Atea, rivoluzionaria e femminista, la forza di Miss Marx figlia di Karl
Atea, materialista, protofemminista, rivoluzionaria, irriducibile. E’ il quadro che emerge, non privo di contraddizioni, di Eleonor Marx detta “Tussy”, figlia prediletta dell’autore del “Manifesto del Partito Comunista” e del “Capitale” Karl Marx, uno degli uomini che con il suo pensiero ha più influenzato i destini dell’umanità, con la sua fede incrollabile in un mondo nuovo libero dall’ingiustizia. “Miss Marx” (2020) della regista e documentarista romana Susanna Nicchiarelli, presentato in concorso alla 77.a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, mixa come in tutti i biopic tratti di vita pubblica e privata di Eleonor, strenuamente impegnata nella lotta, per il suffragio universale, l’emancipazione della classe operaia, delle donne e contro lo sfruttamento del lavoro minorile.
Unica tra le tre figlie del filosofo e teorico politico tedesco a raccogliere l’eredità del pensiero del padre, Eleonor vive un’esaltante stagione di lotte (si reca anche negli Stati Uniti per scrivere una pamphlet sulla condizione della classe operaia americana). Ma pur ideologicamente rivoluzionaria e per il tempo “scandalosamente” progressista e innovatrice, nella sfera privata si rivela contraddittoriamente conservatrice, accettando supinamente la relazione con un uomo fedifrago che – con una tipica finzione cinematografica – la Nicchiarelli fa credere agli spettatori ormai da lei non più sostenibile, con la denuncia della donna nel corso d’un pacato e lucido dialogo della presa di coscienza d’una condizione di minorità psicologica nei confronti del partner. Allargando lentamente il campo di ripresa si scopre invece che la conversazione è soltanto una finzione teatrale, un colloquio tratto da “Casa di bambola”, il celebre e sconvolgente lavoro del grande drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, nel quale i due si sono cimentati a beneficio di un pubblico di amici. Finzione come prolessi della mancata ribellione privata della donna.
Aiutata da immagini di repertorio, destoricizzata con un certo azzardo postmoderno dall’improvviso irrompere di brani hard-rock dei gruppi “Gatto ciliegia contro il grande freddo” e “Downtown Boys” - che fosforizzano l’indole ribelle della protagonista (in una sequenza si esibisce anche in una danza frenetica) - accompagnata da agitate irruzioni di pianoforte, l’opera si avvia quasi spegnendosi progressivamente verso l’inevitabile conclusione, il suicidio di Eleonor avvenuto nel 1898. Raffinatissima la scelta dei costumi e delle scenografie, pendant dell’eleganza compositiva dell’immagine e della intensa e partecipata prova dell’attrice britannica Romola Garai (nata a Hong Kong, allora colonia britannica, da genitori inglesi), qui nei panni di una delle protagoniste ottocentesche di quel lungo e controverso processo ancora in corso dell’emancipazione femminile e delle classi operaie.
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