Cosa nostra invisibile ma strumenti antimafia irrinunciabili

L'analisi | 9 settembre 2024
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La preoccupazione di Emilio Miceli, presidente del Centro studi Pio La Torre, sul pericolo che tutte le conquiste fatte in tema di misure di contrasto alla mafia possano essere vanificate dal governo Meloni ha una sua validità e una drammatica attualità. Ciò è possibile perché da tempo, da tanto tempo, il tema mafia è uscito dall’agenda politica e giornalistica. È prevalsa l’antica idea che mafia significhi violenza, stragi, omicidi, sangue; in mancanza di sangue non c’è mafia. È evidente che tale idea è sbagliata e non regge ad un’analisi attenta del fenomeno mafioso soprattutto perché non tiene conto dei continui mutamenti e delle evoluzioni che caratterizzano la mafia sin dal suo sorgere.
L’idea è avvalorata dal fatto che oramai ci sono attività mafiose che agiscono prevalentemente sul terreno economico, e perciò sono invisibili. Il fruscio dei soldi s’è sostituito al boato delle bombe o ai colpi di fucile. La grande epopea criminale dei corleonesi è finita, e con essa, per molti, l’interesse a capire non solo come sia stato possibile il dominio di un gruppo criminale e stragista nella Palermo della seconda metà del Novecento, ma anche cosa sia successo dopo la sconfitta militare della mafia. È come se ci fosse un appagamento per il fatto che tutti, nessuno escluso, dei viddani, come sprezzantemente li definiva Tommaso Buscetta, siano morti al 41 bis come Riina e Provenzano, e ai sopravvissuti non resti altra sorte che attendere la morte dietro le sbarre. Dunque, perché interessarsi più di cose passate che non potranno più ritornare?
È in questo clima che è possibile rimettere in discussione i dispositivi antimafia, a cominciare dalla legge Rognoni-La Torre, ritenuti oramai obsoleti e inutili in una fase in cui la mafia non è più quella di quando queste leggi sono state approvate. Inoltre, in questo furioso affannarsi si sta cercando di leggere la stagione delle stragi come se fosse un fatto che sia possibile comprendere e spiegare attraverso fatti specifici senza bisogno di inquadrarle nel contesto storico entro il quale sono maturate e si sono materializzate. L’esempio principe di questa tendenza è la riemersione, ciclica, come un fiume carsico, della questione del rapporto mafia e appalti predisposti all’inizio del 1991 dal Ros dei carabinieri di Palermo e che reca la firma di Mori e di De Donno. È questo, si sostiene, che è alla base della strage di via D’Amelio.
E invece è possibile comprendere quanto sia successo e stia succedendo se guadiamo il contesto storico, le lotte interne alla mafia e se partiamo da due date periodizzanti: la prima è il 1982, l’anno dell’uccisione di Pio La Torre e del prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, già generale dei carabinieri, e dell’approvazione della legge Rognoni-La Torre che è l’architrave su cui si regge tutto l’impianto antimafia che è arrivato sino a noi. L’altra data è il 1992, con le stragi orrende di Capaci e di via D’Amelio con la conseguente eliminazione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Totò Riina nel 1982 era già capo di cosa nostra dopo aver liquidato, uno per uno, tutti gli avversari interni, a cominciare da Stefano Bontate. E, questa, come si vedrà, è una circostanza molto importante.
Due anni prima di La Torre viene ucciso da un uomo a volto scoperto il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella che ha aperto ad una collaborazione con il Pci, il che gli dà la forza di portare avanti una politica di rinnovamento politico e contro le ingerenze mafiose nelle attività della Regione. È una rivoluzione, ed è un atto controcorrente perché a livello nazionale la Dc ha deciso di abbandonare la politica di Aldo Moro e di ritornare al passato, all’antica preclusione nei confronti del Pci. 


