Basta con la formula sbrigativa “…e gli uomini della scorta”
E’ arrivato il momento di darci un taglio. Va accantonato il vizio di alcuni giornalisti audio-televisivi, ma anche di testate della carta stampata, locali e regionali, siciliane e non solo, di uscirsene con la formula sbrigativa “e gli uomini della scorta”. Ci riferiamo ovviamente alle migliaia di volte in cui per motivi di cronaca e processuali nei servizi giornalistici si richiamano le stragi del 23 maggio 1992 di Capaci (in realtà, anche se solo per poche centinaia di metri, l’attentato avvenne in territorio del comune di Isola delle Femmine) e del 19 luglio 1992 di via D’Amelio a Palermo.
La formula, nove volte su dieci, per brevità e
spazio di righe o di secondi è sempre la stessa: “…l’attentato in cui perirono
il giudice Falcone, la moglie e gli uomini della scorta” e, allo stesso modo,
“…l’uccisione del giudice Borsellino e degli uomini della scorta”. Come se gli
uomini della scorta (e la donna; nel secondo attentato non dimentichiamoci che è
morta anche una donna poliziotto) non avessero un nome, un cognome, una storia,
una famiglia. O fossero lì a farsi ammazzare per caso.
Siamo prossimi a maggio. Ed è a maggio, in
particolare nella ricorrenza della strage di Capaci, che il meccanismo delle
celebrazioni comporta un più ricorrente richiamo mediatico alla giornata del 23
ed alle sue vittime. Lo stesso avviene a luglio con via D’Amelio. E quindi la
formula “e gli uomini della scorta” ridiventa più citata che in altri periodi dell’anno.
Come se fosse ineludibile, ineliminabile.
E invece no, non deve essere così.
Anche altri giudici ed ufficiali di polizia
sono stati uccisi dalla mafia assieme a poliziotti di scorta od autisti dei
quali nei tanti anniversari che si celebrano o inchieste giudiziarie che si
susseguono il pessimo giornalismo nostrano riesce a sorvolare su nome e
cognome.
Scrivere cinque cognomi occupa meno di una riga
di servizio scritto e quattro secondi di registrazione audio. E allora perché
tanta insipienza e superficialità per vittime di mafia a cui dobbiamo
riconoscenza e memoria, immolatesi per lavoro ad uno Stato inetto quando non
connivente nelle sue deviazioni istituzionali e funzionali? Con Giovanni
Falcone e la moglie Francesca Morvillo sono saltati in aria sull’autostrada i
poliziotti Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro mentre sono
sopravvissuti gli altri componenti della scorta Paolo Capuzzo, Angelo Corbo,
Gaspare Cervello e Giuseppe Costanza.
Meno di due mesi dopo in via D’Amelio con Paolo
Borsellino sono saltati in aria Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li
Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed è rimasto ferito Antonino Vullo.
Perché indicare i loro nomi e cognomi, se va
bene, solo nei decennali di queste tragiche ricorrenze e poi uscirsene sempre
con quello sbrigativo “…attentato in cui sono stati uccisi il giudice Giovanni
Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta”?
Indichiamoli sempre quando li citiamo per nome
e cognome o, se proprio si debbono guadagnare mezzo rigo o due secondi, con il
solo cognome. Ma non facciamo loro (e neppure a tanti altri loro colleghi morti
in attentati in cui sono stati bersagli e non, semplicisticamente, “vittime” o
“danni” o “effetti” collaterali) il torto – oltre a quello imperdonabile di
averli mandati allo sbaraglio a sacrificarsi – di metterli in un limbo anonimo
di indefinitezza.
Se i magistrati uccisi fanno parte della storia
di questa terra e dell’intero paese, se il loro massacro permette a tutti noi
di credere nel coraggio dell’”altra Sicilia” - quella che resiste alla piovra stragista
e alla mafia più in colletto bianco degli anni recenti - non permettiamo che
vadano invece nel dimenticatoio della storia, nelle sue pagine più nascoste,
coloro che si sono sacrificati accanto ai magistrati nel tentativo, purtroppo
vano, di proteggerli.
In un servizio di cronaca giudiziaria a
proposito dell’attentato di via D’Amelio speriamo di non dover leggere od
ascoltare più “…del giudice Borsellino e degli uomini della scorta” quanto
piuttosto e sempre “…del giudice Borsellino e dei componenti della scorta Loi,
Catalano, Cosina, Li Muli”.
Né loro né gli altri colleghi che hanno subìto la stessa sorte meritano una citazione indistinta, sommaria.
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