Buste della spesa, il 50% è illegale: l'affare dei boss vale 400 milioni

Economia | 16 novembre 2018
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«Le do un bel sacchetto resistente, non di quelli sottili che fanno ora e si rompono subito». Sembra un semplice gesto di cortesia e magari inconsapevolmente spesso lo è davvero, quello che migliaia di ambulanti o piccoli commercianti compiono tutti i giorni consegnandoci la spesa in una busta vecchio stile. Non di quelle biodegradabili che cedono non appena il peso aumenta un po’ troppo. Ma quel sacchetto in un caso su due è fuorilegge perché inquinante. E arriva nelle nostre mani dopo un percorso tutto al di fuori della legalità: un’intera filiera che lavora in nero e, nei peggiori dei casi, corre sui binari del racket gestito dalla criminalità organizzata, che impone l’acquisto dei suoi sacchetti ai commercianti.

Il volume d’affari che sfugge alla legalità è stimato da Assobioplastiche - l’associazione delle aziende che producono i sacchetti biodegradabili obbligatori per legge - in circa 400 milioni di euro all’anno. Che, tradotti in termini di costo ambientale, significano 50 mila tonnellate di plastica messe in circolo e destinate ad andare a peggiorare le condizioni dei corsi d’acqua. Dall’inizio del 2017 sono stati sequestrati 15 milioni di sacchetti in tutta Italia, ad opera delle polizie locali, dei carabinieri e della Guardia di Finanza coordinata dal gruppo anticontraffazione. Ma la sfida delle forze dell’ordine al mercato delle buste illegali è impari: se le grandi catene sono sostanzialmente immuni dal fenomeno (l’unica operazione significativa è quella della Guardia di Finanza di Sondrio che ha interessato 52 punti vendita di una catena del settore calzaturiero), la miriade di piccoli produttori, distributori, ambulanti e commercianti che alimentano la filiera è amplissima ed estremamente parcellizzata. È un’economia parallela con le sue strutture e la sua organizzazione, non solo quando scendono in campo mafia e camorra. La spartizione dei mercati tra i vari distributori per non farsi concorrenza è funzionale a un traguardo facile per tutti: i profitti altissimi ed esentasse. A Seregno, ad esempio, un distributore colto in flagrante ha dichiarato candidamente che la partita di sacchetti che gli è stata sequestrata dalla polizia locale di Milano nel settembre scorso, che a lui era costata 30 mila euro, gliene avrebbe fatti incassare 150 mila.

Un passo indietro per capire il contesto normativo. Dal 2012 gli unici sacchetti per la spesa legali sono quelli biodegradabili, compostabili e con certificazione di conformità. Lo spirito della legge voleva essere l’incentivo all’uso di materiale organico: stop all’inquinamento e spinta alla chimica verde. Missione compiuta? Non esattamente, perché la quantità dei sacchetti non biodegradabili che circolano in Italia si è ridotta solo del 55%. Il resto viaggia in nero. Le sanzioni per i commercianti vanno dai 2.500 ai 25.000 euro (si sale fino a 100.000 in casi limite). Cifre pesanti per piccoli negozianti e ambulanti, che infatti tendono a rinunciare alle forniture vietate non appena vengono sanzionati. La denuncia penale, invece, scatta solo qualora sul sacchetto in plastica venga riportata la certificazione di conformità alle norme e dunque si entri nel campo della frode in commercio. Le sanzioni, in sostanza, sono efficaci a valle, ma il problema sta agli altri livelli: quello dei produttori e quello dei distributori. La filiera del nero Dietro al sacchetto illegale in cui l’ambulante o il piccolo commerciante infilano la nostra spesa ci sono due tipologie di filiera: quella del “semplice” mercato nero, dominante nel la larghissima parte delle piazze del Centro-Nord ma estesa anche al Sud, e quella controllata dalla criminalità organizzata, la cui presenza nel business degli shopper è acclarata tra Campania e Sicilia. Nel primo caso, la consegna dei sacchetti avviene direttamente al mercato. È prima dell’alba, quando i clienti ancora dormono e gli ambulanti iniziano a sistemare la merce, che sul posto arrivano i distributori con i loro furgoncini carichi di buste in plastica. Un rapido giro dei banchi, vendita in nero e via. Chi sono i distributori? In alcuni casi padroncini che hanno trovato in questo settore l’alternativa al vivere di espedienti e lavorano completamente in nero: si va dall’immigrato che fatica ad esprimersi in italiano al venditore più scafato che dice di fare da solo, ma in sostanza è uno strumento, molto ben retribuito, dei produttori. La polizia locale di Milano, ad esempio, ha scoperto a Seregno, Carate Brianza e all’ortomercato depositi in cui erano accatastate tonnellate di buste destinate a tutti i mercati della città; caso analogo nel nelcuore di Torino, con un bazar da 18 mila sacchetti scovato dalla polizia locale in corso Regina Margherita dopo aver smascherato un distributore abusivo a Porta Palazzo. Altre volte, invece, i distributori operano per conto di aziende che commercializzano materiale plastico e che affiancano attività legali alla vendita degli shopper. Invisibili ma svelti, ramificati e con volumi d’affari di tutto rispetto. 

