchia, quasi Ankara fosse partner affidabile e non aspirante primattore.

Risultato: le Libie sono affari nostri. Vegliare l’instabile confine su Caoslandia fronteggiando sulla quarta sponda Turchia e Russia è sfida serissima. Se non ce ne occuperemo, saranno altri, nemici o presunti alleati, a occuparsi di noi”.

Nelle scorse settimane ha ancora di più indignato i familiari dei pescatori mazaresi una vicenda che ha visto fermata, perquisita e sequestrata una nave turca al largo della Cirenaica, sospettata di trasportare armi (in pura linea teorica in Libia dovrebbe vigere l’embargo di armi). Il bullo di Ankara ha minacciato fuoco e fiamme. In cinque giorni la nave sequestrata dalle milizie del mare di Haftar è stata rilasciata con il suo equipaggio ed ha ripreso la navigazione. I pescatori mazaresi invece – anche per l’inconsistenza del ruolo italiano in Libia dove fino ad una decina di anni fa contavamo qualcosa anche per gli avvenimenti storici che nel secolo scorso hanno intrecciato la vita dei due paesi – possono continuare a marcire in prigione. Si tratta. Si tratta. Si tratta. E non si viene a capo di nulla per la loro liberazione. Una delle poche certezze è che – vista la difficoltà giudica di “graziare” i quattro libici implicati nel naufragio e rimandarli a casa magari con le scuse – finiremo probabilmente per comprarcela la liberazione dei pescatori a suon di riscatto dall’importo molto consistente. Per giunta. E le stelle stanno a guardare. Anzi le cinque stelle stanno a guardare. Alla guida della Farnesina devono andare uomini politici di riconosciuta esperienza e di prestigio, non apprendisti in corso della politica. Sullo scenario della politica internazionale si ha a che fare con il peggio del mondo. Un palcoscenico ben più impegnativo e complicato dell’agone nazionale dove tra interviste, dichiarazioni e twitter è tutto sommato facile assicurarsi presenza e visibilità.


Il caso Regeni, una infamia per l’Egitto di al-Sisi

Sul caso Regeni è dal 25 gennaio 2016 che i superpolitici italiani, di destra e di sinistra, si fanno prendere in giro, anzi a pesci in faccia, dal tiranno del Cairo Abdel Fattah al-Sisi. Meglio della politica nostrana ha fatto senz’altro la magistratura romana. Malgrado totale assenza di collaborazione dal Cairo e continui depistaggi a partire dall’ultimo secondino fino a salire a ministri ed ex ministri, i nostri investigatori ed i magistrati inquirenti sono riusciti ad individuare i quattro agenti di uno dei tanti, troppi, servizi segreti egiziani. I quattro 007 sono gli autori del rapimento, delle brutali torture e dell’assassinio di stato perpetrato ai danni di Giulio Regeni. Il dottorando italiano dell’Università inglese di Cambridge si era recato nella capitale egiziana per svolgere presso l’Università Americana del Cairo una ricerca sui sindacati indipendenti in Egitto. Il processo con tutta probabilità non sortirà effetti concreti. Ammesso che i quattro zelanti servitori della dittatura militare egiziana vengano condannati non verranno mai estradati in Italia. Ma intanto va istruito e poi celebrato. E’ importante, doveroso farlo. I genitori di Giulio – nobilissime figure di ormai anziani genitori che hanno saputo trasformare la loro tragedia familiare in una battaglia internazionale per i diritti civili calpestati nel paese del Nilo e nei troppi stati autoritari che intossicano il mondo – chiedono ripetutamente il richiamo del nostro ambasciatore dal Cairo. Entrano in ballo a proposito di questa richiesta affari, import, export, vendita di sistemi d’arma tra Italia ed Egitto. La vicenda Regeni ormai da un lustro indigna anche la più distratta delle opinioni pubbliche. Stupisce però che sul piano giudiziario la nostra magistratura non abbia ancora avviato alcun procedimento nei confronti di due donne egiziane ambigue come poche: la professoressa del dottorato di Regeni nell’Università di Cambridge Maha Mahfouz Abdelrahman, che lo ha mandato allo sbaraglio in Egitto, e un’altra donna che da una parte conversava con Giulio e dall’altra informava un sindacalista cairota informatore dei servizi segreti del suo paese. Risultato: al Cairo ci si è convinti che piuttosto che per venire a lavorare ad una ricerca universitaria come tante il giovane friulano era andato nel paese mediorientale per chissà quali scopi di spionaggio e sovversione. Quanto è bastato agli sbrigativi 007 egiziani con licenza di uccidere per bloccarlo, torturarlo, massacrarlo, mutilarlo orrendamente.