La mafia mutua i metodi del terrorismo 


La Torre avverte il cambio di strategia della mafia. In Sicilia c’era stato Michele Sindona e il dirigente del Pci accentuava l’analisi sulla pervasività dei legami internazionali della mafia che oramai spaziavano da Palermo a Milano, da Roma a Ginevra e a New York. Le nuove organizzazioni criminali, mutuando i metodi del terrorismo, diventavano via via più spavalde e sfidavano apertamente i pubblici poteri. Accadeva così che le modalità di un omicidio mafioso seguissero quelle caratteristiche del terrorismo politico e viceversa. La Torre in un articolo su “Rinascita” del 16 novembre 1979 che aveva per titolo Se terrorismo e mafia si scambiano le tecniche scriveva che “con gli ultimi assassinii verificatisi a Palermo siamo di fronte ad un gruppo politico mafioso che ha scelto di farsi avanti con i sistemi del terrorismo politico”. Ed alcuni degli “assassinii (Boris Giuliano e Cesare Terranova) segnano un salto di qualità politica. È nostra opinione che questo salto sia cominciato con l’assassinio del segretario provinciale della Dc Michele Reina”. Anche Mattarella aveva un’idea analoga e l’assonanza è di estremo interesse e significato.
L’analisi, data l’epoca, era innovativa rispetto a chi considerava la mafia un residuo del passato che si muoveva entro ambiti angusti e ristretti socialmente. Chi stava vincendo dentro la mafia siciliana aveva ben altre ambizioni che quelle dei gruppi che avevano comandato fino ad allora ed imponevano con il sangue il cambio di prospettiva dell’intera organizzazione. Tutti i fatti criminali che si erano verificati dall’omicidio Reina in poi erano omicidi molto diversi tra di loro, con motivazioni che variavano dall’uno all’altro. E tra l’articolo scritto per “Rinascita” e l’agguato a La Torre sarebbero stati uccisi nel 1980 il presidente Mattarella, il comandante dei carabinieri Emanuele Basile e il procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa. Un crescendo che non sembrava finire mai.
È in questo contesto che fu ucciso La Torre. Chi lo ha ucciso? Che siano stati i mafiosi è fuori di dubbio. La domanda è se siano stati loro da soli. Potevano essere stati solo i mafiosi se nell’isola c’era stato il finto rapimento di Sindona, se dentro la Dc un uomo come Vito Ciancimino era più forte di prima e se era sorto un potente movimento popolare contro l’installazione dei missili a Comiso? Secondo il Sisde, il nostro servizio segreto, era stata solo la mafia. Solo e soltanto coppole. Nonostante gli omicidi di Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Michele Reina, Gaetano Costa, omicidi di poliziotti, magistrati, uomini politici e delle istituzioni, tutti commessi nel biennio 1979-1980, anche l’omicidio La Torre aveva “origine e conclusione in ambienti di mafia”. Il documento del Sisde era stato preparato da Bruno Contrada ed era stato inviato con la firma di Emanuele De Francesco, che era il direttore, al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e al ministro dell’Interno Virginio Rognoni. 


Dalla Chiesa catapultato in “casa d’altri” 


