Da American snipers all'amore bugiardo, i film da vedere o evitare
Hungry
hearts, American sniper, Asterix e il regno degli
dei, Big Eyes, Sul vulcano, Jimmy’s hall, L’amore bugiardo.
Hungry hearts (2014)
di Saverio Costanzo.
Claustrofobico, intimista onusto di primi e primissimi piani con pochissimi,
essenziali esterni, un dramma familiare potente nel suo studiato minimalismo.
Da un romanzo di Marco Franzoso (“Il bambino indaco”, pubblicato da Einaudi)
Costanzo ricava una storia solo “per avventura” americana (e non stiamo ad
indagare su motivi produttivi e distributivi), penetrando con raro acume
psicologico ed entomologa profondità d’analisi in un rapporto di coppia
devastato da una donna “placidamente” psicopatica, che rischia d’ammazzare il
proprio bambino per preservarne la “purezza” con un’alimentazione aproteica,
atta a proteggerlo dalla contaminazione del mondo. Con un andamento da
thriller, in un crescendo da incubo, la tragedia finale ne suggella la non
banale conclusione. La colonna sonora di Piovani si dimentica quando s’ascolta
sui titoli di coda la struggente e sensuale “Tu si ‘na cosa grande” di Modugno,
che chiude una funesta storia d’amore comicamente iniziata nella toilette d’un
ristorante cinese. Interpreti: Adam Driver - Alba
Rohrwacher - Jake Weber - Victor
Williams - Natalie Gold - Victoria
Cartagena - Cristina J.
Huie - Toshiko
Onizawa - David Aaron
Baker - Roberta
Maxwell - Dennis Rees - Ginger Kearns - Jason Selvig - Katherine
O'Sullivan.
American sniper (2014) di Clint Eastwood. Nessun
intento indagatorio su cause e motivi della guerra americana in Iraq. Eastwood
si limita a seguire le ragioni individuali d’un “eroe”, il cecchino USA
divenuto “leggenda” per aver ucciso 160 uomini (dagli iraqueni ribattezzato “il
diavolo”), che divide “sciascianamente” gli uomini in pecore, lupi e cani da
pastore (questi ultimi destinati a proteggere le pecore). Il cecchino Chris
Kyle sente su se stesso una sorte d’investitura salvifica, quasi religiosa, per
quanto mai fanatica, carica di dubbi ma sempre al di sopra d’ogni altra
“missione” terrena. Una sofferta riflessione sulla guerra e sull’odio che
avvelena il mondo, mostrata con una narrazione asciutta priva d’insistiti e
inutili accanimenti. Tratto
dal libro "American Sniper: The Autobiography of the Most Lethal Sniper in
U.S. Military History". Interpreti:Sienna Miller - Bradley
Cooper - Jake McDorman - Brian
Hallisay - Kyle Gallner - Luke Grimes - Brando Eaton - Sam Jaeger - Eric Close - Keir
O'Donnell - Eric Ladin - Marnette
Patterson
Asterix
e il regno degli dei (2014) di Alexandre Astier e Louise Clichy. Riecco,
inalterato, tutto il comico revanscismo dei francesi che con Asterix, Obelix e
la magica pozione resistono, nel loro sperduto villaggio, alla potenza di
Cesare, già conquistatore dell’intera Gallia. Trasferita da Roma alle soglie
dell’irriducibile villaggio gallico, un’intera comunità di cittadini dell’urbe
laziale ne sconvolgerà la vita, facendo lievitare i prezzi, provocando guerre
commerciali e pericolosi appetiti mercantili. Ma, come sempre, alla fine
sconfitto Cesare e le sue legioni saranno tutti costretti a ripiegare, mentre
l’intero insediamento romano verrà distrutto da Obelix rinforzato da una dose
suppletiva di pozione. Ottava puntata dalle saga (la prima realizzata al
computer) che strappa momenti di
divertimento, ma mostra ormai la stanchezza d’una formula divenuta ripetitiva
fino alla nausea.
