«Solo dopo aver fatto il giro del mondo, ho capito che si viaggia per capire meglio da dove si parte»

Cultura | 5 luglio 2023
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Tempo di bilanci per il fotografo Ferdinando Scianna. oggi taglia il traguardo dei suoi ottanta anni. Li festeggia con la mostra “Ti ricordo, Sicilia” curata da Alberto Bianda e Paola Bregna. Ottanta immagini fotografiche, come i suoi anni, esposte nelle sale del castello Ursino di Catania fino al 28 ottobre.
«Citando il buon Walter Benjamin, solo dopo aver fatto il giro il mondo, ho capito che si viaggia per capire meglio da dove si parte». Sintetizza Ferdinando Scianna che, come tutti i grandi autori, è personaggio autentico. Il vocione tonante, la risata solenne, gli occhi chiari e il volto antico. Una carriera gravida di successi, quella del fotografo siciliano, primo italiano nel 1982 ad essere ammesso nella mitica agenzia Magnum Photos.

Un’età che rappresenta un traguardo meraviglioso.
«Ottanta anni non sono una bella cosa. Incredibilmente, non so nemmeno come, ci sono arrivato. Una magnifica avventura di vita. Mi ha consentito di realizzare quanto sia stato prezioso il luogo del mio scontro e del mio riscontro: Bagheria. Il paese che, emozionalmente, mi ha determinato nel corso della mia infanzia».

Bagheria è anche la città di Giuseppe Tornatore e Renato Guttuso.
«Un posto curioso, dove c’erano anche cose orribili ma che ha prodotto tanti personaggi formidabili: Peppuccio Tornatore, Ignazio Buttitta, Renato Guttuso. Tornatore è più giovane di me di tredici anni. Il nostro è stato un rapporto artistico bizzarro. L’ho conosciuto grazie a un fotografo del mio paese che si chiamava Pintacuda. Un giorno mi chiese di guardare le foto di un ragazzo che, secondo lui, aveva occhio. Fu il personaggio che ispirò il proiezionista Alfredo nel film “Nuovo Cinema Paradiso”. In quel film c’è tutto il mio mondo. Quando l’ho rivisto ho ritrovato anche il rimando al mio primo amore adolescenziale, si chiamava Clorinda. Come l’amore impossibile del giovane protagonista della pellicola. Il cinema era una sorta di malattia per noi giovani del paese. Proprio come se quei sogni si proiettassero non solo sullo schermo ma si trasferissero nelle teste di noi spettatori. Qualche anno fa per raccontare questo strano paese, con Tornatore abbiamo scritto il libro “Baaria-Bagheria”. Una sorta di meditazione a quattro mani sul cinema, la fotografia e sul quel luogo eccentrico che ci accomuna. Quella magia l’ho percepita quando sono andato a visitare il set del film Baaria che Peppuccio stava girando in Tunisia. Paradossalmente, in quel luogo di finzione, ho ritrovato l’autenticità che non esiste più. Un altro baariota autore di sogni è stato il pittore Renato Guttuso, personaggio unico. Le nostre vite si sono incrociate quando ero ragazzo. Poi lui partì per Roma. L’ho poi ritrovato grazie a Leonardo Sciascia. L’ho fotografato nella sua villa di Velate, a Roma, a Palermo. Quando sono partito da Bagheria, ho portato con me una piccola cassetta di legno. Conteneva i negativi dei miei primi lavori. È rimasta chiusa per trenta anni. Dopo tanti anni, aperto quel vaso di Pandora, sono riemerse le immagini che avevo catturato come pervaso da una sorta di furore. Dunque Bagheria è per me una cassapanca dalla quale continuare ad attingere ricordi».

Suo padre non accettò la sua scelta di fare il fotografo.
«Mio padre era l’ultimo discendente di una famiglia agiata che aveva collezionato disastri. Il primo era stato il bisnonno Giacinto, rovinato dall’arrivo di Garibaldi. Il nostro passato ricco fu spazzato dalla peronospora, una malattia che distrusse il vigneto di famiglia e travolse tutto il nostro benessere. Papà fu deluso dalla mia decisione di fare il fotografo. Sperava facessi l’avvocato o l’ingegnere. Mi disse: “Ma che mestiere è? I fotografi ammazzano i vivi e resuscitano i morti”. Il riferimento era a Coglitore, il fotografo del paese. Quando fotografava i morti, tratteggiava gli occhi ritoccando le lastre. Un trucco per far sembrare fossero ancora in vita. Nel 1961 mi sono iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo. Ho avuto la fortuna di incontrare Cesare Brandi, il primo personaggio che mi ha cambiato la vita. Stringemmo subito una grande amicizia. Proprio qualche giorno fa, mia sorella mi ha mostrato un bellissimo ritratto a matita che lui mi aveva dedicato. Quando gli comunicai che stavo per lasciare la Sicilia mi trattò peggio di come aveva fatto mio padre”.