Passano 125 giorni, e dopo La Torre è ucciso dalla Chiesa nominato prefetto anche grazie ad una richiesta dello stesso La Torre e inviato come prefetto di Palermo proprio a seguito dell’assassinio del dirigente comunista. Anche questa volta solo mafia? Dalla Chiesa avverte che qualcosa non torna sin dal suo arrivo in aeroporto dove non c’è nessuno ad attenderlo. Il generale dalla Chiesa non era uno sconosciuto, era noto in tutt’Italia, ma all’aeroporto non c’era nessuno e dovette prendere possesso della sua sede recandosi in taxi. Il neo prefetto capisce il messaggio. “Sono stato catapultato”, dirà il prefetto appena arrivato a Palermo, “in ambiente infido”, anzi “in casa d’altri” dove c’è chi si aspetta i miracoli e chi invece “va maledicendo la mia destinazione e il mio arrivo”. Si aprì una dotta discussione sui suoi poteri: toccava a lui il coordinamento della lotta alla mafia oppure al presidente della Regione essendo la Sicilia una regione a statuto speciale? Si sarebbe potuta fare una bella tesi di laurea o un corso universitario sull’argomento, ma era chiaro che la discussione serviva solo a far intendere che lui era un prefetto come gli altri. E allora perché ucciderlo se dalla Chiesa era isolato, privo dei poteri che gli erano stati promessi, e dunque non in grado di incedere sulla realtà come avrebbe voluto? Come si sa, subito dopo l’omicidio di dalla Chiesa il Parlamento approvò la legge Rognoni-La Torre, il cui primo proponente era stato proprio La Torre. La legge è l’architrave di tutte le leggi antimafia. Domanda: è convenuto a cosa nostra uccidere nel giro di pochi mesi prima La Torre e poi dalla Chiesa?
Anni dopo, nel 1989, Loris D’Ambrosio avrebbe definito quello di Mattarella un omicidio di politica mafiosa nel quale “la riferibilità alla mafia come ‘organizzazione’ deve necessariamente stemperarsi attraverso una serie di passaggi mediati, di confluenze ‘operative’ e ‘ideative’ apparentemente disomogenee ma in grado di dare, nel loro complesso, il senso compiuto dell’antistato”. Altro che solo coppole! E quel giudizio di D’Ambrosio può valere anche per La Torre e dalla Chiesa. D’Ambrosio aveva intuito che la mafia era entrata in un’altra fase e si muoveva con un’altra logica rispetto al passato. Un anno dopo, Giovanni Falcone in un’audizione del giugno 1990 dinnanzi alla Commissione antimafia disse che Rocco Chinnici era convinto che s’era trattato di “omicidi ‘eccellenti’”. Lui, Falcone, per parte sua, sostenne che “sono in un certo modo apparentemente scaglionati nel tempo, ma che in realtà si inseriscono in vicende di dinamiche anche interne alla mafia e che possono restringersi in un ben individuato arco di tempo che va dal 1979 (omicidio di Michele Reina) al 3 settembre 1982 (omicidio di Carlo Alberto dalla Chiesa), anche se il delitto dalla Chiesa sarebbe più opportuno, alla luce delle nostre indagini, tenerlo fuori da questa dinamica, poiché l’omicidio importante, l’omicidio di spicco, l’omicidio che si inquadra in un determinato contesto dovrebbe essere, secondo me, quello di Pio La Torre. Il periodo che va dal 1979 al 1982 coincide con il massimo degli sconvolgimenti interni a Cosa Nostra”. Come si vede, Falcone insisteva molto sugli sconvolgimenti interni a cosa nostra e distingueva l’omicidio di La Torre da quello di dalla Chiesa. Parlava con le indagini ancora in corso, non concluse. 


Ma non fu solo mafia 


Andiamo adesso a dieci anni dopo. Bisogna ricordarsi cos’era l’Italia del 1992: mani pulite travolgeva i maggiori partiti della cosiddetta prima Repubblica, Dc e Psi; una crisi economica devastante che portò il governo Amato a fare un prelievo forzoso sui conti correnti di tutti gli italiani; la Lega Nord per l’indipendenza della Padania che raggiunse un successo travolgente a Milano, in Lombardia e in parte del Nord; cosa nostra che poteva uccidere impunemente Salvo Lima, l’uomo di Andreotti che stava lavorando per esser eletto presidente della Repubblica, che poteva permettersi di assassinare Falcone nel bel mezzo dell’elezione del presidente della Repubblica e che poche settimane dopo massacrava Bersellino come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Questo era lo scenario.
Luciano Violante, subito dopo Capaci, scrisse un articolo per l’Unità e disse: “C’è la politica dietro il cadavere di Giovanni Falcone. È mafia, ma non è solo più mafia. Ma non è più solo mano omicida. Un atroce assassinio politico, come quello di Moro”.
Dopo le stragi si aprì una forte discussione dentro la Procura della Repubblica di Palermo. Leggendo i verbali delle riunioni indette dal Csm viene fuori l’isolamento nella procura diretta da Pietro Giammanco. Mi sono occupato della questioni insorte nella procura e di quello che è accaduto con le stragi in uno scritto d’un paio d’anni fa, e ne voglio condividere qui i risultai. Che i rapporti in procura fossero tesi lo dimostra un altro fatto. Il 25 giugno Borsellino pare abbia incontrato alla caserma dei carabinieri Carini Mario Mori e Giuseppe De Donno. Fu un incontro anomalo, svolto lontano dalla procura, visti i rapporti tra Borsellino e Giammanco. Cosa si dissero? Borsellino non ha lasciato traccia neanche dell’incontro e tanto meno dell’oggetto della discussione. Mori e De Donno invece ne hanno parlato. A distanza di sei anni da quei fatti Mori dirà al pubblico ministero Nino Di Matteo che l’incontro aveva al centro un rapporto dei carabinieri su mafia e appalti, ed era avvenuto su richiesta di Borsellino, che “ci chiese di affiancarlo con grande riservatezza e direttamente alle sue dipendenze in questa attività che si prefiggeva di svolgere”.
Secondo queste testimonianze, Borsellino non si era limitato a chiedere informazioni e dettagli o aggiornamenti sul rapporto, ma addirittura avrebbe proposto al Ros di agire in modo segreto per conto suo in un’indagine che non poteva fare perché non aveva né la delega a indagare su Palermo né peraltro l’autorizzazione del procuratore della Repubblica.
È davvero difficile immaginare Borsellino chiedere ai militari del Ros di trasformarsi in braccio armato di un singolo magistrato e dall’altro vedere come i carabinieri del Ros si siano prestati a un’azione del tutto inusuale. C’è un’altra domanda che non ha mai avuto risposta, né ieri, né oggi. Come mai Mori e De Donno, vista la rilevanza che Borsellino annetteva a quel rapporto tanto da chiedere ai militari di agire per conto suo, non riferirono subito dopo la strage di via D’Amelio i termini di quell’incontro che avrebbe potuto rappresentare un’utile pista investigativa per i magistrati di Caltanissetta? Una pista particolarmente calda, che avveniva nell’immediatezza dei fatti, anzi quando i fatti erano ancora in itinere? Valutarla a distanza di tanto tempo è tutt’altra cosa. 


