Lettera in memoria di Orazio Barrese, giornalista de L'Ora e comunista

Società | 9 febbraio 2016
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di Gemma Contin

 

Carissimo Orazio, ci siamo conosciuti molti anni fa, a Palermo, in quel palazzaccio grigio tra Piazza Ungheria e Via Mariano Stabile che era la sede del giornale L’Ora, al centro del cuore pulsante di quella che fu la capitale di Federico II, sede del primo parlamento moderno d’Europa, chiamata dagli arabi “El Aziz”: la splendida.

 

Era il 1983 ed io ero una giovane apprendista stregona approdata quasi per caso - per mettere ordine nelle sue disordinate tecnologie - in quel microcosmo nevrotico e feroce che era, che doveva essere, il giornale della sera e della sinistra, in quella terra feroce e sanguinaria che non aveva ancora finito di leccarsi le ferite per l’omicidio, l’anno prima, del segretario regionale del Partito Comunista Pio La Torre e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, e poi, in quel terribile 1983, del giudice istruttore Rocco Chinnici e del suo successore, il tuo amico Cesare Terranova - per dire solo degli ultimi “morti eccellenti” che gli strilloni andavano “abbanniando” per le strade della città - prima del decennio di terrore culminato nelle stragi di Capaci e Via D’Amelio, e di quell’“assaggio” di terrorismo mafioso compiuto ai georgofili a Firenze, al Velabro a Roma e in via Palestro a Milano, non tanto per “avviare” ma piuttosto per “concludere” quella “trattativa” tra potere mafioso e poteri dello Stato che tu ed io sappiamo esserci stata, e non da allora ma da sempre, come già suggeriva quel tuo libro su “i Complici”, dal titolo illuminante e premonitore poi utilizzato da nuovi epigoni ottenendo maggiore visibilità e ben altre tutele.

 

Come Pasolini noi possiamo dire: “io so”. Da un lato perché tutto era già stato scritto nella relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia alla cui stesura collaborò proprio il giudice Terranova, io credo anche per gli input anticipati dalla tua inchiesta; dall’altro perché non c’è altra spiegazione, per chi sia dotato di comune buon senso, agli oltre vent’anni di latitanza dell’“erede” mafioso Matteo Messina Denaro, che deve aver ricevuto in dotazione e probabilmente è in grado di “agitare” i “dossier” asportati nottetempo furtivamente dalla villa di Totò Riina, grazie alla “distrazione” degli uomini che avrebbero dovuto controllarla sotto il comando del generale Mario Mori.

 

Come vedi, mi sto facendo prendere la mano dai tuoi “vizi” giornalistici e dall’ossessione di quei cani che non vogliono mai mollare l’osso, come d’altra parte proprio voi, giornalisti de L’Ora, facevate e ci avete insegnato a fare. Ma riprendiamo il filo ritornando in Piazza Ungheria, nel “ventre” della redazione.

   

In quel coacervo di donne e uomini cattivissimi, spietati, che erano la testa e l’anima del giornale – donne della dimensione e dello spessore di Giuliana Saladino e Kris Mancuso, uomini come il direttore tuo conterraneo Vittorio Nisticò o come il mio conterraneo Etrio Fidora, o Mario Farinella e Michele Perriera, e persino tremendi commentatori come Leonardo Sciascia - che noi delle generazioni successive guardavamo con sacro terrore ma da cui eravamo come ammaliati e soggiogati, tu, uomo mite con quel nome da guerriero e con una compagna guerriera di nome e di fatto, eri una sorta di “rara avis” perché, assieme a Marcello Cimino, eri il solo ad essere gentile con noi che non capivamo quasi niente, né di giornalismo né di politica né di mafia, e sotto la scorza dura eri paterno e curioso, ironico ma amabile, senza mai alzare di un tono la voce, laddove tutti gli altri sbraitavano e strapazzavano grandi e piccoli senza pietà.

 

Ti ho considerato un maestro, un esempio, un mentore e un amico, io che della scrittura non sapevo ancora niente se non quello che leggevo ogni giorno su quelle pagine, mentre tu che eri già arrivato alle vette del giornale, alle vette della scrittura, della denuncia e dell’analisi di quel fenomeno sociale politico e giudiziario, oltre che intellettuale e umano che era, che è tuttora, Palermo e la sicilia, di cui  tanto hai indagato nei tuoi articoli e nei tuoi libri.

