Addio senza rimpianti, ora bisogna riparare i danni
Non vogliamo aggiungere il nostro ai fiumi, anzi agli oceani, di inchiostro che in questi giorni stanno commentando la sconfitta di Donald Trump e l’elezione di Joe Biden a quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti.
Ci permettiamo solo due ragionamenti. Diretti, espliciti.
Il primo. Il mondo si è tolto dalle scatole uno dei protagonisti per i quali non sono probabilmente sufficienti i peggiori aggettivi del vocabolario: tronfio, vanesio, bugiardo (al punto di credere alle proprie bugie), presuntuoso, scontroso, divisivo, sprezzante, narcisista, arrogante, twittomane (patologico), anaffettivo, collerico, inaffidabile, vanaglorioso, borioso, misogino (attento solo alle qualità fisiche delle donne). L’elenco potrebbe continuare a lungo. Ha fatto all’America e al mondo con il “trumpismo” danni di cui pagheremo il conto per anni. Senza Trump il “sovranismo” non avrebbe beneficiato di un nume tutelare così visibile e così ad alto livello. Senza Trump l’America e gli americani sarebbero stati meno “cattivi”, il paese meno spaccato. E’ stato assieme al suo speculare “compare” di Mosca, Vladimir Putin, il più convinto nemico dell’Unione Europea. E’ stato il padrino d’oltreoceano della “Brexit” che ora il suo orfanello premier del Regno Unito Boris Johnson dovrà gestirsi da solo. Ha considerato sistematicamente gli alleati europei poco più di pezze di stoffa per pulirsi le scarpe. Ha messo in guardia con avvertimenti ricattatori i paesi europei dal tassare i colossali proventi che le multinazionali dell’informatica e dell’e-commerce americane realizzano nel Vecchio Continente pagando imposte ladrescamente irrisorie. Ha disseminato di ogni balzello, barriera d’entrata, dazio possibile ed immaginabile l’import americano, alimentando inevitabili misure ritorsive che hanno finito per fare aumentare i prezzi, arroccare posizioni, “chiudere” i mercati internazionali. Ha contrastato l’ascesa della Cina in campo economico, strategico e geopolitico ma mettendo il mondo a rischio di una galoppante tensione che potrebbe sfociare in scontro militare aperto con l’altro impero, quello cinese. Come gli Usa di Trump la Cina vive per il denaro e di denaro, senza alcuno slancio ideale che non siano business e affari. La Cina va punita per essere il paese che con imperdonabile leggerezza – sicuramente colposa, non premeditata o dolosa – ha “regalato” al mondo la pandemia del Covid-19. Ma va punita non scatenando la Terza Guerra Mondiale. Semmai va ridimensionata approfittando del trend che vede crescere nel pianeta a vista d’occhio i mugugni nei suoi confronti. Va ridimensionata con una incalzante strategia di isolamento commerciale ed economico. Che faccia capire al non meno presuntuoso dittatore di Pechino Xi Jinping che la Cina non può per superficialità innescare disastri come quello che attraversiamo, scatenare danni sociali ed economici incalcolabili, far piangere milioni di morti in tutti i continenti e, come se nulla fosse, continuare a fare finta di niente, continuare a trafficare impunemente.
Donald Trump ha zigzagato nella lotta contro il terrorismo islamico con infamanti retromarce in Siria che hanno esposto sul terreno fazioni sino al giorno prima alleate degli Usa. L’America di Trump è uscita dagli accordi sul nucleare iraniano. Da quelli sul clima di Parigi. E’ uscita dall’Unesco. E’ persino uscita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in piena pandemia in corso.
Trump ha soffiato sul fuoco del razzismo endemico negli Usa e delle sbrigative, assassine pratiche delle polizie locali in particolare nei confronti degli afroamericani. Ha fatto del possesso personale delle armi – con pistole e fucili d’assalto di tutte le forme e di tutti i calibri esibiti dappertutto come se fossimo tornati ai tempi della frontiera e del west - l’unico credo religioso di gran parte degli statunitensi. Ha smontato ogni riforma, anche la più timida, di sanità pubblica e territoriale a beneficio delle famiglie e delle classi più deboli, e sempre più povere, del paese. Ha trasferito l’ambasciata degli Stati Uniti in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Non esiste una spiegazione politica convincente, razionale. Solo per alimentare tensione e gettare benzina sul fuoco delle fin troppe divisioni e dei fin troppi motivi di esplosione nella polveriera mediorientale. Ha negato l’evidenza e non solo la catastrofica gravità d’una pandemia che in nessun altro paese del mondo è stata e continua ad essere così devastante come negli Stati Uniti.
A Trump riconosciamo un solo merito: la cosiddetta “pace di Abramo”, i recenti accordi per l’avvio di rapporti diplomatici ed economici tra Israele ed alcuni paesi del Golfo arabico. Accordi anche in chiave anti-iraniana. Più merito del genero per la verità – Jared Kushner, il marito della figlia Ivanka, ebreo americano – che merito suo. E va oggettivamente riconosciuto che nei quattro anni del suo mandato l’economia degli Usa ha saputo reagire e recuperare meglio di tante altre occidentali nella risalita dalla crisi economica globale che gli Stati Uniti - esattamente come ha poi fatto nel 2019-2020 la Cina con il Covid-19 - avevano propinato al mondo nel 2007-2008.