Uno strano balletto: chi informa chi 


C’è ancora un fatto anomalo. Sicuramente tra Capaci e via D’Amelio, e forse anche prima di Capaci, a Palermo agiva indisturbato Paolo Bellini, uomo spericolato, ambiguo, forse confidente dei servizi segreti, collegato ad estremisti di destra ed incontra Antonino Gioè uno dei capi di cosa nostra che faceva parte della commissione provinciale, la cupola come comunemente viene definita. Gli incontri avvengono su incarico del maresciallo Roberto Tempesta, deciso a trovare dei quadri rubati alla pinacoteca di Modena. Si intreccia tra Bellini e Gioè una strana trattativa fatta di cose dette a metà, di sospetti, di equivoci. Le richieste di Gioè sono molto pesanti, perché puntano alla liberazione di uomini ai vertici di cosa nostra.
Durante tutto il periodo dei colloqui tra i due, Gioè informa Giovanni Brusca che a sua volta informa Riina, mentre Bellini informa Tempesta che informa Mario Mori. Non si sa se sia mai venuto in mente a qualche carabiniere di seguire Bellini in quel periodo e scoprire con chi era in contatto in Sicilia. Non si dimentichi che Riina e tutti i vertici di cosa nostra erano ancora latitanti. O, invece, fu seguito? E con quali esiti? Riuscì a eludere i controlli oppure chi lo seguiva scoprì con chi si incontrava? E, se è così, chi informò dei suoi superiori? Una folla di domande, una dietro l’altra, che attende risposte. 


