Da abbracci a vaccino, le parole della seconda ondata

Cultura | 26 novembre 2020
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Scuola e cultura. Se non si fa colazione con cappuccino e cornetto tutte le mattine seduti al bar non si muore. Se nel tardo pomeriggio di ogni giorno non si ingurgita un bicchierone di aperitivo (alcolico, perché no?) non si muore. Se le pizze si comprano e non si consumano al tavolo in pizzeria ma si mangiano a casa non si muore. Se questo inverno non si va a sciare non si muore. Se si chiudono le scuole, i teatri, i cinema si è già morti. Nel cervello, nell’anima, nella capacità di confrontarsi e crescere con gli altri, commuoversi, sorridere, sognare.

Abbiamo speso centinaia di milioni, anzi miliardi, di euro in banchi monoposto di ogni formato immaginabile, tracciato percorsi, misurato distanziamenti fisici al centimetro, ridotto al 20-25 per cento la capienza di templi della lirica e della musica sinfonica che il mondo ci invidia. Per poi allargare le braccia e, alla Bartali, uscircene con un “Tutto sbagliato, tutto da rifare”. La didattica a distanza per gli studenti delle superiori e delle università, le esecuzioni musicali in streaming, le rappresentazioni teatrali senza pubblico mandate via social, il cinema visto sullo schermo del computer hanno in comune una ammissione di sconfitta. Ipocritamente camuffata da espressioni tipo “E’ questo il futuro”, “L’innovazione passa per questa strada”, “Abituiamoci ad interagire attraverso i nuovi canali della formazione”. Balle, balle, balle.

Pensare che, per generale ammissione, aule scolastiche ed universitarie sono tra i luoghi più sicuri e protetti dal rischio pandemico, come attestano le irrisorie percentuali di contagi in classe. E che le file di poltroncine nei teatri e nei cinema sono talmente contrassegnate tra posti dove sedersi e posti da non utilizzare da garantire anche più di due metri di distanziamento in avanti, dietro, ai lati.

La priorità numero uno? Riprendere le lezioni in presenza dal primo anno di scuola materna fino all’ultimo delle scuole di specializzazione universitarie. Meglio ancora: dall’asilo nido fino all’ultimo giorno dei fuori corso universitari.

E riaprire al più presto possibile teatri, cinema, musei.


Ministro della Pubblica Istruzione. Chi ricopre questa carica sa di essere il ministro più contestato di una compagine governativa. In era Covid-19 siamo riusciti a realizzare un incredibile miracolo: ministro e quasi totalità di studenti delle superiori, per forza d’anagrafe e consuetudine i più contestatori e scioperaioli, si ritrovano dalla stessa parte della barricata. Vogliono le scuole riaperte. Di solito sconosciamo la parola elogio per discutibilissime decisioni di esponenti del Movimento 5 Stelle. A cominciare dall’assurda ostilità ideologica che condividono con Lega e Fratelli d’Italia al ricorso al MES da utilizzare per dare ossigeno alla ormai comatosa sanità italiana. Ma ci sia consentita stavolta una eccezione: l’elogio di Lucia Azzolina, ministro in carica della Pubblica Istruzione. Questa trentottenne di origini siciliane (Floridia, Siracusa) trasferitasi al Nord, in Piemonte, per lavoro e studio - professoressa, avvocato, di recente vincitrice del concorso per dirigente scolastico - capelli corvini, labbra vistosamente e immancabilmente rossettate, due lauree (in Filosofia e Giurisprudenza) e due specializzazioni in un contesto come quello attuale della politica dove ignoranza e diplomini fai da te sono titoli correnti e persino sbandierati con orgoglio, ministro-bersaglio preferito da Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ha finito per dimostrare una coerenza ed una tenacia che meritano rispetto nella difesa della scuola in aula e non al computer o, peggio ancora, al telefonino. In ogni suo intervento, in ogni sua dichiarazione, dai banchi del governo nelle aule parlamentari o sulla stampa. Inequivoche le sue parole nella trasmissione Rai Radio 1 “Radio anch’io” del’11 novembre scorso: “Con la chiusura delle scuole rischiamo un disastro educativo, sociologico, formativo, psicologico. Un bambino che deve imparare a leggere e a scrivere non può farlo da dietro uno schermo. I ragazzi hanno diritto a un pezzo di normalità nella loro vita”. E ancora: “Continuerò a battermi per tenere le scuole aperte”. “Da metà agosto abbiamo chiesto test rapidi (ne sono stati comprati 13 milioni)”. “Le Asl sono in affanno ma il tracciamento per le scuole è fondamentale”. Ce la farà la “preside” Azzolina a riportare in classe studenti inciabattati, in pantaloni di pigiama (non inquadrati) davanti al display del portatile ma impegnati ad occupare buona parte della didattica a distanza a fare altro con il telefonino (non inquadrato al pari dei pantaloni del pigiama)?