Secondo concetto. Con “nonno” Joseph Robinette Biden Jr. (il più anziano presidente della storia americana: 78 anni tra pochi giorni, il 20 novembre) andranno alla Casa Bianca (di fatto è un ritorno) la moglie Jill Tracy Jacobs e la cinquantaseienne vicepresidente Kamala Harris.
La “First Lady” porta ai piani alti della Casa Bianca un piccolo ritaglio di Sicilia. Come è stato abbondantemente ricostruito in questi giorni, il bisnonno Placido Giacoppo emigrò negli Stati Uniti negli ultimi anni del XIX secolo da Gesso, una frazione di Messina che conta adesso circa cinquecento abitanti. Appena qualche anno dopo, nel 1900, Placido richiamò in America la famiglia e venne raggiunto con il piroscafo in partenza da Napoli dalla moglie Angela e dai figli Antonio, Natalina, Giovannina e Domenico. Quest’ultimo, nato nel 1898, altri non è che il nonno della Jacobs. Consapevoli delle discriminazioni ai danni degli immigrati i Giacoppo americanizzarono il cognome in Jacobs. Domenico Giacoppo, da Locanda, località a due chilometri da Gesso, divenne così Dominic Jacobs. Secondo una ricostruzione che contesta la precedente, invece, i Giacoppo-Jacobs apparterrebbero ad un altro nucleo familiare con cognome Giacoppo e sarebbero originari non di Gesso ma di Castanea, frazione peloritana non lontana da Gesso.
La nuova “First Lady” – che è stata durante gli otto anni della presidenza Obama “Second Lady” in quanto moglie del vicepresidente Biden – ha conseguito due lauree e un master, è professoressa di Inglese e sembra intenzionata a continuare ad insegnare, come ha fatto durante la vicepresidenza di Biden con Obama. E’ la seconda moglie del neopresidente. La prima, Neilla, assieme alla figlioletta di un anno Naomi Christina, era morta trentenne in un terribile incidente stradale nel 1972, quando Biden, anche lui appena trentenne, era stato eletto per la prima volta senatore. Biden, lo ricordiamo, ha lontane origini irlandesi che ne spiegano anche la confessione cattolica.
Jill Jacobs è evidentemente meno appariscente di Melania Trump, per quanto porti molto bene i suoi 69 anni. Ma di sicuro sarà più vera, meno “statuina” o cagnolina al guinzaglio, come a volte in tante immagini che abbiamo visto il marito sembrava ridurre l’avvenente, accigliata ex modella slovena. A proposito di immagini. In migliaia di filmati in tv o sui social avete mai colto un incontro di sguardi tra l’attempato marito-padrone Donald e l’algida Melania? Avete mai colto una carezza, uno sguardo d’amore, di complicità? Sono in tanti a scommettere che, fatte le valigie alla Casa Bianca, i coniugi Trump (esatto contrario dell’affiatata coppia Obama) finiranno la commedia pro-telecamere di stare assieme e divorzieranno. Da sostanziali separati in casa quali sono stati in questi quattro anni a separati a tutti gli effetti. Vedremo se queste previsioni si avvereranno.
La vicepresidente Kamala Harris è invece figlia di un giamaicano e di una asiatica, un indiana. La madre della Harris è emigrata negli Usa a 19 anni.
C’è quasi una nemesi storica o, se preferite, una legge del contrappasso in queste nuove presenze alla Casa Bianca. Diventano inquiline delle stanze abitate per quattro anni da Trump – ossia da uno che non ha mai capito che gli immigrati non sono esseri umani di serie B e che li ha combattuti con scelte scriteriate e muri, mentali prima che di cemento armato – figlie e nipoti di immigrati. Il “sogno americano” sarà tale finchè una persona, specie se di colore, figlia di immigranti – come Obama o la Harris – avrà la possibilità, partendo dal più anonimo e degradato dei sobborghi, di arrivare fino allo Studio Ovale della Casa Bianca. Con buona pace di tutti i Trump e gli emuli di Trump di questo mondo.
Per milioni e milioni di individui nel mondo, per chi (come il sottoscritto, nipote di un nonno materno emigrato da solo appena diciassettenne nel 1908 per alcuni anni in Argentina) intercetta nel proprio albero genealogico la parola “emigrato” o “immigrato”, si tratta di una straordinaria rivincita, di una gran bella soddisfazione. In barba a Donald Trump e ai suoi miserevoli tentativi di ricorsi e insabbiamenti del voto delle presidenziali del 3 novembre. Degni di chi non ha mai avuto neppure l’idea di cosa significhi garantire dignità e approccio istituzionale al proprio ruolo. Anche quando, sconfitti, si è costretti a lasciarlo.
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