I paesi che fanno muro
In senso opposto si sono invece mossi altri governi. Il Regno Unito vuole
bloccare a tutti i costi gli accessi sul suo territorio, individuando Calais
come il campo di un’impari e disonorevole battaglia contro le persone in cerca
di asilo. I governi ungherese e bulgaro al dramma dei profughi intendono
rispondere con la costruzione di nuovi muri. Una tecnologia antica e
rudimentale, che oggi come ieri serve a dividere noi e gli altri. Pensavamo che
in Europa con la caduta del muro di Berlino l’epoca dei muri fosse finita,
invece ne sorgono degli altri. Non più però per frenare la fuga delle persone
verso la libertà, ma per impedire loro di cercare scampo da guerre e
persecuzioni.
Cerchiamo allora di ragionare sulle possibili risposte a questa
sfida del nostro tempo. Occorre distinguere tre aspetti: il salvataggio,
l’accoglienza, l’integrazione. Ma serve anzitutto una premessa. I profughi nel
mondo hanno raggiunto nel 2014 la cifra record di 59,5 milioni. Di questi, l’86
per cento è accolto in paesi del cosiddetto Terzo Mondo. I paesi più coinvolti
nell’accoglienza sono Turchia (1,59 milioni), Pakistan (1,51 milioni) e Libano
(1,15 milioni, ma le fonti locali parlano di 1,5-2 milioni) (dati Acnur,
aggiornati a fine 2014). L’Ue è toccata dunque solo marginalmente da questi
flussi: in realtà, talvolta una frangia dei movimenti di profughi riesce ad
approdare sul territorio europeo, anche perché a quanto pare la Turchia non
riesce o non intende più trattenerli. Spesso, particolarmente nel caso dei
siriani, si tratta di classi medie o addirittura di benestanti, travolti dalla
guerra civile. Quanto alla sostenibilità, andrebbe ricordato che il Libano
accoglie secondo l’Acnur 232 profughi ogni mille abitanti, la Svezia nove,
l’Italia poco più di due.
Salvataggio
Posta questa premessa, si tratta di affrontare in modo razionale e coordinato le tre fasi sopra accennate. La prima è il salvataggio. Non è vero che i profughi partivano perché c’erano le navi italiane pronte a soccorrerli. Le restrizioni della prima fase di Triton hanno provocato un’impennata delle vittime. Ora si è tornati a un impegno più convinto e condiviso anche da altri partner europei, ma accompagnato da bellicosi proclami sulla lotta all’immigrazione illegale. Se si vuole davvero debellare il business dei cosiddetti scafisti occorre istituire altre modalità per la presentazione delle domande di asilo e per l’arrivo sul territorio europeo: i cosiddetti corridoi umanitari, o il rapido reinsediamento di chi ha trovato un primo approdo in paesi prossimi alle aree di crisi. In ogni caso, andrebbe eliminata dal lessico politico e mediatico la parola emergenza: se un fenomeno si ripete da anni, con picchi stagionali prevedibili, non è più un’emergenza che arriva inattesa ma un dato con cui confrontarsi stabilmente, organizzando per tempo le misure necessarie.
Accoglienza
Segue l’accoglienza. Qui l’Italia è sotto tiro perché spesso non procede a una rapida e coercitiva identificazione degli sbarcati, tollerandone il transito verso il Nord Europa. La collaborazione dei partner europei è invece subordinata a questa condizione, da rendere cogente mediante l’intervento di funzionari inviati da Bruxelles. Significherebbe di fatto un commissariamento del nostro paese nella gestione del dossier rifugiati. Le quote previste a carico di altri sono un primo passo nel senso del superamento degli accordi di Dublino, ma striminzite come sono lascerebbero poi di fatto a carico dei paesi di primo ingresso gran parte dell’onere dell’accoglienza. L’accoglienza attuata in Italia è senz’altro da migliorare, superando la concentrazione dei rifugiati nelle regioni meridionali, ma va ricordato che un conto sono i numeri degli sbarcati, un altro quelli assai minori dei profughi che domandano effettivamente asilo nel nostro paese. I profughi ripresi in luoghi come le stazioni di Roma e Milano sono in realtà quasi tutti persone in transito. Se non desiderano fermarsi in Italia, non si vede perché e come trattenerli a forza, contro la loro volontà.
Integrazione
Pensare ai rifugiati come a scarti ingombranti da suddividere per quote è
dunque sbagliato per un altro e più profondo motivo, che ha a che fare con le
politiche d’integrazione: i rifugiati non sono cose, e tanto meno scarti che si
lascino stoccare in qualche luogo. Hanno legami, aspirazioni, conoscenze, che li
conducono a preferire certi luoghi rispetto ad altri, dove pensano di potersi
integrare meglio: spesso perché vi risiedono dei parenti in grado di aiutarli.
Tra l’altro non vi è garanzia che una volta collocati in un determinato paese,
siano disposti a rimanervi.
La soluzione al problema andrebbe cercata facendo
dell’asilo una politica comunitaria: i rifugiati dovrebbero essere liberi di
insediarsi dove desiderano, i paesi che li accolgono dovrebbero ricevere aiuti
europei in proporzione al numero delle persone accolte, a piena copertura dei
costi. Non sembra molto difficile, ma la politica di questi tempi sembra
prigioniera di un’angusta quanto vana riaffermazione dei confini nazionali. I
padri fondatori dell’Europa meriterebbero eredi migliori.