Big eyes (2014) di Tim Burton. <<…il
mio "Big Eyes" è semplicemente un atto d'amore per quei quadri di
trovatelli dagli occhi planetari. Le loro sono solitudini incolmabili espresse
da impassibili sguardi accusatori. Il mio cinema e tutti i miei incubi sono già
dentro quelle cornici. I dipinti dei Keane, di cui comunque sono pieni i musei
e le collezioni di un mucchio di star hollywoodiane, da Joan Crawford a Natalie
Wood, da Kim Novak a Jerry Lewis, sono all'origine dei miei primi fantasmi
cinematografici. Hanno fatto persino capolino in "Beetlejuice" e in
"The Nightmare before Christmas". Il bimbetto del mio corto
d'esordio, Vincent, aveva incollati sulla faccia a triangolo due globuli
"alla Keane". E ovviamente anche “La sposa cadavere” ha lo stesso
gonfiore oculare di quei bambini sepolcrali>>. Così il californiano Tim
Burton spiega, in un’intervista rilasciata prima dell’uscita del film, origini
e ragioni della sua ultima creazione cinematografica, incredibilmente del tutto
avulsa da accensioni fantastiche (e tantomeno del consueto horror-soft dei lavori precedenti), fondando
realisticamente il racconto sulla “schiavitù” artistica e morale della pittrice
Margaret Keane, oppressa da un marito-despota malefico genio del marketing, che
impadronendosi della paternità dei dipinti della moglie assurge a fama mondiale
e diviene in pochi anni ultramiliardario. Dell’incredibile, stremata,
remissività e accettazione del ruolo subalterno l’ancor vivente Keane (ma siamo
in anni piuttosto lontani dalla rivoluzione femminista) riuscirà a liberarsi
soltanto dopo un decennio di avvilente e straniante sfruttamento, finalmente
denunciando il coniuge (morto nel 2000) che, incapace di dipingere, verrà
condannato dopo una sfida in diretta “all’ultimo olio”. Un irriconoscibile Tim
Burton firma il suo personale tributo-liberazione ai fantasmi e alle ossessioni
del passato, pencolando tra grottesco e faticosa emancipazione femminile, ma
costruendo un film troppo condizionato dall’ansia di verità, privo di colpi di
regia e di fantasia. Una noiosa e piatta storia di plagio, che - di fronte
all’annosa acquiescenza della frustratissima Keane, incapace di reagire fino al
1986 alla spocchia truffaldina del coniuge-despota-affarista - lascia allo
spettatore solo conati di rabbia impotente e spossata incredulità. Interpreti:
Amy Adams - Krysten Ritter - Christoph Waltz - Jason Schwartzman - Terence Stamp - Danny Huston - Elisabetta Fantone - Leela Savasta - Jon Polito - Pomaika'i Brown.
Sul vulcano (2014) di Gianfranco Pannone.
Un
fatalismo attivo, una rassegnazione consapevole, domina la storica ostinazione
delle migliaia di partenopei abbarbicati sulle pendici dell’incombente e
pericolosissimo Vesuvio, tutt’intorno
devastato dalla “concentrazione demografica più alta d’Europa”, come spiega una
guida agli atterriti ed esterrefatti turisti. Croce e delizia d’un orrido e
meraviglioso lembo di Campania, il gigante Vesuvio è al centro della
riflessione “morale” dell’ultimo documentario del regista Gianfranco Pannone
(anche soggettista e sceneggiatore, insegnante al DAMS, all’Università degli
Studi Roma 3 e al Centro Sperimentale di Cinematografia, saggista e
autore) napoletano trapiantato a Roma,
Pannone decifra - attraverso alcune emblematiche figure ricorrenti (una giovane
cantante neomelodica, una floricultrice, Matteo) ed altri locali - il rapporto
degli stanziali con il vulcano, da sempre ondeggiante tra la non rimossa - ma
latente - paura del risveglio e la cognizione d’un privilegio ambientale,
quello di vivere in un territorio (per quanto sfregiato dalla lebbra
cementizia) pressoché unico al mondo. Linguisticamente interessante la
sfasatura tra intervista e immagine (spesso gl’intervistati vengono mostrati
con la loro stessa voce fuori campo) - prodotto da RAI Cinema, Istituto LUCE e
Blue Film - “Sul vulcano” gode (oltre che dell’apporto di terrificanti immagini
di repertorio sulle distruzioni compiute dalle eruzioni) dell’apporto
letterario corale di una serie di scrittori che sul Vesuvio hanno scritto
pagine appassionate e indimenticabili componimenti - da Plino il giovane a
Curzio Malaparte, da Matilde Serao a Giacomo Leopardi - recitate sempre fuori
campo da una nutrita pattuglia di sperimentate voci narranti (Toni Servillo,
Donatella Finocchiaro, Fabrizio Gifuni, Leo Gullotta, Iaia Forte, Enzo Moscato,
Renato Carpentieri, Aniello Arena) e d’una triade di “testimoni” (Maria
Perfetto, Matteo Fraterno e Yole Loquercio). Non sottovalutate le annose
problematiche sociali (disoccupazione, droga, delinquenza…) d’un’area
metropolitana sempre più vicina al collasso. Distribuzione claudicante nelle
sale cinematografiche (come spessissimo avviene per il documentarismo,
nonostante la resurrezione del genere negli ultimi tre lustri), ma visibilità
assicurata al grande pubblico con alcuni sicuri passaggi televisivi
futuri.
