“Siamo al capolinea”, così Totò Riina aprì la stagione delle stragi

Reportage | 21 marzo 2024
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"Ora è arrivato il momento in cui ognuno di noi si deve assumere le sue responsabilità". Così Totò Riina avrebbe esordito alla riunione della commissione mafiosa che, attorno al 13 dicembre 1991, dava avvio all’organizzazione delle stragi. Una stagione di terrorismo mafioso che non nasceva all’indomani della sentenza della Cassazione sul maxiprocesso di Palermo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma quasi un mese e mezzo prima.
"Cosa nostra aveva antenne ben addentrate nelle istituzioni – hanno sostenuto i magistrati di Caltanissetta – per riuscire a capire, ancora prima, che la decisione finale di quel processo sarebbe stata a sé contraria". Una sentenza che non solo minava l'esistenza stessa di Cosa nostra con gli ergastoli per i suoi capi ma suonava come uno schiaffo alla strategia di Riina che aveva sino ad allora sostenuto che la situazione era sotto controllo. L'onta da lavare per Riina era così grande da non temere nemmeno le drastiche reazioni da parte dello Stato.
Quella riunione mafiosa era stata convocata per lo scambio di auguri tra i boss per l'imminente Natale e le feste di fine anno, ma in quell’occasione degli "auguri di Natale", quando il capo dei capi si presentò con quella frase, calò il gelo nella stanza, secondo quanto raccontato dal pentito Nino Giuffrè, e nessuno aveva osato dire una sola parola. Giuffrè seduto attorno al tavolo dei boss racconta che a prendere la parola fu subito Totò Riina, e senza preamboli e mezze parole disse: “Siamo arrivati come ho detto e ripeto, al capolinea, cioè ci deve essere la resa dei conti…”. E non importavano le conseguenze a cui avrebbe portato, “chiddu chi veni ni pigghiamu” avrebbe aggiunto il capo dei capi.
A quella riunione avrebbero partecipato oltre a Giuffrè e Riina anche Matteo Motisi, Giuseppe Farinella, Carlo Greco, Pietro Aglieri, Michelangelo La Barbera, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca, Raffaele Ganci, Salvatore Biondino, Salvatore Madonia e Giuseppe Graviano. A questi si sarebbe aggiunto anche un avvocato della famiglia Gambino di New York, colpita al cuore da operazioni come “Pizza connection” e “Iron tower”, che si era fatto vedere “preventivamente” fra il 1988 e il 1989 per capire il “da farsi”.
Antonino Giuffrè, ex boss di Caccamo, diploma di perito agrario in tasca (conseguito all'istituto di Caltanissetta), oltre ad essere stato capomandamento di Caccamo (una zona definita la Svizzera di Sicilia da Giovanni Falcone) ha esercitato la professione di perito agrario e successivamente ha anche insegnato presso la Uil e la Cisl, per corsi professionali. In Cosa nostra - ha detto - entrò nel 1980. Riferendosi alla riunione del dicembre del 1991 per gli scambi degli auguri natalizi e di fine anno ha aggiunto: "In quella riunione stavamo muti ad ascoltare 'u zi Totò. Nessuno voleva incrociare il suo sguardo, perché se il suo sguardo cadeva su di te, e scorgeva anche un minimo movimento, ti poteva finire male. Nessuno osava alzarsi, muoversi, interrompere quello che stava facendo. Chi aveva gli occhi rivolti verso terra continuava a tenerli, chi con la testa calata guardava 'u zi Totò continuò a fissarlo, c'era anche chi guardava il muro. Qualcuno di noi era come in trance. Nessuno fiatava, neanche quando Riina per spezzare quel silenzio aggiunse: 'siamo al capolinea'. Qualcuno magari avrebbe voluto parlare, dire qualcosa, ma quel freddo improvviso creò un’aria così glaciale che le parole ghiacciavano ancora prima di uscire dalla bocca, e il nostro alito faceva vapore e nient'altro. Io - ha aggiunto l'ex boss - feci un gesto, come per dire qualcosa, stavo quasi per alzare la mano, ma Raffaele Ganci, che stava accanto a me mi diede un colpo con il ginocchio e lo guardò dritto negli occhi. In quello sguardo lessi l’avviso: 'Statti muto'. Riina sembrava sapesse che sarebbe finita male ancora prima che venisse emessa la sentenza della Cassazione (che giunse alla fine di gennaio del 1992, ndr). Doveva andare bene e invece ripeteva ossessivamente che andava male e concluse con la frase 'Chiddru chi veni ni pigliammu".
Giuffrè specifica: "Qualche riunione io l'ho fatta in seno alla commissione, però non ricordo mai che in una riunione c'era un clima così gelido, cioè è stata una riunione dove il discorso natalizio, cioè tutto, è passato in seconda... cioè in quella sala c'era il gelo più assoluto".
