La “Buona scuola” è legge di stato. Almeno sulla carta, ci sono tutte le premesse per un salto di qualità. I punti salienti sono l’inversione di tendenza sulla spesa, dopo la stagione dei tagli, il rafforzamento delle prerogative dei dirigenti e una maggiore possibilità di progettazione.
I principi della riforma
Il disegno di legge n.1934 (più noto come “Buona scuola”) appena approvato
definitivamente dalla Camera in forma di unico articolo, in apertura enuncia i
principi ispiratori, tutti pienamente condivisibili: “innalzare i livelli di
istruzione e le competenze delle studentesse e degli studenti, […] per
contrastare le diseguaglianze socio-culturali e territoriali, per prevenire e
recuperare l’abbandono e la dispersione scolastica, […] per realizzare una
scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e
innovazione didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza
attiva […]”.
Il modello organizzativo a cui si ispira la riforma è quello
della attuazione della autonomia scolastica, che significa capacità di adattare
l’offerta formativa al contesto locale alla luce delle costanti trasformazioni
della realtà esterna. Non stupisce quindi che una più ampia autonomia richieda
una maggiore e migliore capacità di direzione da parte dei dirigenti scolastici,
il cui ruolo viene rafforzato.
I cambiamenti più importanti introdotti dalla
legge sono almeno tre: inversione di tendenza nella spesa pubblica in
istruzione, rafforzamento delle prerogative manageriali dei dirigenti
scolastici, miglioramento delle possibilità di progettazione.
La spesa in istruzione
La legge sancisce un’inversione di tendenza nella spesa pubblica in
istruzione, in cui l’Italia risulta essere uno dei paesi europei con il più
basso livello di risorse investite in rapporto sia al prodotto interno lordo,
sia come quota finalizzata sul totale della spesa pubblica (l’8 per cento della
spesa pubblica, secondo il recente rapporto Oecd Government at a
glance, seguiti solo dalla Grecia al 7,8 per cento). Questo viene attuato
attraverso un innalzamento della spesa dell’ordine di un miliardo e mezzo di
euro all’avvio (e di tre miliardi e mezzo a regime) collegato all’immissione
graduale in ruolo di circa 100mila nuovi insegnanti, oltre al rimpiazzo del
turnover legato ai successivi pensionamenti.
L’aumento della spesa è
indubbiamente un fatto positivo, che differenzia il governo di centro-sinistra
dalle politiche dei tagli dei passati governi di centro-destra. E non stupisce
altresì che questa maggior spesa si concentri sull’assunzione di personale, dal
momento che l’istruzione è uno dei settori produttivi a più alta intensità di
spesa in personale. Ma non solo: vengono stanziati fondi per incentivare il
merito per gli insegnanti (200 milioni di euro annui), per l’incremento del
fondo di funzionamento (123 milioni di euro nel 2015), per sostenere i consumi
culturali degli insegnanti (con una card annuale di 500 euro per insegnante,
pari a circa 400 milioni di euro), per incentivare i dirigenti (35 milioni a
regime dal 2016) e per l’edilizia scolastica (oltre allo stanziamento per
l’arricchimento dell’offerta formativa, incrementato in giugno di 40
milioni).
Quello che ha invece sollevato più di una perplessità sono i
criteri di scelta del nuovo personale, di necessità imposti dalla spada di
Damocle di migliaia di potenziali ricorsi dopo il pronunciamento della Corta di
giustizia europea.
In un mondo ideale, sarebbe stato auspicabile una
immissione graduale diluita nell’arco di cinque-dieci anni, con filtri basati
sulle capacità accertate dei candidati e sulle esigenze didattiche delle scuole.
Dove sarebbe quindi la domanda di competenze a regolare l’ingresso in ruolo e
non l’offerta residua delle graduatorie a esaurimento. I meccanismi selettivi
degli insegnanti finora in vigore mettevano un filtro (parziale) all’ingresso
attraverso l’abilitazione, ma premiavano sostanzialmente l’anzianità
d’iscrizione in lista di attesa. Il combinato dei due meccanismi applicati in
sequenza nel tempo non porta necessariamente alla selezione dei candidati
migliori, tanto più ora quando ci si prefigge di svuotare queste liste di attesa
(in gergo indicate come Gae – graduatorie ad esaurimento). Il rischio (se non la
certezza) è che questa operazione di assunzione immediata di un numero così
elevato di docenti si trasformi nell’ennesima sanatoria ope legis che
saturerà il fabbisogno di organico per il prossimo decennio, lasciando scoperte
le cattedre le cui competenze sono fortemente richieste (per esempio
tradizionalmente quelle di matematica, ma anche di economia o di
informatica).