Jimmy’s Hall – Una
storia d’amore e libertà (2014) di Ken Loach. Non si arresta la
vena creativa del quasi ottantenne Ken Loach, da sempre cantore della classe
operaia britannica, strenuo difensore delle libertà democratiche e oppositore
d’ogni forma di dispotismo pubblico e privato. Attraverso una lunga filmografia
a partire dagli scioccanti “Por Cow” (1967) e “Family Life” (1971) fino alle
prove più recenti, il cinema di Loach ha sempre privilegiato la lotta per la
libertà e la piena affermazione dell’individuo, anche quando questi temi
sembrano celati dalla forma commedia, come nel recente e divertente “La parte
degli angeli” (2013) - singolare riscatto sociale d’un piccolo spaccato di
umili ed emarginati - che ne rivela l’eclettismo artistico ed al contempo la rara
e preziosa coerenza ideologica e morale. Con “Jimmy’s Hall - Una storia d’amore
e libertà” Loach torna (dopo “Il vento che accarezza l’erba”, 2005) in una
Irlanda apparentemente pacificata degli anni ‘20 post guerra civile tra
indipendentisti e repubblicani (dopo che questi ultimi avevano accolto il
trattato imposto dalla Gran Bretagna). Personaggio chiave il “ribelle” Jimmy
Gralton, tornato dopo dieci anni di esilio, assurto a simbolo strenuamente
combattivo d’opposizione contro i ricchi proprietari terrieri e il pericoloso
bigottismo della potente Chiesa cattolica, alla fine clamorosamente e
vergognosamente espulso dal suo paese (nel quale non tornerà mai più) senza
processo. Autodidatta, allevato da una madre colta e tollerante, con Jimmy
Gralton e l’allegra sala da ballo da lui ricostruita - da subito divenuta
altresì centro di aggregazione culturale e di libero confronto di idee e
progetti, non tollerabile nel clima di totale chiusura e di continua
repressione delle legittime istanze delle classi meno abbienti - Loach ha
impartito senza alcuna iattanza, con il suo stile denso e asciutto, una lezione
di storia, riesumando opportunamente una microstoria dimenticata che insegna
quanto sia stato faticoso e tormentato il cammino verso l’affermazione dell’emancipazione
del mondo (laddove questa si è realizzata) da ogni brutale o subdola forma di
tirannide. Interpreti: Barry Ward - Simone Kirby - Andrew Scott - Jim Norton - Brían F.