Traporto scolastico. Gli istituti scolastici si erano attrezzati per la didattica in classe. Il trasporto scolastico molto meno. Sono migliaia i bus turistici privati ed i pulmini privati così fermi che si stanno arrugginendo da mesi. Spendiamo miliardi a palate per fronteggiare la pandemia ed i suoi devastanti effetti economici ma non ci siamo presi la briga di affiancare ai bus pubblici urbani ed extraurbani, alle ferrovie locali, alle metropolitane, bus e pullmini privati per rafforzare il trasporto degli studenti, quanto meno nelle aree urbane più affollate. Se il distanziamento nelle aule scolastiche è sotto controllo e il vulnus risiedeva più che altro negli assembramenti delle 8 di mattina di studenti, pendolari, impiegati sarebbe stato essenziale il ricorso a questi autoveicoli aggiuntivi per meglio proteggere i fruitori della scuola. Senza trascurare un secondo intervento, concomitante ed opportuno: accompagnare a scuola i figli con l’auto tutte le volte che è possibile a mamma e papà e – dove non occorre un’ora o più di camminata da casa all’istituto frequentato – fare tesoro della lapalissiana evidenza che per secoli a scuola si è andati a piedi, da soli o con i compagni. Chi scrive l’ha fatto tutti i santi giorni, dal primo della prima elementare all’ultimo di esami della terza media (alle superiori, in un altro comune a 36 chilometri, per forza di cose con l’autobus di linea). E siamo sopravvissuti. In tanti contesti, sia urbani che paesani, alzandosi la mattina 15 o 20 minuti prima del solito, l’opzione di andare a piedi e tornare a piedi può senza dubbio prendersi in considerazione. Se al riguardo i genitori fossero meno preoccupati di chissà quale sconvolgimento ed invogliassero i figli ad andare a piedi tutte le volte che è possibile, piuttosto che fare muro con prese di posizione pregiudizialmente contrarie, non sarebbe una cattiva idea. Anzi - diciamola tutta - meno noi genitori mettiamo becco nelle faccende scolastiche dei nostri figli e più prospettive di educazione ed istruzione saranno assicurate alle nuove generazioni.


Orari di lavoro. Si accennava agli assembramenti delle 7,30 - 8,30 su metro e bus. Studenti, impiegati, badanti, commesse, professionisti. Ma perché tutti in massa a quell’ora? Possibile che in una nazione e in un tempo che ha visto stravolte tutte le abitudini esistano ancora gli “orari di punta” e non si riesca a “distanziare” orari di entrata ed uscita, di aperture e chiusure di esercizi commerciali, studi professionali, uffici? Differenziamento di orari con in più smart working da casa per le attività che lo consentono possono fare la differenza e ridurre la ressa su vagoni ferroviari, scale mobili di metropolitane, bus urbani. Affollati di persone di tutte le età. Con le mascherine sì ma comunque addossate una sull’altra.