Prerogative dei dirigenti
Sul rafforzamento delle prerogative manageriali dei dirigenti scolastici si
sono maggiormente concentrate le proteste sindacali degli insegnanti. Secondo la
nuova legge il dirigente avrà a disposizione fondi per premiare l’impegno
scolastico dei docenti (con attenzione alle scuole a maggior rischio educativo),
potrà scegliersi un gruppo di insegnanti “collaboratori” nella funzione di
governo della scuola (opzione di fatto già esistente attraverso la scelta dello
staff e, in parte, delle cosiddette “funzioni strumentali”) e potrà scegliere i
nuovi insegnanti da un bacino predefinito (creando quanto indicato, sempre in
gergo, come organico dell’autonomia o funzionale).
Molte delle correzioni
introdotte dal dibattito parlamentare hanno mirato a limitare queste
prerogative: l’erogazione dei fondi incentivanti è stata trasferita a una
commissione dove gli “incentivandi” hanno la maggioranza, la scelta dei nuovi
insegnanti deve avvenire rispettando dei vincoli procedurali di trasparenza
(pubblicità del fabbisogno di competenze in linea con il piano formativo
triennale della scuola, pubblicità dei curricula dei selezionati).
Il vero
nodo della vicenda sembra però legato alla attuazione del comma 93 (ebbene sì,
questa nuova legge nasce come articolo 1 corredato di 212 commi) relativo alla
valutazione dei dirigenti scolastici. Prevista originariamente come delega al
governo e ricondotta nell’alveo della legge dal dibattito parlamentare, il
summenzionato comma affronta il nodo del “chi controlla il controllore?”
definendone le aree di valutazione (competenze gestionali e organizzative,
capacità di leadership, miglioramento nel livello degli apprendimenti degli
studenti) e i soggetti attuatori (ispettori e dirigenti ministeriali,
organizzati in commissioni valutatrici su base regionale).
Resta però
imprecisato il benchmark di riferimento della valutazione: saranno gli obiettivi
che i dirigenti si sono di fatto auto-assegnati con i rapporti di
autovalutazione, attualmente in fase di compilazione in via sperimentale in
tutte le scuole italiane? Se così fosse (come appare probabile), assisteremmo a
una rinuncia da parte ministeriale della proposizione dall’alto di obiettivi
qualificanti (per esempio in materia di dispersione scolastica, di inclusione,
così come di promozione delle eccellenze), che si tradurrebbe in un mancato
esercizio della funzione di direzione.
Miglioramento delle possibilità di pianificazione e progettazione
Nel corso del percorso parlamentare il disegno di legge ha visto rafforzarsi
la coerenza interna legata agli orizzonti temporali. A un sistema scolastico che
era ormai abituato alla logica della “sopravvivenza quotidiana” è stata
restituita la dignità di una pianificazione complessiva e di una progettazione
didattica pluriennale. Non è infatti casuale che sull’orizzonte dei tre anni sia
stata riallineata una serie di processi: la programmazione scolastica (in gergo
Pof – piani dell’offerta formativa); l’assegnazione dei nuovi organici
dell’autonomia; la valutazione degli esiti dei rapporti di autovalutazione a
livello di istituto; l’assegnazione e la valutazione dei dirigenti scolastici;
la cadenza dei concorsi per l’ingresso nella professione insegnante.
Insieme
all’obbligo di assicurare alle scuole la certezza dei fondi a inizio anno, tutto
questo reintroduce respiro nella attività di programmazione a livello di scuola,
comunque sempre gestita nell’ambito degli organi collegiali. Dovrebbero quindi
gradualmente scomparire (o almeno questo è l’auspicio) le situazioni
emergenziali in cui ai genitori si chiedeva di sopperire alle carenze statali
con l’acquisto di materiali didattici. Scuole che progettano su un orizzonte di
almeno tre anni sono anche scuole che possono muoversi credibilmente sul
territorio in rapporto con operatori pubblici e privati alla ricerca di
ulteriori fondi o servizi. Non è quindi un caso che il decreto incoraggi la
donazione di fondi alle scuole attraverso lo strumento della
defiscalizzazione.