E noi? Anche in questo caso le stelle stanno a guardare. Ma almeno un cinque stelle doc, il presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico, si sta battendo encomiabilmente a fianco di papà e mamma Regeni. Per il resto nel quinquennio tutti gli inquilini di Palazzo Chigi, Farnesina ed edifici vari dove sono acquartierati più o meno in incognito i nostri servizi segreti hanno raccolto dal Cairo più che altro il gesto dell’ombrello quanto a collaborazione istituzionale. Al-Sisi potrebbe mai autodenunciarsi ed autoprocessarsi, lui ed i suoi apparati di sicurezza, in questo lampante omicidio di stato?


Il caso Zaki

E, infine, il caso Zaki, lo studente ventinovenne egiziano – non musulmano: fa parte della minoranza cristiano-copta – iscritto nell’Università di Bologna. In carcere da un anno senza processo. Vero è che Patrick è cittadino egiziano ma è anche vero che viveva in Italia e studiava in un ateneo italiano. Dovremmo pertanto essere meno remissivi con le autorità del suo paese. Non fare finta che la vicenda non ci riguardi. La colpa di Zaki? Una specie di caso Regeni-bis: fare parte di una associazione in difesa dei diritti civili. Quanto basta in Egitto per finire in carcere senza neppure prendersi l’incomodo di una processo di facciata.

In tutte le interviste i nostri vertici giurano che si sta lavorando alla soluzione dei tre casi, senza clamore, che occorre tempo e pazienza, che i contatti e le trattative sono complessi. Ma intanto il tempo scorre.

E in questa debolissima Italia di cui i governanti degli altri paesi si impipano e ridono - ulteriormente messa in ginocchio dalla pandemia e dal suo disastroso quanto inaccettabile primato di paese europeo con il più elevato numero di decessi - le famiglie dei pescatori (una comunità interetnica: siciliani, immigrati tunisini ormai italiani dopo trenta-quaranta anni a Mazara, senegalesi, indonesiani) continuano a protestare davanti ai palazzi della politica.

Paola e Claudio Regeni continuano a chiedere giustizia per il massacro del loro adorato figlio, vera e propria infamia per i governanti e per l’opinione pubblica egiziana addomesticata dalla dittatura militare di al-Sisi. Il quale – incredibile a concepirsi! - nel corso della sua recente visita di stato a Parigi è stato insignito della “Gran Croce della Legion d’Onore” dal presidente francese Macron. Per quali meriti? Per aver reso l’Egitto più lager ancora di quanto fosse prima della sua presa del potere? Per i 60.000 detenuti politici che marciscono in galera in quello che è il più popoloso paese arabo? Che non si farebbe in nome degli affari e della vendita di tutto, a partire dalle armi.

E, nella dotta Bologna e non solo, i nostri universitari continuano ad organizzare i loro luminosi sit-in per chiedere che al collega di studi Patrick Zaki, ricercatore dottorando come Regeni, venga concesso di venire fuori dal buio delle torture, da una cella, da disumane condizioni di carcerazione nelle galere egiziane. Per essersi macchiato della colpa imperdonabile di aver filmato qualche manifestazione o dibattito, per la colpa di fare parte come attivista dell’associazione per la difesa dei diritti umani “Egyptian Initiative For Human Rights”. Accusato di “aver tentato di rovesciare il regime al potere” e di aver lavorato ad una tesi sulla omosessualità. Nientepopodimeno che. Accuse ridicole. Reati inconsistenti. Pensate un po'.

Ma quanto conta l’Italia nel Mediterraneo? Sessanta – quaranta anni fa ci lamentavamo che a dettare la politica estera italiana in molte aree fosse l’Eni, il nostro potente ente petrolifero di stato. In parte vero. Sempre meglio, tuttavia, della condizione di imbarazzante nullità attuale.

 di Pino Scorciapino

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