Vito Lo Monaco: “La mafia si è trasformata da classe servente a classe dirigente”

L'analisi | 22 gennaio 2023
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Intervista di Gioacchino Amato 

Vito Lo Monaco, una carriera da dirigente del Partito Comunista, presidente del centro studi “Pio La Torre”, ci risponde mentre organizza la marcia antimafia prevista a Casteldaccia il 24 febbraio, quarant’anni dopo quella del 26 febbraio del 1983.
È cambiato molto da allora?
«Fu un’idea mia e di padre Cosimo Scordato, il diavolo e l’acqua santa. La mafia uccideva due persone al giorno fra Altavilla, Casteldaccia e Bagheria, lo chiamavano “il triangolo della morte”. Mi ricordo che c’era Rocco Chinnici, c’era molta gente. Pochi parlavano ma c’erano».
Adesso la mafia non spara più.
«Usa il computer e l’alta finanza. Ma il rapporto con le istituzioni e la politica è lo stesso. La regola secondo la quale la mafia può esistere solo con la protezione della politica rimane intatta. Come quella dei rapporti con la finanza, gli imprenditori, i professionisti. I 400 miliardi di euro di fatturato ricavato solo dalla droga non possono che passare dalle banche, dalle imprese, per diventare puliti».
Con le stesse complicità di sempre?

«Peggio, la mafia da braccio armato di politica e imprenditoria collusa si è fatta essa stessa classe politica e imprenditoriale. Non significa che sia tutto mafia ma Cosa nostra da classe servente si è trasformata in classe dirigente».
C’è stato anche un ricambio generazionale?
«Certamente e adesso i mafiosi non sono i contadini di provincia ma i laureati alla Bocconi o all’estero. Un modello che la mafia ha esportato anche in Messico o in Colombia. E non sono solo in Sicilia o nelle istituzioni italiane. Stanno in Europa, seguendo gli affari sempre più transnazionali e contro i quali diventa urgente un 416 bis europeo. I mafiosi credo ormai non siano neanche solo italiani».
Ma il radicamento nel territorio, in Sicilia rimane fondamentale?
«Ancora più importante, perché consente di controllare il consenso e intimidire in maniera più incisiva. In modo da riuscire ad impadronirsi dei centri di spesa dei Comuni e delle Regioni. Sanità, servizi locali, rifiuti, cimiteri sono tanti tesori che spesso la mafia riesce a gestire a volte esprimendo indirettamente il sindaco o altri amministratori».
Cosa nostra ha sposato la devolution?
«La sfrutta abilmente, riesce a infiltrarsi pericolosamente nei gangli della democrazia e dell’economia.
Per questo non si può sostenere comealcuni politici milanesi che non importa sapere da dove vengono i soldi di chi investe in Lombardia. E non si può pensare a una stretta alle intercettazioni per i reati di corruzione che sono anello di congiunzione e brodo di coltura del rapporto fra mafia, politica e affari.Messina Denaro stava in Sicilia ma volava in Venezuela, la mafia ha affari internazionali ma durante la pandemia nelle città e dei paesi siciliani sono spuntati i sacchi di spesa regalati dai boss, il welfare mafioso».
Ci vogliono leggi più severe?
«A livello europeo sicuramente, in Italia le leggi ci sono, a iniziare dalla “Rognoni-La Torre” che ha inferto colpi durissimi alla mafia. Bisogna applicarle e in questo la classe dirigente di centrodestra e di centrosinistra è, diciamo, disattenta. Manca la volontà politica come dimostra il fatto che non si è ancora insediata la Commissione nazionale Antimafia e che quella regionale non ha ancora iniziato a lavorare».
Le norme antiriciclaggio bastano?
«Mi pare che non sempre vengano applicate. Se io o lei compriamo una casa ci chiedono da dove abbiamo preso i soldi. Nel caso del prestanome di Messina Denaro mi sembra che ciò non sia avvenuto. Che ci siano complicità nel mercato finanziario è fuori di dubbio. Fino ad oggi quanto è emerso dell’economia illegale? Molto poco. È evidente che non si vuole fare pulizia».
Un quadro con poche speranze, non le pare?
«Non è retorica, la Sicilia è cambiata e la vera risorsa sono i giovani che si impegnano con forza nel sociale. Ma sono lontani dalla politica per colpa di partiti diventati comitati elettorali che vivono di slogan e immagine. E che troppo spesso finiscono per difendere chi le leggi non le rispetta».(La Repubblica)



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