A trent’anni dal maxiprocesso … Una storia attuale

Società | 15 maggio 2016
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Il 10 febbraio 1986, dinanzi alla 1^ Sezione della Corte di Assise di Palermo presieduta da Alfonso Giordano, prende avvio il dibattimento del processo a carico di Abbate Giovanni + 474, che passerà alla storia come il “maxiprocesso” alla mafia.

I quaranta volumi e le 8.607 pagine dell’ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio depositata dai magistrati dell’Ufficio Istruzione del capoluogo siciliano disegnano un quadro organico di Cosa Nostra, descrivendone l’evoluzione, l’ordinamento interno, i traffici illeciti e i diversi episodi criminali che l’hanno vista protagonista negli anni della sanguinosa seconda guerra di mafia.

Oltre a individuare i vertici dell’organizzazione, la monumentale tesi accusatoria inquadra per la prima volta gli eventi oggetto del processo nell’ambito di un’unica strategia criminale, condotta da un’organizzazione a struttura unitaria e verticistica e dotata di un sistema di regole e di competenze rigidamente formalizzato, un vero e proprio sistema di potere. La ricostruzione dell’organigramma mafioso, l’individuazione dei ruoli e delle funzioni attribuite ai diversi livelli di comando e di controllo della sua piramide gerarchica, sono rese possibili grazie al contributo dei collaboratori di giustizia e alla copiosa mole di investigazioni patrimoniali e bancarie che vi fanno da riscontro. Le dure condanne, rese definitive dalla Sentenza della Corte di Cassazione del 30 gennaio 1992, sono la prova dell’efficacia del “metodo Falcone”, della proficuità della “pista dei soldi”, dell’esigenza di coordinare le indagini in pool specializzati.

Cosa Nostra – colpita nel vivo dei suoi interessi – reagisce con una violenza inaudita, inaugurando una nuova stagione di stragi e di omicidi. Il primo a cadere è Salvo Lima, ex sindaco democristiano luogotenente di Giulio Andreotti in Sicilia. Ma la scia di sangue travolge immediatamente dopo anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che del maxiprocesso erano stata l’anima, con spettacolari attentati le cui responsabilità sono ancora oggi non del tutto chiarite. E dalla Sicilia le stragi si trasferiscono sul continente italiano, colpendo Roma, Firenze e Milano, facendo vittime innocenti e provocando enormi danni al patrimonio artistico culturale.

In molti dentro Cosa Nostra avvertono l’anomalia di questo procedere, ritenuto poco consono alla tradizione mafiosa. “Questi morti non ci appartengono”, si lamenta Gaspare Spatuzza con il suo capo, Giuseppe Graviano. Metodi e finalità definite dagli uomini d’onore “terroristiche” chiedono spiegazioni e interrogano su personaggi estranei al contesto mafioso …

I processi che indagano sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio procedono con difficoltà. Le verità giudiziarie, faticosamente acquisite, mostrano sensibili lacune. Chiariscono parzialmente il quadro di analisi; individuano singole responsabilità, spesso coincidenti con quelle degli esecutori materiali di specifici fatti criminosi, ma non riescono a spiegare i contesti entro cui maturano gli episodi, a fornire risposte a interrogativi fuori dai richiami al codice. Talvolta, non riescono a trovare capi di accusa idonei a colpire comportamenti dannosi, che tuttavia non configurano alcuna forma reato; infine, per quanto individuino legami tra singoli comportamenti illeciti, difficilmente riescono a perseguire il più ampio “sistema criminale”.

In questo contesto, nell’ottobre del 2011, la Procura Generale di Caltanissetta chiede la parziale revisione del processo cd. “Borsellino ter” e la revisione completa dei processi cd. “Borsellino uno” e “Borsellino bis” per le verificate pressioni, da parte di importanti soggetti delle istituzioni, su alcuni collaboratori di giustizia perché fornissero versioni non veritiere dell'accaduto, autoaccusandosi di crimini non commessi.

Tra i falsi collaboratori figura Vincenzo Scarantino, la cui finta confessione – attribuendo l'esecuzione della strage di via D'Amelio alla famiglia mafiosa di Porta Nuova – ha mantenuto nell'ombra il ruolo svolto dai fratelli Graviano. Una nuova versione di quei fatti emerge a partire dal giugno del 2008, quando Gaspare Spatuzza inizia il suo percorso di collaborazione, avviando una rilettura della strage di via d’Amelio che fa crollare consolidate verità giudiziarie, provocando la revoca di undici provvedimenti di condanna, tra cui anche sette ergastoli.