Abbracci. Dio solo sa (e forse neppure lui) quanto ci costa non abbracciarci più e rinunciare alla stretta di mano. Ma, in attesa di un ritorno al passato ossia in attesa di tempi migliori, ci siamo adeguati. Possibile che nello sport, nel calcio professionistico che rimbalza in tv, non si riesca a fare a meno dell’abbraccio di gruppo dopo la segnatura d’una rete? Possibile che ci si debba abbracciare tutti alla fine della partita, da chi ha giocato all’ultimo dei raccattapalle? Sia della squadra in cui si milita che della squadra avversaria? Poi non stupiamoci della frequenza con la quale Covid-19, malgrado i protocolli, circola negli ambienti calcistici se non si riesce a gestire questo vincolo. A cui tutti ci siamo adeguati con sofferenza. Limitando effusioni verso anziani genitori, figli, nipoti. Ai quali si vuole decisamente più bene che a compagni di squadra con cui, in definitiva, più che affetti si condividono retribuzioni a suon di milioni di euro. Manifestazioni eccessive, immotivate data la situazione. E, lasciatecelo dire, diseducative rispetto all’obbligo che fuori dagli stadi ci viene imposto di restare distanziati ed evitare abbracci e strette di mano. Che erano e dovranno continuare ad essere parte essenziale del nostro modo di essere, di manifestare sentimenti, rispetto, stima per chi conosciamo e frequentiamo. In famiglia, nel lavoro, nel tempo libero.


Infodemia. Esiste la pandemia ed esiste l’infodemia. Non uccide nel fisico ma uccide nella psiche. I canali di circolazione dell’infodemia? Televisione, radio, informazione online. Ventiquattro ore su ventiquattro. In tutte le reti, in tutte le trasmissioni un bombardamento mediatico di cui andranno analizzati gli effetti. A breve e a lungo termine. Migliaia di opinioni, migliaia di voci, migliaia di interpretazioni. Un solo risultato: confonderci, deprimerci. A nessuno sta venendo in mente che forse sarebbe il caso se non di inserire il silenziatore quanto meno di essere più parchi, più sobri, più contenuti, di non ridurre tutto e solo alla spettacolarizzazione ed alla discussione sulla pandemia. Tema dominante, certamente. Ma a cui destinare in pratica non un intero telegiornale, semmai la parte prevalente di tempo. Non una intera trasmissione di approfondimento mattutina o pomeridiana o serale o notturna, semmai una parte. Prevalente non deve significare monopolizzante, totalizzante.


Virologi. Un dubbio ci assale. Quando lavorano i virologi, gli epidemiologi, gli immunologi? Quando si occupano di ricerca ed attività clinica se trascorrono l’intera giornata saltando da uno studio televisivo di una rete a un altro, perennemente online o intervistati in presenza? Star da tv. La nostra televisione è passata da precise categorie – attori, cantanti, personaggi dello spettacolo – a due inattese categorie di celebrità. La prima, già in video da alcuni anni: i cuochi, ora promossi quasi tutti chef stellati e personaggi televisivi notissimi. Nel 2020 le star della tv diventano i virologi e le virologhe. Ognuno con la propria interpretazione della realtà, spesso in contraddizione con se stesso e con quanto sostenuto appena un giorno prima e non solo con gli altri. Narcisismo, discussioni, opinioni talvolta persino di sconcertante fondamento, chiacchiere. E una unica perdente: l’attendibilità e l’oggettività della (presunta) scienza medica. “Che confusione…” cantavano nel lontano 1981 “I Ricchi e Poveri”. Che spettacolo indecente.


