Caro Vecchioni, era meglio dire: "La mafia è una merda, ribellatevi!"
“Io voglio scrivere che la mafia è una montagna di merda! Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgerci più di niente! “.
Ecco, se invece di scrivere Sicilia, Vecchioni avesse indicato, come Peppino Impastato, già nel nome un responsabile del degrado, dell’arretratezza, dell’assenza di speranza, il coro del consenso si sarebbe levato molto forte accomunando nello stesso applauso eserciti di sinceri e robuste legioni di ipocriti.
Perché nella sostanza le due grida non sono dissimili. Quando ogni giorno camminiamo vergognandoci per le strade sporche, per i disservizi nella sanità, per il nepotismo imperante, le corporazioni non scalfibili, il tradimento di uomini e donne preposte per difenderci e da cui invece dobbiamo difenderci, quando vediamo i nostri figli sparire dentro la pancia di un aereo che li porterà lontano verso nuove opportunità, quelle parole le abbiamo usate anche noi.
Molti paesi e molte regioni hanno trascorsi di grandezza e un presente di rovine. E in tutti questi territori si sono create profonde diseguaglianze, classi di privilegiati e incapacità, anche dei maggiori campioni del riscatto sociale, a incidere in profondità sulle cause.
E la vulgata di regimi che si sovrappongono, e a vicenda si sostengono, spesso cattura le nostre attenzioni per i meschini teatrini di una politica autoreferenziale, una burocrazia dorata e irresponsabile, la giungla del parassitismo che condiziona in peggio tanti servizi e dilapida preziose risorse. E quando anche la mafia in affanno ma non vinta, risorge attraverso l’emulazione dei sui codici da parte di significative parti dei nemici ufficiali, ci si accorge che un fato oscuro nutrito dall’assuefazione e dalla rassegnazione rischia di rendere perenne un clima che è solo conseguenza dell’agire umano.
Paradisi naturali e grandiose testimonianze culturali sono un inferno sulla terra per le popolazioni civili sottoposte a vessazioni, rapine e in ultimo costrette all’esodo. Dal vicino oriente oggi ai dirimpettai d’oltre adriatico ieri, è emergenza continua provocata dai disastri compiuti da chi amministra.
In Sicilia possiamo invocare la storia millenaria, un patrimonio culturale inestimabile, un contesto paesistico unico, ma sono 150 anni che inseguiamo un nord sempre più veloce arrancandogli dietro senza fortuna. Centocinquanta anni in cui la mafia da campestre si è fatta cittadina e da supporto ai nobilotti si è trasformata in classe di governo. Centinaia di uomini e donne coraggiosi sono morti ma i figli di questa terra continuano ad andarsene.
Perché pur con le stesse risorse le nostre scuole, gli ospedali, gli asili, l’assistenza agli anziani, ai disabili, sono resi a standard molto inferiori?
Perché le città deturpate dalla speculazione edilizia oggi sono offese dall’incuria e dall’abbandono?
Perché i rifiuti da preziosa risorsa da utilizzare sono la putrescente palla al piede di vasti territori siciliani?
Perché si consente a una burocrazia numerosa come un paese vasto dieci volte e pagata come nababbi di continuare a percepire premi senza un corrispettivo in risultati raggiunti?
Perché si preferisce mantenere piccoli eserciti di precari utilizzabili per le proprie guerre private elettorali invece di fornire ammortizzatori sociali equi e giusti?
Perché le grandi risorse che pur abbiamo sono utilizzate male, e spesso con una regia totalmente estranea alla Sicilia?
Ecco, forse la frase del cantautore serve a riportare al centro la domanda che disperatamente Impastato rivolgeva ai suoi ascoltatori parlando di mafia e che oggi potrebbe valere parlando di classe politica, burocratica, imprenditoriale: “Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgerci più di niente! “.
Allora l’appello è ai siciliani, alla gente che ogni giorno fatica e sogna,
alla tanta gente che
desidera normalità, agli amministratori di ogni livello
di governo che sono stati eletti per cambiare e alla fine vogliono solo durare
assistendo al perpetuarsi dei disservizi senza il coraggio di affrontare in
maniera dura il nocciolo dei problemi.
Ai tanti burocrati per bene su cui,
nel fallimento della politica, si addossa gran parte dell’onere di far girare
una pigra macchina amministrativa e che restano passivi e inerti, ai tanti
dirigenti indifferenti ai destini della società che produce e langue per i bandi
che non arrivano, le graduatorie che non si fanno, le erogazioni che ritardano,
protetti dalla calda certezza di un fine mese assicurato.
Agli imprenditori che hanno creduto più profittevole farsi garantire privilegi invece che inventare mercato. Che magari si indignano in pubblico e poi cercano protezioni o guarentigie in privato.
Alla Sicilia che si arrabbia per una frase, ai siciliani che pensano offesa
la propria terra, ai moltissimi che vogliono cambiare, la risposta: “Noi ci
dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro
facce! Prima di non accorgerci più di niente! “.
A Peppino non
dispiacerebbe.
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