Nelle grandi città l’organizzazione è capillare: «C’è una divisione dei mercati, ogni distributore rifornisce una zona diversa. Non si fanno concorrenza, ma si spartiscono il business » spiega Antonio Tabò, vicecomandante del nucleo anti-abusivismo della polizia locale di Milano. Alle loro spalle, insomma, stanno spesso imprese conosciute che, per alzare il fatturato, mescolano l’illecito al lecito. E che, a loro volta, si riforniscono da aziende che arrotondano violando la legge: industrie di materiale plastico che dichiarano di aver abbandonato la produzione dei sacchetti vietati, ma che in realtà si concedono qualche deroga. Magari a fine giornata, riavviando vecchi macchinari giusto un paio d’ore per soddisfare un mercato - cioè i piccoli commercianti - che continua a chiedere il prodotto perché costa circa il 15% in meno, si può acquistare senza Iva e piace di più ai clienti. «I distributori spesso si difendono mostrandoci fatture d’acquisto - aggiunge Tabò -. Ma basta un’occhiata per capire che i conti non tornano, perché su quelle ricevute di solito sono indicati prodotti diversi come i sacchi della spazzatura. È il segno che, con ogni probabilità, l’acquisto è stato fatto da produttori che mescolano attività legali e illegali». Ma per gli inquirenti è difficile risalire ai distributori e ancor di più ai produttori, perché l’intreccio tra lecito e illecito e l’attività di realizzazione e consegna just in time rendono complicata la flagranza di reato. Così i controlli si concentrano sull’ultimo anello della catena, cioè i mercati, nel tentativo di scoraggiare la domanda: multe di migliaia di euro sono un deterrente inevitabilmente efficace nei confronti dei piccoli commercianti. La mano di mafia e camorra Dal produttore all’ambulante passando per il distributore, il mercato dei sacchetti illegali è tutto in nero e a chilometri zero nella larghissima maggioranza delle piazze italiane. In alcune regioni il fenomeno assume però una rilevanza diversa perché camorra e mafia non si lasciano sfuggire la chance. 

Si può risalire al 2002, quando il sindacalista degli ambulanti Federico Del Prete venne ucciso a Casal di Principe per aver denunciato il racket nel settore, con ricatti che riguardavano anche le forniture di shopper (all’epoca ancora legali). Ma anche in tempi più recenti i casi sono stati molteplici: a Caltanissetta, l’operazione Pandora ha acceso i fari sul ruolo del clan degli Scalzo nel traffico dei sacchetti; a Napoli, gli inquirenti hanno messo in relazione sparatorie nelle zone di San Giovanni e della Maddalena al racket sulle buste; ancora a Napoli il pentito Biagio Di Lanno ha descritto le estorsioni dei clan che, nella zona di Marano, imponevano ai commercianti prezzi e quantità dei sacchetti da acquistare. Dove è la criminalità organizzata a gestire il business, lo schema cambia. La merce non esce da grandi fabbriche che si occupano anche di altro, ma più spesso viene realizzata in strutture raffazzonate e abusive, magari ricavate in un semplice scantinato. Se la produzione autarchica non basta, qualcosa arriva anche dall’estero: è più di un sospetto per la polizia locale di Napoli, che di recente ha sequestrato partite di shopper con la scritta “made in Vietnam”. La distribuzione è affidata a dei pony express della criminalità organizzata, che vanno su e giù per i mercati parlando la lingua della camorra: approccio bonario quando è sufficiente, imposizione dell’acquisto dietro minacce quando è necessario alzare i toni. «Sono gli stessi ambulanti a farcelo capire - spiegano Enrico Del Gaudio e Paolo D’Errico, comandante e maresciallo del nucleo di tutela ambientale della polizia locale di Napoli - quando li sanzioniamo e chiediamo loro dove e perché abbiano acquistato quella merce, ci dicono che sono costretti, che devono fare così…». 

Nessuna denuncia e nessun nome, ma un chiaro riferimento al racket. Per gli ambulanti la mazzata è doppia: obbligati ad acquistare al prezzo voluto dai camorristi, devono anche farsi carico delle multe. E da queste parti per gli inquirenti risalire la filiera fino a individuare distributori e produttori è ancora più complicato, perché bisogna fare i conti anche con il muro di omertà e paura che complica le indagini. (La Stampa)

 di Gabriele De Stefani

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