Comunicazione ospedaliera. Se è vero che di troppa informazione mediatica si muore è altrettanto vero che a chi attraversa la porta dell’ospedalizzazione perché colpito dal Covid è precluso ogni contatto con i familiari nel momento probabilmente peggiore della propria esistenza. Nel prossimo DPCM della serie bisognerebbe inserire qualche comma che disponga: 1) i pazienti non gravi e in grado di farlo possono e debbono comunicare ogni giorno telefonicamente con i familiari, al limite in precise fasce orarie; 2) per i pazienti gravi ogni giorno in una fascia oraria determinata i medici che li hanno in carico illustrano telefonicamente ai familiari l’andamento del decorso ospedaliero. Che si sia giovanissimi o centenari i pazienti debbono sempre essere trattati con il massimo riguardo. Da persone, non da numeri o oggetti. I familiari non possono essere lasciati all’oscuro di quello che succede ai loro cari in corsia. Deve esistere sempre un canale di comunicazione attivo ospedale-famiglie.


Deceduti. Sempre a proposito di troppe chiacchiere negli studi e nei salotti televisivi e, al contrario, di comunicazione carente dalla prima linea. E’ necessario sapere di più su chi non ce la fa: età, malattie, condizioni generali di salute, patologie preesistenti, co-morbilità. Quadro informativo indispensabile per avere più elementi sul percorso della pandemia, sulla sua incidenza, sulla sua evoluzione. Invece, a parte l’agghiacciante conta dei numeri che in queste settimane non sono da meno di quelli di marzo ed aprile, su questo genere di dati si glissa con infingimenti ed omissioni stile Corea (del Nord). Solo alcuni quotidiani locali del NordItalia, in particolare lombardi, hanno avuto la encomiabile lucidità di dedicare un articolo ad ogni deceduto. Un profilo sulla vita, il lavoro, gli affetti, i meriti, i tratti caratteriali, i bilanci di una esistenza che non può e non deve ridursi ad un numero, ad una conta di morti.


Statistiche. Quanto sono attendibili le quotidiane statistiche che ci informano di come si fa strada la pandemia? Sono oro colato il numero dei ricoveri, dei letti di terapie intensive occupati? Dopo le polemiche “siciliane” dei giorni scorsi sul numero di terapie intensive attivate la domanda – avrebbe detto il giornalista Antonio Lubrano - “sorge spontanea”. Beninteso, non limitata all’isola ma all’intero territorio nazionale.


Vaccino antinifluenzale. Roberto Speranza, ministro della Salute, è un raro esempio di politico serio. Ha dimostrato la sua validità sul campo in una fase storica nella quale occupare la sua scrivania fa tremare le vene ai polsi. Per quanto ha detto e fatto finora – mai sopra le righe, mai sbraitando, spettacolarizzando o accusando a destra e a manca – merita un voto positivo. Ma Speranza e il suo dicastero hanno toppato alla grande a proposito del vaccino antinfluenzale. E più di loro hanno toppato le Regioni – sempre più governate da demagoghi e sempre più inefficienti – che in materia hanno competenze ancor più dirette. Se c’era un autunno-inverno in cui la vaccinazione antinfluenzale doveva essere davvero di massa era quello in corso. Per una protezione aggiuntiva, per ridurre in caso di sintomi l’angoscioso dubbio “E’ normale influenza di stagione o Covid-19?”, prevedibile motivo di sconvolgimento della vita di centinaia di migliaia di famiglie. Invece niente. Ricordate mesi fa quanti inviti e pressioni abbiamo ascoltato per invogliare anche i più refrattari a vaccinarsi contro l’influenza? Ebbene, abbiamo scherzato. Ad ottobre sono state consegnate ad ogni medico di base e in farmacia appena un centinaio di dosi. E poi il vaccino è finito, è sparito, è diventato argomento da trasmissione della Sciarelli “Chi l’ha visto?”. Si approssima dicembre, freddo intenso e picco influenzale sono dietro l’angolo ma da Predoi a Lampedusa se chiedete al vostro medico di base o al vostro farmacista: “Ci sono novità per l’arrivo del vaccino?” la risposta è invariabilmente la stessa: “Nessuna”.


