Buon viaggio Moraldo
di Angelo Pizuto
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Questa volta l’anziano Moraldo, che fu giovanissimo al
tempo de “I vitelloni” (1953), il suo
treno per non si da dove, l’ha preso definitivamente, e con la
melanconica leggerezza, discrezione di sempre. La prima volta, nella finzione
filmica, era avvenuta nel bigio, struggente finale del primo capolavoro
felliniano, all’alba d’una mattina tutta caligine e deserto intorno, in cui
l’Adriatico selvaggio smetteva di essere ‘ventre materno’ (accogliente,
accondiscendente) di minime velleità seduttive-goliardiche-creative (chi non
ricorda la ‘delusione’ drammaturgica del grande Leopoldo Trieste, occhi
sgranati e credulone danneggiato?) ed esponeva Franco Interlenghi, attore ed
effige di un’epoca, ai cimenti che la vita di provincia tende a mitizzare
Ad 83
anni, dalla sua casa romana nei pressi di Ponte Milvio, se va quindi il ‘caro amico Franco’, che – insieme a Renato
Salvatori, Maurizio Arena e la partecipazione ‘double face’ di Franco Fabrizi- fu icona, effige, persino ‘epitome’ di un
universo innocente e irripetibile, gradasso ma bonario, che dischiudeva
l’Italia dei ‘poveri ma belli’ (politicamente abulici) a tutte le delusioni,
fregature, ingiustizie che trovarono sintesi e memoria in “C’eravamo tanto
amati” di Ettore Scola. Sicchè sarebbe riduttivo ed ingiusto relegare il
ricordo, il bel viso, la professionale duttilità di Interlenghi alla sola
esperienza neorealista (attore ragazzino il “Sciuscià” di De Sica) o al
‘realismo rosa’ in cui per decenni s’è esaurita la valutazione di autori come
Dino Risi, Renato Castellani, Luciano Emmer, Giorgio Bianchi.
“Anche se preso dalla strada, come si diceva allora, a
me recitare, fare cinema e teatro interessava sul serio”- affermava l’attore,
schivo e cordiale, nei rari momenti di confidenza. Allorchè la sua ‘maschera’
adombratasi nel tempo lasciava ampio agio al ‘verace ragazzo romano’ in cui
riconosceva le sue scaturigini. E poi
“Non nego che nel dopoguerra la fame in giro era tanta ed io non facevo eccezione:
tutti provavano a infilarsi un un film, a fare le comparse. Finalmente,
arrivato davanti a De Sica, mi chiese 'sai fare a pugni?' Ed io, dopo esitante,
intimidito, un po’ bugiardo azzardai: 'Sì, faccio a pungi con mio fratello,
faccio a pugni con gli amici, vado a scuola di pugilato...'. De Sica disse ai
suoi assistenti 'prendete il numero di telefono'. E cominciò tutto così".
Ma il seguito fu ben diverso da quello delle molte giovani promesse che esauriscono gli archi della buona fortuna
nel volgere di pochi film. E non per
loro colpa, essendo il cinema una delle industrie più usuranti, spietate,
trituranti.
Sia come sia,
la simpatia, la notorietà di Interlenghi crebbero dalla metà del secolo scorso con i tipici ma non stucchevoli ruoli di giovane bello, romantico, idealista, con la
faccia pulita, ‘da bravo e smarrito giovanotto’, capace tuttavia di
imprevedibili guizzi di astuzia e di riscatto. Scrollatosi di dosso il ruolo
del piccolo e sfortunato lustrascarpe, Interlenghi (che nel frattempo aveva
sposato l’amatissimo Antonella Laldi) inscenò una nutrita galleria di personaggi a rischio stereotipo,
ma sempre ‘acciuffati per i capelli’ mediante congenita espressività di
sfumature psicologiche, dolenti o gioiose, che spiccarono in numerosi titoli e laboriosità d’altri registi:
con Blasetti in “Fabiola”, con Emmer in “Domenica d’agosto”e “Parigi è sempre
Parigi”, “Giovani mariti” di Mauro Bolognini, “Padri e figli” di Mario
Monicelli - sino alla partecipò
alla serie di “Don Camillo” (con Cervi e Fernandel), diretto da Julien Duvivier,
sinchè non lo vollero sia Antonioni per “I vinti” che Roberto Rossellini per
l’apologia nazionalista (stucchevole e lacunosa a rivedersi) di “Viva l’Italia”
Interessatissimo al teatro, per il quale aveva iniziato a ‘prepararsi’ sia
culturalmente, sia fattivamente,
Interlenghi iniziò a lavorare con
la compagnia di Rina Morelli e Paolo
Stoppa, diretto da Visconti in “Morte di un commesso viaggiatore” (1951) Lo poi
ritroviamo, nello stesso anno, accanto a Gina Lollobrigida in “La provinciale” di Mario Soldati, applaudito al Festival di Cannes, e nel team di autorevoli stranieri: Joseph L. Mankiewicz (“La
contessa scalza”, 1954, con Ava Gardner, Humphrey Bogart e Rossano
Brazzi), Charles Vidor (“Addio alle armi”, 1957, con Rock Hudson),
Claude Autant-Lara (“La ragazza del peccato”, 1958 con Brigitte Bardot e
Jean Gabin).