O'Byrne - Francis Magee - Seamus Hughes - Karl Geary - Sorcha Fox - Denise Gough - Martin Lucey - Aisling
Franciosi - Seán T. Ó
Meallaigh
L’amore bugiardo (2014) di David Fincher. Di
dark ladies la letteratura mondiale abbonda e di conseguenza il cinema che con
la pagina scritta ha sempre avuto, fin dai primordi, un rapporto strettissimo,
quasi consustanziale. Si pensi tra tutte, tanto per restare in Italia, alla
diabolica Irene (una straordinaria Dominique Sanda, miglior interpretazione femminile
a Cannes nel 1976) de “L’eredità Ferramonti” dal romanzo del dimenticato
verista Gaetano Carlo Chelli trasposto in film nel 1976 da un ispirato
Bolognini, che s’ingegna a rendere la protagonista ancor più rapace e malvagia
di quanto non sia nel racconto di Chelli, quasi un eroina nicciana al di la del
bene e del male, alla fine però castigata dalla “giustizia” trionfante di
quelle da lei sprezzantemente definite “rispettabili mediocrità”. Il cinema
americano, poi, di anime nere è un vero e proprio santuario. Dalla Barbara
Stenwich de La fiamma del peccato
alla Sharon Stone di Basic Instinct
l’impressionante rosario ne sciorina una vera e propria gragnola. Il fascino
sinistro del male, spesso celato nelle persone più anonime e banali. Così non è,
tuttavia, per l’eclettico David Fincher, che spericola da Alien a Benjamin Button fino
a Millennium e Social
Netwok, il quale ancora una volta non manca di sorprendere critica e
spettatori attingendo abbondante materia di scandalo e preoccupazione da un
osannato best-seller di Gilliam Flynn, per disegnare un ritratto a tutto tondo
d’una “femmina folle” (il riferimento al film di John Stahl del 1945 non è
casuale), che definire satanica accresce la malvagità del Signore delle
tenebre, tanto l’incredibile scaltrezza paranoica della protagonista ne spinge
le azioni oltre ogni umana pietas e moralità. Incarnazione del male non è,
infatti, un’oscura casalinga d’una sperduta provincia americana bensì un’
eroina adorata da milioni di fans più o meno esagitati, l’apparentemente docile
e dolcissima scrittrice di successo Amy la quale, mortalmente offesa nell’amor
proprio, invece di rassegnarsi (dopo un travolgente incipit d’amour fou) al
fallimento del proprio matrimonio (che tutti credono perfetto) con Nick,
anch’egli docente e scrittore per quanto mediocre e pressoché sconosciuto,
inscena al compimento del quinto anno di stiracchiata vita coniugale una
misteriosa scomparsa, ma lasciandosi dietro una serie d’indizi (una vera e
propria “caccia al tesoro”, favorendo artatamente la polizia) che fanno credere
ad un efferato omicidio compiuto dal maldestro e fedifrago marito, ora odiato. Disseminato di colpi
di scena (sono fuori dal comune le capacità della paranoica ma
straordinariamente lucida Amy che, compiendo un feroce omicidio e fingendo un
rapimento, riesce a trasformare l’apparente disfatta - alla quale sul finire
sembra destinata - nel totale trionfo del male) il pur affascinante film di
Fincher pare sgorgare da una sorta di puzzle, di pot-pourri di opere precedenti, un intrigante
mélange, un collage di déjà-vu, al centro del quale ad accendere la scintilla
della vendetta si trova il motivo più stucchevole e banale, ovvero l’esistenza
d’una giuliva amante-allieva del marito, giovane e mediamente cretina (altro
immancabile stereotipo). Poi, mentre impazza il colpevolista “grande carnevale”
dei media (Billy Wilder docet) orchestrato dall’eccitata conduttrice d’un
programma televisivo in cerca di sensazionalismi, dopo aver seguito le
tribolazioni di Nick (prima soltanto sospettato e poi accusato dell’omicidio
della moglie) nella seconda parte il racconto si sposta sulla nuova vita di
Amy (hitchcockiana donna che visse due
volte) rivelandone passo dopo passo il mefistofelico piano per incastrare il
marito, tampinandone le mosse successive alla scomparsa (in sovraimpressione
appare più volte il numero delle ore poi dei giorni successivi alla
sparizione). Nel
pirandelliano carnevale della vita dove tutti mentono e tutti fingono di
amarsi, mentre covano in realtà non appalesabile odio profondo e
inestinguibile, il thriller di Fincher chiude con la più sconfortante delle
conclusioni: il clamoroso fallimento della giustizia umana e quello del
rapporto di coppia, simboleggiato da un matrimonio trasformatosi ormai in un
incubo senza fine.
Interpreti: Rosamund Pike - Ben Affleck - Missi Pyle - Sela Ward - Neil Patrick
Harris - Scoot McNairy - Carrie Coon - Boyd Holbrook - Emily
Ratajkowski - Kim Dickens - Tyler Perry - Patrick Fugit - Lee Norris - Kathleen Rose
Perkins - Casey Wilson.
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