Da Trump a Grillo, la deriva totalitaria dell'antipolitica

Politica | 18 dicembre 2016
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Non occorrevano virtù profetiche per intuire che la Brexit rappresentava  il principio di una china capace di trasformarsi in una slavina atta a travolgere l'intero assetto  dell'Europa. Così come non era necessario essere raffinati politologi per intravedere nella vittoria elettorale di un miliardario isolazionista e reazionario l'inizio di una fase di profonda trasformazione della politica degli Stati Uniti, di cui la telefonata alla premier di Taiwan e la nomina a segretario di Stato del capo di una delle più importanti compagnie petrolifere sono solo le prime sorprese. Ben altre e peggiori dobbiamo attenderne. Anche chi si illudeva che la valanga dei No al referendum italiano del 4 dicembre avrebbe consentito la cacciata del “barbaro usurpatore” e fatto risorgere il “sol dell'avvenire, sta cominciando a valutare pienamente le conseguenze di quanto è avvenuto.  “Non arriveranno le cavallette”, uno degli slogan dei vincitori della campagna referendaria sta rivelando la sua fallacia già nel volgere di quindici giorni scarsi. 

I sindaci delle due maggiori città italiane in bilico in conseguenza di inchieste giudiziarie, il tentativo di scalata ostile da parte di Vivendi nei confronti della Mediaset, il precipitare drammatico della crisi del Montepaschi Siena, l'incertezza politica di un paese sospeso tra elezioni anticipate e crisi di sistema, l'apparire di fenomeni squadristici sono tutti segnali che si è messo in moto un rischioso processo di destabilizzazione. La vittoria del No ha certamente gran parte  delle sue motivazioni nel disagio sociale, in special modo dei giovani e del Sud, e negli errori delle politiche del governo Renzi sul versante del lavoro,  particolarmente il Jobs Act; ma è altrettanto vero (e dimostrato dai flussi elettorali) che il voto è del tutto sovrapponibile a quello delle elezioni politiche del febbraio 2013 e che la somma tra i voti grillini e quelli conseguiti dal centrodestra di Berlusconi e Salvini costituisce  senza ombra di dubbio la base di massa del consenso referendario degli oppositori della riforma costituzionale. Un voto politico, dunque, che ha trovato nel quesito referendario il modo per canalizzare lo scontento profondo della maggioranza degli italiani. A ciò ha contribuito lo story telling renziano (“stiamo facendo tutto quello che gli altri non erano stati capaci di fare”)  che con il suo manicheismo ha impattato  contro la complessa e contraddittoria realtà di un paese che la crisi ha lasciato profondamente impoverito nelle classi lavoratrici, sfiduciato, debilitato in particolare nei ceti medi che ne costituiscono tradizionalmente una delle strutture portanti. Al tempo stesso  si sono spezzati tradizionali legami di consenso, anche clientelare.

 Dietro l'ondata del No nei quartieri popolari di Palermo e di Catania c'è davvero l'improvvisa emersione “di una cultura costituzionale diffusa” di cui parla Stefano Rodotà su La repubblica del 17 dicembre? Suvvia, non prendiamo lucciole per lanterne! A me pare che tale voto possa essere letto in continuità con le Regionali siciliane del 2012 e con  le politiche dell'anno successivo che hanno rappresentato il collasso dei tradizionali sistemi di raccolta del consenso politico il loro spostamento in direzione della protesta rappresentata dal comico genovese e dal segretario della Lega Nord.  I dirigenti del M5S sottolineano la loro equidistanza dalla destra e dalla sinistra. In realtà nel loro seno convivono idee e posizioni contrapposte sotto la comune coperta dell'attacco alla “casta”. Pur essendo ormai evidente che  nell'esperienza romana essi sono stati chiaramente utilizzati come taxi  da gruppi di potere consolidati, hanno tuttavia ragione quando contestano l'utilizzo nei loro confronti del termine antipolitica. In realtà la loro posizione è di contestazione della democrazia parlamentare e del ruolo dei partiti. Da questo punto di vista essi rinnovano l'antica tradizione dell'antiparlamentarismo e della contestazione della democrazia rappresentativa che fu propria, all'inizio del ventesimo secolo, sia della destra (si pensi a Vilfredo Pareto e a Robert Michels) che di una parte dell'estrema sinistra (echi se ne colgono negli scritti del Mussolini rivoluzionario). Il filosofo del diritto Paolo Becchi, generalmente considerato uno dei principali mentori del grillismo, in una recente trasmissione televisiva ha definito “pecoroni” i parlamentari in carica; una raffinata metafora della rappresentanza popolare cui fa da contrappunto la sua idea di un'”Europa formata da popoli con tradizioni che li contraddistinguono, da Stati territoriali con ordinamenti politici peculiari, da società che restano eterogenee, da cittadini che pur riconoscendosi in alcuni valori hanno stili di vita diversi.”