Alla fine degli anni Cinquanta non rinunciò al momento d'oro della commedia
all'italiana, come nel caso di Padri e figli di Monicelli o Giovani
mariti di Bolognini, mentre si ritrovò con il Nel 1959 è di nuovo a fianco
del maestro De Sica, in un ruolo di rilievo
in “Il Generale Della Rovere” di Roberto Rossellini (film da rivalutare,
la cui seconda parte, vero e proprio ‘kammerspiel’ carcerario, è da manuale
registico)
Ironico nella vita, disincantato (ma impeccabile) nel lavoro, Interlenghi
coltivava la rara capacità di sapere 'sfottere' se stesso (pur non mancando di
autostima), di non mitizzare la sua 'meglio gioventù', di accettare con
sberleffo (e provocatorie burle) i segni e le inclemenze del tempo
"registrati" quasi con virtuosismo nelle pieghe del suo volto, del
suo corpo appesantito, in quello sguardo di giovanotto scanzonato che invechia
secondo natura - come tutti quelli "che non ci lasciano troppo presto, in
contropiede". Ed a lui invece, che amava la vita e l'amore (pur tra
sussulti e ubbie), piaceva prendersela comoda. Sobbalzare, ad esempio in diretta tv, come
per capriccio o ripicca di uomo solo, "Ho sessant'anni... embè! Mi sono
innamorato d'una trentenne e voglio risposarmi prima di rincoglionire".
Le figlie (Stella ed Antonellina) lo osservarono stranite, l'ex mogle Antonella
sbigottì, poi …non se ne seppe nulla (del matrimonio annunciato e forse
inventato). Personalmente conobbi Interlenghi una ventina d’anni fa – ai tempi
in cui le intermittenze del cuore mi scalpitavano tra bassa padana e medioevali
stradine estensi. Franco recitava al Comunale di Ferrara in una commedia
contemporanea francese (“Ritorno a Tourin” se ben ricordo), diretto dall’amico
Renato Giordano, a fianco della smagliante Laura Lattuada (cosa farà da
allora?) e del prim’attore ‘vezzoso’ Michele Placido. La serata, more solito,
finì in pizzeria e fui tra i pochissimo privilegiati a poter godere a distanza
ravvicinata di tutta la grazia e l’umorismo di cui era provvido questo defilato,
saturnino interprete. Probabilmente non dotato di possenti, poliedriche virtù
espressive, ma –proprio per quel suo modo impalpabile di scansare l’epiteto del
‘grande attore’- primeggiava per lievità e naturalezza. Fosse stato uno
strumento musicale, non un pianoforte ma una deliziosa mandola.
Ps Dagli anni settanta in poi, Interlenghi si dedicò per lo più alle scene e alla televisione (eccellente in combutta con Terence Hill per Don Matteo 4,). Sul grande schermo lo ritroviamo comunque nel western di Monte Hellman, Amore piombo e furore (1978), erotomane irresistibile ed occasionale in Miranda (1985) di Tinto Brass; e poi in Pummarò (1990) e Le amiche del cuore (1992), entrambi di Michele Placido. Le sue ultime apparizioni: in Romanzo criminale, ancora con Placido, nel 2005, in Notte prima degli esami - Oggi, diretto da Fausto Brizzi nel 2007, in Io, Don Giovanni di Saura (2009) e La bella società di Gian Paolo Cugno nel 2010.
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