Ne escono malconci importanti funzionari dello Stato su cui aleggia il sospetto di una gestione poco trasparente delle indagini. Si ripropone in sede processuale il sospetto di “presenze esterne” a Cosa Nostra. Numerosi interrogativi rimangono insoluti. Chi ha depistato? Chi ha creato falsi pentiti e imbastito false ricostruzioni? E i magistrati che dirigevano le indagini erano consapevoli della “fragilità” della pista investigativa loro sottoposta? Parte delle risposte a questi quesiti sono affidate alle nuove indagini della Procura di Caltanissetta sul ruolo giocato dal vertice della famiglia mafiosa del quartiere Brancaccio di Palermo, all’epoca occupato dai fratelli Graviano.

Ma insieme alle verità giudiziarie, necessariamente parziali e ritagliate sui limitati e rigidi confini del codice penale, il mondo della ricerca, della politica e dell’economia come anche la società civile sono chiamati ad assumere ciascuno le proprie responsabilità per far luce sui tanti buchi neri ancora presenti.

«Uno storico ha il diritto di scorgere un problema dove un giudice deciderebbe un non luogo a procedere», ha scritto Carlo Ginzburg. Così, tornare a riflettere oggi sul maxiprocesso, recuperandone la memoria attraverso le testimonianze dei protagonisti, è insieme un’assunzione di responsabilità, un dovere civico, una pratica di onestà intellettuale per lo studioso, chiamato a interrogarsi su contesti criminali mutati ma le cui radici erano già ben visibili trent’anni fa.

Lo scenario che ci si presenta oggi vede l’incontro tra criminalità organizzata e sistema economico ‘ufficiale’ non tanto come uno scambio tra entità differenti, ma come l’unione tra due mondi che procedono in una partnership sintonica, ponendosi al di fuori o al confine delle regole stabilite, talvolta modificando le norme esistenti per adattarle ai propri affari, tal’altra impedendo che si attui il processo normativo, grazie al potere politico di cui dispongono. Cosa Nostra diffonde i modelli di azione tipici del “metodo mafioso” in nuovi settori imprenditoriali e ambiti sociali; mette a disposizione dei suoi partner le risorse di violenza e il capitale sociale di cui è in possesso, acquisendo a sua volta, un nuovo “modus operandi”, affinando le sue competenze attraverso la frequentazione diretta e continuata con la criminalità dei colletti bianchi, assimilando le tecniche di quella “devianza integrata” tipica dell’agire imprenditoriale fondato su “doti” di intraprendenza, spregiudicatezza e innovazione, specularmente complementari al metodo mafioso.

È, dunque, sul network criminale, sulle specificità del “crimine dei potenti” (immancabili protagonisti di queste “reti criminogene”), sul “metodo mafioso” spesso da loro utilizzato, pur con le sfumature e gli adattamenti di volta in volta richiesti dalla situazione, che occorre soffermare la riflessione. Mettendo insieme analisi e dimensione operativa, ricerca e attività sul campo, attivando in modo organizzato tutte le risorse disponibili e partendo dallo studio e dalla ricerca di nuovi paradigmi.

Da qui il progetto di realizzare una giornata di studio su questi temi insieme agli studenti e al coordinatore del Master in "Analisi Prevenzione e Contrasto della Criminalità Organizzata e della Corruzione” dell’Università di Pisa, Alberto Vannucci,  insieme a don Luigi Ciotti, fondatore e animatore di Libera che del Master è partner. Con loro, da tempo è in corso una importante attività di collaborazione che desideriamo rafforzare in un percorso formativo coordinato, che coinvolga gli organi di informazione e le forze dell’ordine, la magistratura e tutti i soggetti impegnati nella difesa del diritto e della giustizia sociale. Un intervento sistemico e unitario, come sistematico è l’agire criminale; una direzione di azione coordinata verso la quale il maxiprocesso a Cosa nostra, già trent’anni fa aveva chiaramente esortato a guardare.

 di Alessandra Dino

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