Giuffrè ha aggiunto davanti ai magistrati di Caltanissetta: "Il maxi processo era la spina nel fianco di Salvatore Riina, cioè con il maxi processo, cioè l'esito positivo del maxi processo era di importanza vitale sia per quanto riguarda il discorso dell'organizzazione di per se stessa sia per quanto riguarda l'immagine stessa della commissione e di Salvatore Riina in prima persona, perché nel momento in cui detta immagine veniva offuscata ne veniva compromessa la stessa credibilità e della commissione e di Salvatore Riina in prima persona, cioè diciamo che è stato un argomento importantissimo e si è giocata, qualcuno diceva addirittura, la testa affinché questo procedimento andava (andasse, ndr) bene. Riina ebbe ad avanzare un ragionamento già verso il 1988, che con un certo ottimismo diceva che per quanto riguardava l'associazione mafiosa ci si doveva mettere il cuore in pace perché non ci sarebbe stato nulla da fare, ragion per cui cinque anni, sei anni, sette anni si dovevano fare, viceversa per quanto riguarda le cose più grandi, le cose più grosse, gli omicidi, cioè gli ergastoli poi in parole povere dovevano essere tutti messi da parte, annullati, ragion per cui come sto dicendo c'era una presa di posizione diretta di Salvatore Riina nei confronti del maxi processo, affinché andasse bene".
Alle dichiarazioni di Antonino Giuffrè si sono aggiunte quelle di Giovanni Brusca. “Tutte queste persone – dice Brusca a proposito dei partecipanti alla riunione – sapevano che si doveva uccidere Falcone e non c’era bisogno di rideliberarlo, visto che la volontà era già stata espressa da tutti. In particolare, Riina, in quell’occasione, dopo aver detto che non c’era più niente da fare per il maxi processo, aveva aggiunto: ‘Li ammazzo a tutti, ora gliela faccio vedere io’, riferendosi esattamente agli uomini delle istituzioni e a quelli vicino a Cosa nostra che avevano permesso di arrivare a questi risultati…”.
Quindi già alla fine del 1991 era tutto deciso. A quella riunione ne seguirono altre, operative, con piccoli gruppi. “Sostanzialmente – hanno affermato i magistrati che sulle stragi hanno indagato – la riunione degli ‘auguri’ di fine ‘91 ha avuto un contenuto strategico deliberativo meno estensivo di quelle ‘ristrette’ tenutesi tra febbraio e marzo del 1992, in quanto nella prima la deliberazione riguardava solamente l’eliminazione dei nemici di Cosa nostra (i magistrati Falcone e Borsellino), i traditori (i deputati Calogero Mannino e Claudio Martelli) e gli inaffidabili (Salvo Lima), mentre la parte strategica mirava ad un ‘regolamento di conti’; nelle riunioni di febbraio-marzo, oltre ai predetti motivi, la parte deliberativa si era estesa con l’ulteriore obiettivo di eliminare anche altri personaggi ‘eccellenti’ (il questore Arnaldo La Barbera, il procuratore Piero Grasso, l’onorevole Sebastiano Purpura e l’onorevole Carlo Vizzini), e la parte strategica aveva anche il proposito di destabilizzare lo Stato”.
Ai magistrati che hanno e continuano a indagare sulle stragi Giuffrè ha spiegato che: "La decisione di avviare la stagione stragista fu di Totò Riina, in qualità di capo della commissione provinciale, che agì comunque in pieno accordo con Bernardo Provenzano, Perché i - due spiega Giuffrè - non si alzavano da una riunione se non quando erano d'accordo. Per la particolarità del caso fu riunita anche una super commissione (la commissione regionale) che oltre a Palermo comprendeva altre province".
Giuffrè racconta anche cosa avvenne poco prima e subito dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio: "Poco prima dell'inizio dei terribili attentati Bernardo Provenzano fece ritornare a casa, a Corleone, i propri familiari, un po' perché la loro presenza era una palla al piede che ostacolava la libertà di movimenti di chi si doveva nascondere, un po' per quanto di lì a poco si sarebbe verificato. Io venni arrestato il 21 marzo del 1992 e sulla preparazione nel dettaglio delle stragi non ricevetti informazioni, mi limitavo a fare il carcerato, così come era imposto dall'organizzazione, ben sapendo che era Riina a provvedere ad ogni bisogno dei detenuti. Delegò quindi una terza persona per la gestione del mio mandamento".

Il giorno della strage di Capaci, l'allora boss di Caccamo si trovava assieme a detenuti comuni. Uno di questi saputo dell'eccidio disse: "Memo male che lei è qui, così non potrà rispondere di questo fatto".
"Quelle di Falcone e Borsellino - ha esternato Giuffrè agli inquirenti - sono due stragi diverse: una organizzata da Riina, l'altra da Provenzano. A seguito della strage di Capaci - specifica il pentito - Provenzano non poteva certo restare a guardare perché ciò sarebbe stato pericoloso per lui e per il gruppo suo, del quale anche io facevo parte, e perché all'interno dell'organizzazione c'era paura che la grande attenzione che il dottor Borsellino per il tema degli appalti potesse essere gravemente deleteria per gli interessi in campo, anche perché in questa branca Borsellino era più a conoscenza di Falcone. Ma Cosa nostra - continua - quando venne deliberata ed eseguita la strategia stragista non prevedeva la violenta risposta dello Stato, ma si confidava su ciò che era avvenuto in passato e cioè una reazione meno efficace".
 di Giuseppe Martorana

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