E per capire di che parliamo basta continuare:”..la salvezza dell'Europa dipende dal recupero della sua origine spirituale..che... nasce in Grecia liberandosi dall'influsso asiatico”...riconoscendo se stessa “come un mosaico  che attrae la bellezza di tasselli di diversa natura e colore che lo compongono” (P. Becchi e A. Bianchi, Oltre l'euro, le ragioni della sovranità moderna, pagg. 31 e 32). Insomma, l'uscita dall'euro e la riproposizione degli stati nazionali come soluzione alla profonda crisi delle società e delle economie del vecchio continente. In quest'esaltazione degli stati nazionali scompare il ricordo della lunga guerra che insanguinò l'Europa dal 1914 al 1945 con un intervallo men che ventennale nel quale presero il potere il fascismo in Italia, il nazismo in Germania, il franchismo in Spagna, La dittatura di Salazar nel Portogallo. Ma non si tratta solo di questo. Carlo Formenti  su Micromega (25 novembre 2016) così definisce il rapporto tra liberalismo politico e liberismo economico:”la lotta per la riconquista della democrazia ..(passa) inevitabilmente per il superamento del liberismo economico e del liberalismo politico...i teorici della democrazia radicale riconoscono come tale solo la democrazia diretta e partecipativa,  l'autogoverno o, nel caso si diano forme di rappresentanza, chiedono che vengano vincolate al mandato breve e imperativo ed alla possibilità di revocare l'eletto in qualsiasi momento.” In ogni caso “se il populismo – sia esso di destra o di sinistra...- è la forma che la lotta di classe tende ad assumere nell'era dell'eclissi delle sinistre storiche e dell'impotenza di quelle radicali , la sua declinazione gramsciana dovrebbe essere la valorizzazione del suo potenziale di rottura antisistemica, la spinta alla creazione di istituzioni di democrazia diretta o partecipativa (vedi i processi costituenti delle rivoluzioni bolivariane …) e la lotta egemonica all'interno di tali processi per orientarli in senso anticapitalista”. Se in Formenti, che ha alle spalle l'esperienza del gruppo Gramsci e della FLM, il populismo si connota di un  tentativo di recuperare il concetto gramsciano di egemonia, nella vulgata grillina esso si inserisce di un evidente contenuto autoritario in cui la critica alle forme tradizionali della democrazia trova lo sbocco nello ”uno conta uno”,  nel ruolo determinate della rete ma soprattutto nell'ipervalutazione della funzione dell'individuo. 

Si legga al proposito l'intervista a Jerome Glenn, cofondatore di Millenium project, a proposito del rapporto tra la quarta rivoluzione industriale  e la democrazia (Blog di Beppe Grillo, Il futuro è l'intelligenza artificiale, 10/12/2016 consultato il 17/12/2016 ore 15,52).”Gli individui” afferma Glenn” avranno molto più potere per creare attività e azioni e coalizioni ad hoc, che potremo definire le politiche del futuro...ci saranno ancora governi che definiranno le regole, ci saranno ancora le aziende che organizzeranno i sistemi di produzione e ci sarà ancora la religione che proverà a definire il valore delle cose..(ma)...molte delle cose che chiediamo ai governi oggi potranno essere realizzate dagli individui; è l'individuo che acquisisce più potere sugli altri poteri. E' questa la vera rivoluzione.” Mi è consentito far notare  che  in questa visione scompare non solo il sindacato come forza sociale che rappresenta gli interessi del lavoro, ma la concezione  di azione collettiva che è la base stessa della concezione socialista, ma anche della democrazia sociale di tradizione cattolica? Tutto si riduce all'individuo ed al suo rapporto con le potenzialità tecnologiche offerte dalla rete.

 Giudico strumentale e culturalmente debole l'uso della critica alla cosiddetta “terza via” proposta in queste settimane in chiave di polemica interna al PD. Essa, infatti, ci riporta ad anni ormai lontani, precedenti la grande depressione; insomma ad un contesto politico del tutto diverso dall'attuale ed ancora segnato dalla caduta del muro di Berlino e dalla drammatica conclusione nel 1989 -a settantadue  anni dalla rivoluzione del 1917- dello scontro tra comunismo e  socialdemocrazia. Oggi, alla vigilia del centenario della presa del Palazzo d'inverno, l'uno è oggetto dello studio degli storici l'altra vive la crisi più profonda della sua esistenza, incapace di dare risposte ai problemi- primo tra tutti la geometrica crescita delle diseguaglianze nelle società dell'Occidente- che  la globalizzazione e la crisi decennale che ne è seguita, hanno lasciato in eredità. Lo dice l'insospettabile Arnaud Montebourg, ex ministro socialista dell'economia che si appresta a sfidare Manuel Valls alle primarie del Partito Socialista in Francia, il quale richiesto se pensi che la sinistra ispirata da Tony Blair e Bill Clinton sia scomparsa così risponde: “Quell'esperienza risale a molto tempo ed è finita. Era ancora l'epoca in cui si immaginava di poter venire a patti con il sistema finanziario, ma non è più possibile” (Corriere della Sera 17/12/2016). E' un'affermazione corretta che traccia un confine  rispetto al passato, ma non ci indica la strada del futuro che è tutta da costruire senza volgere la testa all'indietro, al mondo che non c'è più e non tornerà, ma tentando di proiettare verso il futuro idee nuove per di governare il cambiamento della società europea; infatti solo nella dimensione dell'Europa ci è dato un  futuro. Un'Europa nella quale, tuttavia, sempre più larghe appaiono le isole idi autoritarismo. Su questo snodo della democrazia, del riformismo e delle tendenze autoritarie presenti nel nostro continente potrebbe essere utile aprire una discussione all'interno della comunità che si raccoglie attorno al Centro Pio La Torre che le mie modestissime note, puntano a stimolare.

 A Montale la (provvisoria) chiusa:

  “ (...) Non domandarci la formula che mondi possa aprirti

   sì qualche storta sillaba e secca come un ramo

    Codesto solo oggi possiamo dirti,

   ciò che non siamo ciò che non vogliamo” 


 di Franco Garufi

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