Ambrosoli, la normalità del coraggio
Cultura | 11 luglio 2015
Una bambina palermitana torna a casa da scuola, dove le hanno raccontato la storia di
Libero Grassi. «Tu non lo paghi il pizzo, vero?», chiede al padre commerciante. «No, non lo
pago», risponde lui, pieno di vergogna. E da quel momento smette sul serio di farlo, aiutato
dalle associazioni antiracket. È solo una delle storie - anzi, un frammento di storia -
raccontate da Umberto Ambrosoli nel suo ultimo libro, che si intitola semplicemente
'Coraggio' (Il mulino, 112 pp., 12 euro) Una parola che per l'autore, avvocato penalista e consigliere regionale in Lombardia, designa un
moto del cuore, una virtù civile che ciascuno può esercitare nella quotidianità. Non è eroismo, non è spavalderia,
è l'arte di affrontare la paura. E non è affatto fuori moda, come potrebbe far pensare il titolo della collana del
Mulino, 'Parole controtempò, tutt'altro.
Il volumetto parte dal ricordo ineludibile del padre Giorgio, ucciso 36 anni fa - era la notte fra l'11 e il 12 luglio
del 1979 - da un sicario al soldo del faccendiere siciliano Michele Sindona, sulle cui attività Ambrosoli stava
indagando come commissario liquidatore della Banca privata italiana. Alla sua vicenda umana e professionale, il
figlio Umberto ha già dedicato 'Qualunque cosa succeda. Storia di un uomo liberò (Sironi 2009). Ora lo sguardo
si allarga ad altre figure del nostro tempo, che con responsabilità, consapevolezza e senso del dovere hanno
saputo opporsi alle minacce della malavita, alle pressioni di un sistema compiacente o addirittura colluso con
essa, all'assenza colpevole delle istituzioni.
«Il coraggio, uno, se non ce l'ha, mica se lo può dare», dice Don Abbondio nei 'Promessi Sposì. Ambrosoli ci
spiega che non è esattamente così, perchè la paura non è una condanna inappellabile e il suo contrario - il
coraggio appunto - «può crescere e maturare nel corso della vita, man mano che la storia personale di ciascuno
si arricchisce di esperienze e dati culturali». Di esempi, dunque: proprio come se ne trovano in queste pagine,
pescati fra nomi illustri - come quello di Tina Anselmi, di cui è riportata una riflessione sull'esperienza di
partigiana - e altri meno conosciuti, fra imprenditori, liberi professionisti, uomini di Chiesa. Gente normale, che
non aveva scelto un mestiere di quelli che di per sè comportano rischi alla propria incolumità, ma che a un certo
punto si è trovata davanti un'insidia e ha dovuto scegliere: «Resistere o ritirarsi, cioè annullare il senso del
proprio ruolo».
Quello che accomuna persone come Giuseppe De Masi, produttore di macchine agricole, l'avvocato Serafino
Famà, il sindaco di Monasterace (e futura ministra) Maria Carmela Lanzetta è appunto la scelta di resistere,
senza clamore, per se stessi ma anche in nome del senso di responsabilità verso i propri dipendenti, assistiti,
concittadini. E forse soprattutto verso la propria famiglia, come ci rivelano quel piccolo racconto del negoziante
siciliano e la stessa confidenza fatta da Giorgio Ambrosoli a un conoscente, poco prima di morire: «Non posso
insegnare ai miei figli a non fare, per paura, ciò che reputano giusto».
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