Così l'Italia ha condannato il Sud al fallimento, crollano gli investimenti

Economia | 31 luglio 2015
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Mi occupo da troppi anni di Mezzogiorno, per non aver contezza che la presentazione del Rapporto annuale della Svimez, costituisce un’occasione, a volte un po’ liturgica, per far balzare la questione all’attenzione della stampa nazionale. Una sorta di “sgravio di coscienza” che dura un paio di giorni e consente ai media di dar per assolto il loro ruolo di denuncia delle drammatiche condizioni delle aree depresse, per poi occuparsi tranquillamente d’altro per i restanti 363 giorni dell’anno. A meno che – come dimostrano i recenti fatti siciliani- non si trovi il “caso” da lanciare in prima pagina ad eterno disdoro delle nequizie di questa o quella realtà del Sud. Invece, il lavoro del benemerito istituto di via di Porta Pinciana presieduto dall’economista napoletano Adriano Giannola, meriterebbe di costituire un’occasione di seria  e costante riflessione per costringere il governo nazionale e le regioni ad occuparsi di problemi che saranno decisivi per il destino dell’Italia intera.   Il Rapporto, che ha un’impostazione teorica coerentemente dualistica, contiene, insieme a dati già noti, alcuni elementi originali che val la pena mettere in  rilievo. Innanzitutto il confronto tra i tre paesi dell’UE a 18 maggiormente interessati a fenomeni di divergenza territoriale:  la Germania nel corso della lunga crisi ha realizzato una forte convergenza con i Lander dell’Est che crescono in sintonia con quelli occidentali ; in  Spagna il processo di convergenza non si è fermato. In Italia, invece, si è avuto un andamento opposto ed è aumentata la forbice della divergenza tra le due aree (19,1% regioni convergenza, 21,8% regioni competitività).  L’incapacità dei governi centrali che si sono succeduti negli ultimi dieci anni ad affrontare il problema della convergenza territoriale è dimostrata dalla caduta degli investimenti pubblici in conto capitale che, anche in conseguenza delle politiche di austerità, hanno subito un crollo dal 2011 a oggi pari a 17,3 miliardi di euro. Il calo si è verificato in tutto il paese, ma nel Mezzogiorno è stato più accentuato: fatto 100 il 2007  la spesa nel Sud è scesa al 72,7%, nel Centro-Nord si è attesta al 80,4%. Insomma, anche negli anni della grande recessione lo Stato ha destinato maggiori risorse alle aree più avanzate; effetto della centralità che, per ragioni di consenso elettorale, i governi di centro destra (ma non solo essi, purtroppo) dettero alla cosiddetta “questione settentrionale”.  La spesa pubblica in conto capitale nel meridione è scesa nel 2013 al 34,1% rispetto al 45%dell’obiettivo programmatico e al 41% reale che fu raggiunto all’inizio del nuovo secolo. Anche la spesa pubblica ordinaria per scuola, sanità, sostegno alle fasce più deboli della popolazione ha subito una netta flessione.   C’è tutto questo, assieme alla caduta degli investimenti fissi lordi pubblici e privati (-38,1%nel Sud; -27,1% nel resto d’Italia) alle radici dell’attuale situazione di crisi strutturale del Mezzogiorno nel quale, come afferma la Svimez, si è innestata un pericolosa spirale di bassa produttività, bassa produttività, minore benessere che sta producendo fenomeni sociali devastanti.  Il tasso di disoccupazione dei giovani rappresenta una “frattura senza paragoni in Europa”, con punte di eccezionale gravità per quanto riguarda il lavoro femminile. Ciò ha condotto alla ripresa dell’emigrazione di massa, che stavolta riguarda però i giovani ad alta formazione, cioè le energie potenzialmente più vivaci delle nostre terre. Ed è, probabilmente, anche alla base del decremento del tasso di natalità che, per il terzo anno consecutivo, l’associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno denuncia come uno dei fenomeni  più gravi , foriero del rischio di un invecchiamento strutturale della popolazione. Insomma, fra trent’anni, se continua così,  il  Sud sarà popolato di vecchi.  Le anticipazioni del Rapporto, infine, confermano il massiccio aumento dei tassi di povertà relativa e assoluta, che riporterebbe quest’area del paese indietro di cinquant’anni.  Sono tutti dati che sollecitano la necessità di una visione unitaria del Mezzogiorno che obblighi il governo nazionale, in sintonia con le regioni, a concentrare sulle aree a ritardo di sviluppo le risorse necessarie a farle ripartire; e con esse il paese intero.  Non si rimette in moto l’Italia, in una parola, se non si determina nel Sud una stagione di grandi investimenti pubblici e privati per lo sviluppo produttivi e la creazione di nuova occupazione. Un solo riferimento alla situazione siciliana, a proposito della quale i dati di ieri danno carburante alle infiammate dichiarazioni del partito dei catastrofisti. Schieramento che, peraltro, aveva già trovato consolazione nelle previsioni della Fondazione Curella, nettamente pessimiste rispetto a quanto annunciato qualche giorno prima da RES.   Da profano, mi pare che i dati Svimez, relativi al 2014, non siano in contrasto con le considerazioni dei recenti rapporti sulle economie regionali di Banca d’Italia e, per quanto riguarda l’isola, con le previsioni formulate dal centro studi presieduto dal professor Trigilia.  Tuttavia, lascio agli economisti il compito di prevedere cosa ci aspetta nel prossimo futuro e mi soffermo invece sul fatto che l’ARS non deve perdere l’occasione di intervenire subito sulla povertà assoluta. Sta per esser presentato, infatti, il disegno del legge di iniziativa popolare per l’integrazione al reddito contro la povertà assoluta  proposto dal Comitato “No povertà”. L’Assemblea Regionale, in tutte le sue componenti,  darebbe un segnale importante a tutta la comunità siciliana se  fosse approvato più rapidamente possibile. Non è più tempo di chiacchiere, ma di fatti: rispondere ai bisogni di 250.000 famiglie che fino ad oggi si trovano a far fronte da sole al dramma della povertà, rappresenterebbe il segnale più forte e credibile che il  ceto politico è uscito dalla sua “torre d’avorio” per occuparsi, finalmente, dei bisogni della persone.

 di Franco Garufi

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