E proprio la scelta di quel titolo su “i Complici” - ma anche tutta la successiva attività d’inchiesta, dal nucleare alle condizioni di sfruttamento (di schiavitù) di braccianti e operai - rivela che il tuo impegno di giornalista, di scrittore, ma soprattutto di uomo del sud, andava a scavare ben oltre la cronaca, il costume, la narrazione quotidiana dei fatti e misfatti che hanno insanguinato e segnato per sempre il Meridione e la Sicilia: quella terra tormentata e stupefacente in cui abbiamo scelto di vivere, tu e Nina, io e mio marito Nino, per tanti anni, ritornandovi ogni volta, ogni anno, ogni estate, a ogni occasione famigliare o commemorativa, con il sentimento di amore filiale di chi finalmente ritorna a casa.

 

Uomo del Sud, ma anche, e forse proprio per questo, per quella conoscenza di una sofferenza atavica che la gente mediterranea ha dentro di sé, che gli consente di accostarsi agli altri - altri popoli e genti soprafatte e in lotta - empaticamente e compassionevolmente, sei stato, caro Orazio, un cittadino del mondo, di cui tanto hai scritto e che hai percorso in lungo e in largo con Nina, fino “alla fine del mondo”: dal Sudamerica all’Australia, nel vicino e nel lontano Oriente, da cui ritornavate carichi di nuove storie e incontri, maschere e spezie, piante e semi che siete andati trapiantando sul vostro magnifico terrazzo, dove abbiamo passato tante serate a chiacchierare, confrontandoci su esperienze  e passioni condivise - la musica, l’arte, la bellezza dei libri lusitani di pessoa e saramago, vicende e leader politici alcuni molto amati e qualcuno anche detestato - godendo soprattutto, assieme a tanti altri amici che ogni volta si rinnovavano, delle meravigliose ricette di piatti, marmellate, liquori ed elisir, che Nina preparava con sapienza e tu illustravi nelle fantasmagoriche etichette appiccicate su bottiglie e vasetti con il nome della tua amatissima “Dulcamara”: un nome che le si attaglia esattamente.

   

Uomo del sud e di sinistra, come amorevolmente e rabbiosamente narrano tanti tuoi libri e tanti ricordi e racconti che ci siamo scambiati nel corso degli ultimi anni, durante le cene ineguagliabili preparate da Nina con i sostanziosi  contributi di tua sorella Teresa, dopo esserci ritrovati qui a Roma, e per giunta e per caso a poche centinaia di passi tra casa nostra e casa vostra - quella tua bella casa sempre aperta a tutti e sempre piena di fiori - tu in pensione ed io, non si sa per quali imperscrutabili meandri della vita, diventata giornalista di “Liberazione” e inviata parlamentare, a scrivere a mia volta di potere e di mafia, di complicità e abusi, oltre che della colpevole disfatta della sinistra assieme alla colpevolissima cancellazione dei suoi giornali.

 

Insomma, è capitato che alla fine io mi sia ritrovata ad attraversare tutti i solchi che tu avevi già tracciato. Cosa che ci ha consentito, assieme ai due compagni della nostra vita, di riprendere il filo di un discorso mai interrotto, una sintonia di pensieri speranze e disillusioni, la condivisione di parole ricordi e sentimenti che ci hanno permesso in questi ultimi anni di riannodare e ravvivare una grande amicizia.

 

Carissimo Orazio, mi piace pensare che la destinazione di questa tua ultima partenza sia quel “pianoro delle quaglie” dove hai giocato da bambino, dove sei cresciuto fino a diventare un titano in mezzo ai tuoi braccianti, ai compagni sindacalisti, agli amici anarchici, in quella terra desolata altrettanto affascinante e spaventosa che è la Calabria, a poche braccia di mare dalla Sicilia, tanto per non andare troppo lontano, e che come Odisseo continuerai a cercare la tua rotta tra Scilla e Cariddi per ritornare a casa.

 

In ogni caso, noi atei che l’aldilà lo immaginiamo come una nebulosa universale e come una inesausta ripartenza cosmica, anche se non sappiamo dove stai andando, sappiamo dove sei rimasto. Almeno questo ci è di conforto e speriamo che possa esserlo anche per la tua compagna e nostra carissima amica Nina, per le tue figlie Fausta e Rosa, per le tue amate nipoti, per tutti i tuoi fratelli e sorelle e cognati e per tutti quelli che come noi ti hanno voluto bene.

 di Gemma Contin

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