Così l'Italia ha condannato il Sud al fallimento, crollano gli investimenti
Mi occupo da troppi anni di
Mezzogiorno, per non aver contezza che la presentazione del Rapporto annuale
della Svimez, costituisce un’occasione, a volte un po’ liturgica, per far
balzare la questione all’attenzione della stampa nazionale. Una sorta di
“sgravio di coscienza” che dura un paio di giorni e consente ai media di dar
per assolto il loro ruolo di denuncia delle drammatiche condizioni delle aree
depresse, per poi occuparsi tranquillamente d’altro per i restanti 363 giorni
dell’anno. A meno che – come dimostrano i recenti fatti siciliani- non si trovi
il “caso” da lanciare in prima pagina ad eterno disdoro delle nequizie di
questa o quella realtà del Sud. Invece, il lavoro del benemerito istituto di
via di Porta Pinciana presieduto dall’economista napoletano Adriano Giannola,
meriterebbe di costituire un’occasione di seria e costante riflessione per costringere il
governo nazionale e le regioni ad occuparsi di problemi che saranno decisivi
per il destino dell’Italia intera. Il Rapporto, che ha un’impostazione teorica coerentemente
dualistica, contiene, insieme a dati già noti, alcuni elementi originali che
val la pena mettere in rilievo. Innanzitutto
il confronto tra i tre paesi dell’UE a 18 maggiormente interessati a fenomeni
di divergenza territoriale: la Germania
nel corso della lunga crisi ha realizzato una forte convergenza con i Lander
dell’Est che crescono in sintonia con quelli occidentali ; in Spagna il processo di convergenza non si è
fermato. In Italia, invece, si è avuto un andamento opposto ed è aumentata la
forbice della divergenza tra le due aree (19,1% regioni convergenza, 21,8%
regioni competitività). L’incapacità dei
governi centrali che si sono succeduti negli ultimi dieci anni ad affrontare il
problema della convergenza territoriale è dimostrata dalla caduta degli
investimenti pubblici in conto capitale che, anche in conseguenza delle
politiche di austerità, hanno subito un crollo dal 2011 a oggi pari a 17,3
miliardi di euro. Il calo si è verificato in tutto il paese, ma nel Mezzogiorno
è stato più accentuato: fatto 100 il 2007
la spesa nel Sud è scesa al 72,7%, nel Centro-Nord si è attesta al
80,4%. Insomma, anche negli anni della grande recessione lo Stato ha destinato
maggiori risorse alle aree più avanzate; effetto della centralità che, per
ragioni di consenso elettorale, i governi di centro destra (ma non solo essi,
purtroppo) dettero alla cosiddetta “questione settentrionale”. La spesa pubblica in conto capitale nel
meridione è scesa nel 2013 al 34,1% rispetto al 45%dell’obiettivo programmatico
e al 41% reale che fu raggiunto all’inizio del nuovo secolo. Anche la spesa
pubblica ordinaria per scuola, sanità, sostegno alle fasce più deboli della
popolazione ha subito una netta flessione.
C’è tutto questo, assieme alla
caduta degli investimenti fissi lordi pubblici e privati (-38,1%nel Sud; -27,1%
nel resto d’Italia) alle radici dell’attuale situazione di crisi strutturale
del Mezzogiorno nel quale, come afferma la Svimez, si è innestata un pericolosa
spirale di bassa produttività, bassa produttività, minore benessere che sta
producendo fenomeni sociali devastanti.
Il tasso di disoccupazione dei giovani rappresenta una “frattura senza
paragoni in Europa”, con punte di eccezionale gravità per quanto riguarda il
lavoro femminile. Ciò ha condotto alla ripresa dell’emigrazione di massa, che
stavolta riguarda però i giovani ad alta formazione, cioè le energie
potenzialmente più vivaci delle nostre terre. Ed è, probabilmente, anche alla
base del decremento del tasso di natalità che, per il terzo anno consecutivo, l’associazione
per lo sviluppo del Mezzogiorno denuncia come uno dei fenomeni più gravi , foriero del rischio di un
invecchiamento strutturale della popolazione. Insomma, fra trent’anni, se
continua così, il Sud sarà popolato di vecchi. Le anticipazioni del Rapporto, infine, confermano
il massiccio aumento dei tassi di povertà relativa e assoluta, che riporterebbe
quest’area del paese indietro di cinquant’anni.
Sono tutti dati che sollecitano la necessità di una visione unitaria del
Mezzogiorno che obblighi il governo nazionale, in sintonia con le regioni, a
concentrare sulle aree a ritardo di sviluppo le risorse necessarie a farle ripartire;
e con esse il paese intero. Non si
rimette in moto l’Italia, in una parola, se non si determina nel Sud una
stagione di grandi investimenti pubblici e privati per lo sviluppo produttivi e
la creazione di nuova occupazione. Un solo riferimento alla situazione
siciliana, a proposito della quale i dati di ieri danno carburante alle
infiammate dichiarazioni del partito dei catastrofisti. Schieramento che,
peraltro, aveva già trovato consolazione nelle previsioni della Fondazione
Curella, nettamente pessimiste rispetto a quanto annunciato qualche giorno
prima da RES. Da profano, mi pare che i
dati Svimez, relativi al 2014, non siano in contrasto con le considerazioni dei
recenti rapporti sulle economie regionali di Banca d’Italia e, per quanto
riguarda l’isola, con le previsioni formulate dal centro studi presieduto dal
professor Trigilia. Tuttavia, lascio
agli economisti il compito di prevedere cosa ci aspetta nel prossimo futuro e
mi soffermo invece sul fatto che l’ARS non deve perdere l’occasione di
intervenire subito sulla povertà assoluta. Sta per esser presentato, infatti,
il disegno del legge di iniziativa popolare per l’integrazione al reddito
contro la povertà assoluta proposto dal
Comitato “No povertà”. L’Assemblea Regionale, in tutte le sue componenti, darebbe un segnale importante a tutta la
comunità siciliana se fosse approvato
più rapidamente possibile. Non è più tempo di chiacchiere, ma di fatti: rispondere
ai bisogni di 250.000 famiglie che fino ad oggi si trovano a far fronte da sole
al dramma della povertà, rappresenterebbe il segnale più forte e credibile che
il ceto politico è uscito dalla sua
“torre d’avorio” per occuparsi, finalmente, dei bisogni della persone.
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