Il suo rapporto con Sciascia è stato fondante.
«È stato un angelo paterno che mi ha totalmente cambiato la vita. Mi ha fatto scoprire lui il senso di quello che avevo cominciato a fare. Disse che le mie foto erano il racconto di vita. È stato un maestro, un padre, qualche volta un finanziatore. Quando l’ho conosciuto nel 1963 lui frequentava l’archivio di Palermo. Stava lavorando al suo libro “Morte dell’inquisitore”. A farmelo conoscere fu il professore Vincenzo D’Alessandro, uno storico che lo aveva invitato a pranzo a Bagheria. Gli fece visitare la mia mostra ospitata nel circolo di cultura. Il 16 agosto del 1965 decisi di andare a trovarlo. Non fu facile trovare la contrada Noce di Racalmuto. Lo trovai in quella casa di campagna fatta di gesso. Era un luogo tolstojano, senza acqua e senza elettricità. Avevo 21 anni. Mi presentai a Sciascia portandomi dietro un’enciclopedia di ignoranza. Decidemmo di pubblicare il libro decisivo per me “Feste religiose in Sicilia”. La prima presentazione del libro la organizzò Giampiero Mughini a Catania. Fu un autentico disastro. Il quotidiano della Santa Sede “L’Osservatore Romano”, stroncò il libro. Fiorirono polemiche aspre e dure. L’anno successivo ci assegnarono il premio Nadar. L’ultima volta che lo vidi fu a Milano nel novembre del 1989. La sua malattia lo aveva ormai minato irrimediabilmente. Dopo ventisei anni di amicizia mi chiese, per la prima volta, di fargli un ritratto. Non era mai accaduto. Gli avevo sempre scattato migliaia di foto, spesso non pubblicate, come una sorta di album di famiglia. La sua fu una richiesta atroce. Come l’ultimo desiderio di un condannato a morte. Aveva i capelli corti e uno sguardo indefinibile. Ho vissuto la sua morte in maniera nevrotica. Come una sorta di rancore per l’abbandono. Non gli perdonavo l’unica cosa terribile che mi aveva fatto. Con lui avevo condiviso ogni dubbio, le gioie, i dolori e i momenti belli. A Milano, in quegli ultimi giorni di degenza, andavo a trovarlo tre volte al giorno. Assistevo alla sua morte come a quella di un padre».

La sua seconda città è stata Milano.
«Nel 1967 decisi di partire per Milano. Città dove ho incrociato una moltitudine di personaggi straordinari. Mia moglie dice che posseggo una rara capacità di intercettare persone di talento in grado di cambiarmi la vita e di legarmi a loro. A Milano ho realizzato inizialmente la condizione dello straniero, del migrante. Avevo lasciato la mia terra. Ne arrivavano tanti di “stranieri”. Un pomeriggio del 1968, in compagnia dello scrittore Vincenzo Consolo, siamo andati alla stazione centrale di Milano. Attendevamo l’arrivo del treno che portava gli esuli in fuga dal terremoto del Belìce. Pubblicammo un reportage su una rivista che si chiamava “L’Italia Illustrata”. Tutti quegli esuli, compreso me, si sono presto sentiti parte di una città che era il luogo geometrico di tutte le regioni d’Italia. A Milano mi accolsero nella redazione dell’Europeo. Un luogo dove ho imparato a fare quello che sognavo di fare, fotografare».

Ancora una città a segnarle il destino, Parigi.
«Nel 1974 Tommaso Giglio, direttore dell’Europeo, mi spedì a Parigi per seguire le elezioni del presidente Giscard d’Estaing. Doveva essere una cosa temporanea. Sono rimasto a Parigi per dieci anni come corrispondente del settimanale. Ho poi cominciato a scrivere per Le Quinzaine Letteraire e Le Monde Diplomatique. A Parigi ho incrociato un altro maestro, Henry Cartier Bresson. Da lui ho imparato a essere testimone invisibile. Diceva che io possedevo l’occhio del pittore. In verità ero strabico: un occhio rivolto alla fotografia, l’altro alla letteratura. Il vero pittore era lui. Mestiere che aveva esercitato prima di iniziare a fotografare e che riprese quando smise di scattare. Mi considero un reporter. Il più grande è stato Ryszard Kapuściński. Sono ammirato dalla sua capacità di scrittura che è ancora più potente della sua fotografia».

