Conoscenti, un’estate palermitana e una scrittura magnetica
Quasi vent’anni dopo la sua prima pubblicazione, è tornato in libreria “La stanza dei lumini rossi” (254 pagine, 12 euro), unico romanzo di Domenico Conoscenti. Mossa meritoria della casa editrice Il Palindromo, la riscoperta di un classico degli anni Novanta, finito ingiustamente fuori catalogo, dopo l’esordio per e/o. A poter spingere il lettore a (ri)confrontarsi con questa storia non è il dettaglio filologico di qualche accorgimento dell’autore, o il testo inedito a fine volume. Ci si può immergere nell’afosa estate palermitana dei “lumini” per capire che fine ha fatto il suo autore e interrogarsi su uno scrittore indubbiamente dotato, oggi cinquantottenne, che avrebbe potuto dare altre prove di valore. Ma che, un po’ come Bartleby, ha preferito di no, come svuotato da tutto quello che ha messo in quest’opera prima. Gli interessi di Conoscenti, insegnante di scuola superiore, hanno percorso altre strade (li ha raccontati anche in un’intervista ad Asud’Europa qualche anno fa), versi, racconti sparsi, partecipazioni ad antologie, studi e ricerche sulla letteratura italiana del Trecento, cose così.
Resta
“La stanza dei lumini rossi”, che nulla ha da invidiare a tutti i romanzi coevi
e spicca per la scrittura magnetica, nonostante il lessico della voce narrante
– Saverio, giovane barman di un albergo nel centro di una spopolata, estiva Palermo
– non sia particolarmente suggestivo o ricercato. Un felice mistero linguistico
che s’innesta in atmosfere forse troppo frettolosamente descritte come torbide,
gotiche o dostojevskiane. Non è così semplice, rifuggire a qualsiasi etichetta
è nel Dna di queste pagine.
È un sottilissimo
romanzo psicologico, quello di Conoscenti, incentrato su un giovane dalla
sessualità ondivaga, in bilico (ma non troppo) tra una fidanzata che lo aspetta
al paese e una nordica amante opportunista, con un irrisolto rapporto con la
figura paterna e la memoria materna che quasi non c’è (sua madre è morta nel
metterlo al mondo). Il legame più complesso è, però, quello che ha con l’anziana
padrona di casa: una megera che precipita nella sua vita, alternando morbosità
e gentilezza, diffidenza e inopinato trasporto. Negli angoli di una Palermo
avvolta dalle tenebre, in un crescendo di claustrofobia e vertigini, emerge
perfino – con epilogo dietro una tenda di velluto – l’eterno tema della “roba”,
dispiegato con un sentire più che contemporaneo. Chapeau.
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