Falcone e Borsellino, errori fatali 


Sono tante le questioni che si muovono in quei giorni. E diverse l’una dall’altra. E insieme completano il quadro, anche se non del tutto perché alcuni tasselli ancora mancano. Tra le questioni di quei giorni è utile segnalarne un’altra. Il 19 maggio a casa Borsellino arrivano Jean-Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi, due giornalisti francesi che lo intervistano. È una lunga intervista, a tutto campo, e a un certo punto si arriva anche a parlare dei rapporti tra la mafia e l’ambiente industriale di Milano e del Nord. Si parla di cavalli, che in gergo indicano partite di droga in arrivo, e anche di Marcello Dell’Utri, all’epoca braccio destro di Silvio Berlusconi, tycoon della TV commerciale e grosso imprenditore edile di Milano. Il discorso cade anche su Vittorio Mangano, reggente di cosa nostra del mandamento di Porta Nuova, che su indicazione di Dell’Utri è andato a lavorare come “stalliere” nella tenuta di Berlusconi.
Sono tante le cose notevoli che emergono da quest’intervista, per esempio il fatto che Borsellino in televisione s’intrattenga sui rapporti tra la mafia e settori economici del Nord e sui rapporti tra Dell’Utri e Mangano. Questioni di primaria importanza che indicano come davvero sia cambiata Milano se un uomo come Mangano è arrivato a stabilire contati molto stretti con Dell’Utri e Berlusconi. Tutte circostanze rilevanti, che potrebbero aprire uno squarcio sulla capacità di cosa nostra di entrare in contatto con imprenditori importanti del Nord, ma esse non sono contenute nel dossier mafia e appalti.
Domanda: è convenuto a cosa nostra uccidere nel giro di pochi giorni prima Falcone e poi Borsellino? Se si guarda alle stragi del 1992 è lecito dire che, per cosa nostra, s’è trattato di un tragico errore esattamente come quello di dieci anni prima. Subito dopo la strage di via D’Amelio fu approvato a tambur battente il decreto legge che introduceva il 41 bis, decreto che stava vivacchiando in parlamento e che stava languendo sommerso dalle critiche. La strage cambiò le cose e il decreto fu approvato nonostante le forti critiche. E in più, lo Stato lanciò una controffensiva che mise all’angolo la mafia e creò le condizioni per la distruzione di tutti i corleonesi. Nel 1992, lo abbiamo già ricordato, il capo di cosa nostra era Totò Riina, lo stesso che comandava la commissione provinciale nel 1982. Perché in tutti e due i casi fece scelte che danneggiarono pesantemente cosa nostra? Era davvero convinto che lo Stato non avrebbe reagito o qualcuno aveva dato assicurazioni in tal senso? Aveva fatto tutto da solo o c’era qualcuno che chiedeva, pretendeva, suggeriva cosa fare? Sbagliò solo lui? O invece non si trattò di un errore, ma di un disegno, perché da Nord a Sud era necessario cambiare radicalmente e bruscamente una classe dirigente benemerita per il passato, ma oramai inservibile per il presente e per il futuro? La strage di Capaci portò infatti alla sconfitta di Andreotti nella sua corsa al Quirinale. Azzoppato, da lì a poco sarebbe stato messo sotto accusa in commissione antimafia e sotto processo dalla magistratura palermitana.
Oppure, la strage di via D’Amelio fu portata a termine così rapidamente perché era necessario eliminare chi avrebbe potuto ostacolare la trattativa imbastita dagli uomini del Ros, o avrebbe potuto far luce su un rapporto preparato dal Ros dei carabinieri su mafia e appalti che poteva rappresentare un pericolo per imprenditori del Nord, che si sarebbero sentiti minacciati? Dalla sentenza sulla trattativa firmata dal presidente Angelo Pellino questi due motivi sono esclusi, compreso quello relativo al “dossier” mafia e appalti e ai suoi allegati “che avevano una così scarsa consistenza sul piano probatorio da non potere neppure giustificare ulteriori approfondimenti sotto il profilo del possibile coinvolgimento di esponenti politici locali e nazionali”.
Le stragi di Capaci e di via D’Amelio sono il punto terminale di una storia repubblicana che inizia con la strage di Portella della Ginestra il cui protagonista più noto, Salvatore Giuliano, non agì certo da solo. Si aprì, con quella strage, una delle stagioni più fosche della storia d’Italia caratterizzata da depistaggi, infedeltà di uomini delle istituzioni che tradirono il giuramento fatto e che hanno impedito l’accertamento della completa verità. Le stragi fasciste e le stragi mafiose non sono tra loro separate, sono parte integrante della lunga stagione della guerra fredda, hanno molte cose in comune, un legame a volte invisibile che li tiene unite. Ogni tanto uno squarcio di luce si apre quando sulla scena compaiono uomini incappucciati, legati a varie tipologie di massonerie deviate.
Questi sono solo spunti, non verità assolute. Spunti per una discussione e per una ricerca che bisogna ancora condurre. Ma mentre si riflette, e si studia, occorre agire con tempestività perché chi vuole mettere in discussone o depotenziale la strumentazione antimafia che l’Europa ci invidia non possa prevalere.

 di Enzo Ciconte (docente di Storia delle mafie all'università di Pavia)

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