Covid hotel. Come i bus turistici privati fermi nelle autorimesse da quasi un anno migliaia di alberghi in tutte le regioni sono sprangati da quasi un anno. Se per la prima ondata non erano sufficienti i tempi per attrezzarli come Covid hotel, per la seconda c’era il tempo di provvedere con un minimo di previsione. Invece niente. Si è pensato a Covid hotel – uno per provincia – quando già la situazione era diventata critica. Con i pronto soccorso ed i reparti ospedalieri ridotti a un bivacco di malati accatastati uno sull’altro anche nei corridoi e negli sgabuzzini. Con le ambulanze in fila all’ingresso per intere giornate in attesa di “scaricare” il malcapitato positivo trasportato.

Utilizzando gli alberghi chiusi – perché non c’è più un cane che gira per lavoro o che può andare in vacanza per le mille restrizioni adottate – si sarebbe consentito a numerosi albergatori e società di gestione di non fallire, non licenziare, non dismettere l’attività. Covid hotel non solo da destinare a “quarantenati” con sintomi lievi o lievissimi per trascorrervi i 14 e più giorni necessari per passare da positivi a negativi nei casi in cui nelle proprie abitazioni risulta non praticabile. Covid hotel anche per ospitare in isolamento migliaia di contagiati seri ma non gravi, bisognosi di cure ma non di terapie intensive. Cure poco invasive che una piccola task force di sanitari avrebbe potuto erogare giorno e notte spostandosi dall’ospedale. Il Covid hotel insomma come una sorta di dependance del nosocomio per la gestione dei casi impossibili da gestire tra le mura domestiche ma non tanto significativi da richiedere ossigenoterapia, lettini e attrezzature elettroniche per la terapia intensiva o subintensiva. Si sarebbero liberati con questo decentramento decine di migliaia di posti letto negli ospedali. Alleggerendo la pressione su pronto soccorso e reparti e prevenendone il collasso funzionale. Dando così spazio – e dignità – sia ai malati di Covid che a tutti gli altri ricoverati non-covid. Si sarebbe dato respiro a medici, infermieri, ausiliari alle prese con caos e chiamate, turni continuativi disumani, stanchezza, stress. Era così complicato pianificare un decentramento così strutturato, dal quale tutti avrebbero guadagnato qualcosa: soldi (gli albergatori in crisi nera), salute (i malati e chi li assiste), organizzazione (le strutture sanitarie), serenità (tutti i soggetti elencati)?


Rintanati. Esistono specie animali più comunicanti, più aperte ed altre più isolate, più rintanate, refrattarie ad uscire all’aria aperta se non per strettissime necessità. Da impaurito cavernicolo nei primi decimillenni della sua esistenza preistorica l’uomo ha poi sempre più socializzato con il trascorrere dei secoli, il progredire della civiltà, l’agglomerarsi in villaggi e successivamente nelle prime città. Essere vivente tanto sociale, colonizzatore, da diventare a poco a poco fin troppo invadente, dominante. Nel 2020 per limitare contatti e diffusione del coronavirus contrordine, inversione di tendenza: “State a casa”. Ossia: rintanatevi. Tra una decina di anni sarà interessante cogliere con studi di evidenza scientifica quali conseguenze questo processo di rintanamento comporta su abitudini, modi di agire, modi di socializzare, affettività, aggressività. Già da ora i primi segnali lasciano prevedere regressioni comportamentali su tutta la linea. L’essere umano è l’animale con la più elevata adattabilità grazie alle sue conquiste scientifiche che gli consentono di vivere in habitat che spaziano da -70 a +55 gradi di temperatura. Ma adattarsi a vivere rintanati è altra cosa. Stronca forse più del ghiaccio e del deserto perché ben prima e ben più che il fisico piega la mente.

 di Pino Scorciapino

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