Caccia ucciso dalla 'ndrangheta, dopo 32 anni preso l'assassino
Società | 23 dicembre 2015
Poteva diventare uno dei tanti misteri d'Italia. Invece, a distanza di 32
anni, l'omicidio di Bruno Caccia trova la soluzione. Oggi la polizia ha arrestato uno degli
uomini che, secondo le indagini, fecero parte del commando che il 26 giugno 1983 uccise a
colpi di pistola l'allora procuratore capo di Torino. E il nuovo sviluppo consolida la pista di
sempre: fu un delitto di 'ndrangheta.
Caccia fu l'unico magistrato eliminato dalle cosche nel Nord Italia. Pagando così la sua
intransigenza, il suo rigore, la sua determinazione nel combattere la malavita.
Per quell'agguato c'è già una condanna. Domenico Belfiore, considerato il mandante, sta
scontando l'ergastolo dal 1989, anche se lo scorso 11 giugno gli è stata concessa la
detenzione domiciliare, a Settimo Torinese, per una grave malattia. Oggi le manette sono
scattate per Rocco Schirripa, 64 anni, panettiere a Torino, figura che gli investigatori
subalpini conoscono da decenni. Originario di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria), chiamato
dagli amici Rocco 'Barcà, per l'antimafia fa parte del 'localè di Moncalieri (Torino) della
'ndrangheta. Nel giardino della sua villetta di Torrazza Piemonte era ben visibile un fantoccio
abbigliato come «Il padrino». Nel 2011 entrò nell'inchiesta Minotauro e ne uscì patteggiando
venti mesi. È possibile che sia stato proprio lui a dare a Caccia il colpo di grazia. Il
magistrato stava passeggiando con il cane sotto casa, nella precollina torinese, quando
venne affiancato da una Fiat 128. Il conducente sparò per primo, il passeggero scese
dall'auto e completò l'opera.
«L'arresto - dice Cristina Caccia, figlia del magistrato - è un tassello importante per gli
sviluppi futuri dell'inchiesta.
Ci auguriamo che possa far luce su tutti i risvolti rimasti oscuri di questa vicenda, a partire
dagli altri mandanti». La famiglia Caccia non si è mai rassegnata: impossibile che Belfiore
avesse deciso da solo, impossibile che non saltassero fuori i nomi dei killer, impossibile
che non si sapesse con precisione il vero movente. Il loro avvocato, Fabio Repici, aveva
inviato alla Procura di Milano (competente per materia) numerosi memoriali in cui chiamava
in causa un boss della mafia messinese, i servizi segreti deviati e un pm troppo
compiacente che sviò le indagini. Gli inquirenti milanesi hanno battuto un'altra strada.
Già nel 1996 un pentito aveva ipotizzato il coinvolgimento di Schirripa, precisando però
che si trattava di una propria «deduzione». Roba di scarsa utilità dal punto di vista
giudiziario. A incastrare Schirripa è stato uno scatto di fantasia della squadra mobile di
Torino: mandare una lettera anonima («Se parlo andate tutti in galera») a Belfiore. Il quale ha
contattato il cognato, Placido Barresi, che per questa storia fu processato e assolto. Barresi,
a sua volta, ha contattato Schirripa: «Ti sei fatto trent'anni tranquillo, fattene altri trenta
tranquillo». Tutto intercettato.
Ilda Boccassini, capo della Dda di Milano, si è detta «emozionata» dalla svolta di
un'indagine che ha coordinato con il collega Marcello Tatangelo. A Torino il nome di Caccia
è un simbolo, tanto che gli è stato intitolato il Palazzo di Giustizia. Gian Carlo Caselli, che
lavorò con lui nel processo ai capi storici delle Br, si sente «contento come torinese e come
magistrato». Il procuratore generale del Piemonte, Marcello Maddalena, è «orgoglioso». Il
sindaco Piero Fassino parla «di ferita aperta per trent'anni».
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