Il mondo della Fotografia sembra giunto alla fine di un percorso.
«L’Italia ha un atteggiamento provinciale e colpevolmente distratto nei confronti della fotografia. Al contrario della Francia. Lo stato francese valorizza i suoi autori come un vanto nazionale. Borges diceva che, per fortuna, gli scrittori venivano trattati male, solo così potevano licenziare capolavori motivati. Anche i fotografi italiani hanno questo privilegio, essere ignorati dalle istituzioni. Ma se un giorno si vorrà capire l’Italia degli ultimi settanta anni si dovranno scrutare con attenzione le fotografie di Gianni Berengo-Gardin. Per quanto mi riguarda al mio archivio ci penseranno quelli che restano».

Paolo Monti ammoniva che le fotografie si fanno con i piedi.
«Si, le foto si vanno a cercare. E siccome mi fanno male i piedi, non fotografo più e scrivo. La fotografia è stata la prima invenzione dell’uomo che produceva cose che non si erano mai viste. Testimoniavano memoria in maniera inedita. Adesso, probabilmente, è tramontato il ruolo della fotografia. Ogni giorno si producono più immagini del giorno prima. Miliardi di fotografie ma nessuno possiede più un album di famiglia. Si tratta di invenzioni prodigiose. Ma non esisterà mai un’intelligenza artificiale in grado di eguagliare le emozioni poetiche di Leopardi, la potenza pittorica di Leonardo, la delizia armoniosa di Mozart. Gli uomini non smetteranno mai di dare forma ai sogni».

La questione del bianco e nero nella fotografia tiene sempre banco.
«Io penso sempre in bianco e nero. Inizialmente non riuscivano a produrre immagini a colori. Paradossalmente quella limitazione ha amplificato la potenza espressiva di quei toni infiniti di grigi e neri. Articolazioni che riescono a descrivere magie di colori altrimenti inenarrabili. Come hanno fatto per secoli le incisioni di Rembrandt o i disegni di Donatello. Quel bianco e nero, ancora oggi, ha una capacità di astrazione che il colore non può eguagliare. Per questo le foto concettuali sono incomprensibili, perché pretendono di essere ammirate alla stregua di un quadro. Il fotografo non è un artista. È solo un interprete della realtà».

Tra i tanti scenari della sua carriera anche quello della moda.
«Tutto è cominciato con un equivoco divertente. Domenico Dolce e Stefano Gabbana, erano esordienti di talento. Vennero a trovarmi e mi mostrarono una serie di fotografie. Chiedevano un lavoro come quello. Solo che quelle immagini non erano le mie, erano di un altro autore. Sorridemmo divertiti. Accettai la sfida di occuparmi di moda, proprio perché mi divertiva. Partimmo alla volta della Sicilia a bordo di una Volvo station wagon piena di abiti. Con noi la modella olandese Marpessa Hennink. Fotografai quegli abiti come sapevo fare, da reporter. Scatti che intrappolarono uno stormo di scolari che uscivano da una scuola siciliana, la modella attorniata da una serie di signore di nero vestita, la quotidianità dei vicoli di Palermo. Fu un successo clamoroso, inaspettato. Era proprio la Sicilia che i due stilisti volevano raccontare con i loro abiti».


Tra le mitologie legate al suo personaggio anche quella del suo proverbiale caratteraccio.
«Purtroppo non è più così. Sono anni che il mio amico Berengo Gardin dice che mi sto rammollendo. Io gli chiedo di non farlo sapere in giro. È stata una corazza che mi ha protetto da una serie di rompiscatole. La verità è che chiunque possegga un minimo di carattere viene subito etichettato come malo carattere».

Che ruolo ha avuto la sua famiglia nella sua carriera?
«Ho tre figlie nate da due matrimoni: Fernanda, Francesca ed Eleonora. Hanno sofferto per un padre che non c’era mai. Due di loro non hanno voluto avere niente a che fare con la fotografia. Solo la più piccola si occupa di Storia dell’Arte. Il vero motore di questa avventura è stata mia moglie, Paola Bregna. Galeotta fu la fotografia. Lei si occupava della rivista “Photo” e di un’agenzia fotografica. Per fortuna c’è lei. È lei che ha curato la grande mostra milanese di palazzo Reale nel 2022. Abbiamo un rapporto formidabile e meraviglioso. Ho pubblicato quasi cento libri tutti meditati e discussi con lei».

Progetti futuri?
«Gioco ancora con le mie figurine. Per festeggiare questi ottanta anni, mi sono regalato tre nuovi libri che usciranno nei prossimi mesi. Visto che i miei piedi non mi consentono più di fare fotografie, scrivo».

A ottanta anni ha paura della morte?
«Sono sopravvissuto a molte malattie. Lo scorso anno, prima della mostra a palazzo Reale a Milano, c’ero quasi riuscito. Ma alla fine non è accaduto. Non ho assolutamente paura della morte. Dall’Homo Sapiens fino ad oggi, una cinquantina di miliardi di individui si sono avvicendati su questo pianeta. Tutti morti. Tranne i loro sogni».
 di Concetto Prestifilippo

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