Lettera in memoria di Orazio Barrese, giornalista de L'Ora e comunista
di Gemma Contin
Carissimo Orazio, ci siamo conosciuti molti anni fa, a
Palermo, in quel palazzaccio grigio tra Piazza Ungheria e Via Mariano Stabile
che era la sede del giornale L’Ora, al centro del cuore pulsante di quella che
fu la capitale di Federico II, sede del primo parlamento moderno d’Europa,
chiamata dagli arabi “El Aziz”: la splendida.
Era il 1983 ed io ero una giovane apprendista stregona
approdata quasi per caso - per mettere ordine nelle sue disordinate tecnologie
- in quel microcosmo nevrotico e feroce che era, che doveva essere, il giornale
della sera e della sinistra, in quella terra feroce e sanguinaria che non aveva
ancora finito di leccarsi le ferite per l’omicidio, l’anno prima, del
segretario regionale del Partito Comunista Pio La Torre e del generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa, e poi, in quel terribile 1983, del giudice istruttore Rocco
Chinnici e del suo successore, il tuo amico Cesare Terranova - per dire solo degli
ultimi “morti eccellenti” che gli strilloni andavano “abbanniando” per le
strade della città - prima del decennio di terrore culminato nelle stragi di
Capaci e Via D’Amelio, e di quell’“assaggio” di terrorismo mafioso compiuto ai
georgofili a Firenze, al Velabro a Roma e in via Palestro a Milano, non tanto
per “avviare” ma piuttosto per “concludere” quella “trattativa” tra potere
mafioso e poteri dello Stato che tu ed io sappiamo esserci stata, e non da
allora ma da sempre, come già suggeriva quel tuo libro su “i Complici”, dal
titolo illuminante e premonitore poi utilizzato da nuovi epigoni ottenendo maggiore
visibilità e ben altre tutele.
Come Pasolini noi possiamo dire: “io so”. Da un lato
perché tutto era già stato scritto nella relazione di minoranza della
Commissione parlamentare antimafia alla cui stesura collaborò proprio il
giudice Terranova, io credo anche per gli input anticipati dalla tua inchiesta;
dall’altro perché non c’è altra spiegazione, per chi sia dotato di comune buon
senso, agli oltre vent’anni di latitanza dell’“erede” mafioso Matteo Messina
Denaro, che deve aver ricevuto in dotazione e probabilmente è in grado di “agitare”
i “dossier” asportati nottetempo furtivamente dalla villa di Totò Riina, grazie
alla “distrazione” degli uomini che avrebbero dovuto controllarla sotto il
comando del generale Mario Mori.
Come vedi, mi sto facendo prendere la mano dai tuoi
“vizi” giornalistici e dall’ossessione di quei cani che non vogliono mai
mollare l’osso, come d’altra parte proprio voi, giornalisti de L’Ora, facevate
e ci avete insegnato a fare. Ma riprendiamo il filo ritornando in Piazza
Ungheria, nel “ventre” della redazione.
In quel coacervo di donne e uomini cattivissimi,
spietati, che erano la testa e l’anima del giornale – donne della dimensione e
dello spessore di Giuliana Saladino e Kris Mancuso, uomini come il direttore
tuo conterraneo Vittorio Nisticò o come il mio conterraneo Etrio Fidora, o
Mario Farinella e Michele Perriera, e persino tremendi commentatori come Leonardo
Sciascia - che noi delle generazioni successive guardavamo con sacro terrore ma
da cui eravamo come ammaliati e soggiogati, tu, uomo mite con quel nome da
guerriero e con una compagna guerriera di nome e di fatto, eri una sorta di
“rara avis” perché, assieme a Marcello Cimino, eri il solo ad essere gentile
con noi che non capivamo quasi niente, né di giornalismo né di politica né di
mafia, e sotto la scorza dura eri paterno e curioso, ironico ma amabile, senza
mai alzare di un tono la voce, laddove tutti gli altri sbraitavano e
strapazzavano grandi e piccoli senza pietà.
Ti ho considerato un maestro, un esempio, un mentore e
un amico, io che della scrittura non sapevo ancora niente se non quello che
leggevo ogni giorno su quelle pagine, mentre tu che eri già arrivato alle vette
del giornale, alle vette della scrittura, della denuncia e dell’analisi di quel
fenomeno sociale politico e giudiziario, oltre che intellettuale e umano che
era, che è tuttora, Palermo e la sicilia, di cui tanto hai indagato nei tuoi articoli e nei
tuoi libri.
E proprio la scelta di quel titolo su “i Complici” -
ma anche tutta la successiva attività d’inchiesta, dal nucleare alle condizioni
di sfruttamento (di schiavitù) di braccianti e operai - rivela che il tuo
impegno di giornalista, di scrittore, ma soprattutto di uomo del sud, andava a
scavare ben oltre la cronaca, il costume, la narrazione quotidiana dei fatti e
misfatti che hanno insanguinato e segnato per sempre il Meridione e la Sicilia:
quella terra tormentata e stupefacente in cui abbiamo scelto di vivere, tu e
Nina, io e mio marito Nino, per tanti anni, ritornandovi ogni volta, ogni anno,
ogni estate, a ogni occasione famigliare o commemorativa, con il sentimento di
amore filiale di chi finalmente ritorna a casa.
Uomo del Sud, ma anche, e forse proprio per questo,
per quella conoscenza di una sofferenza atavica che la gente mediterranea ha
dentro di sé, che gli consente di accostarsi agli altri - altri popoli e genti soprafatte
e in lotta - empaticamente e compassionevolmente, sei stato, caro Orazio, un
cittadino del mondo, di cui tanto hai scritto e che hai percorso in lungo e in
largo con Nina, fino “alla fine del mondo”: dal Sudamerica all’Australia, nel
vicino e nel lontano Oriente, da cui ritornavate carichi di nuove storie e
incontri, maschere e spezie, piante e semi che siete andati trapiantando sul
vostro magnifico terrazzo, dove abbiamo passato tante serate a chiacchierare,
confrontandoci su esperienze e passioni
condivise - la musica, l’arte, la bellezza dei libri lusitani di pessoa e
saramago, vicende e leader politici alcuni molto amati e qualcuno anche
detestato - godendo soprattutto, assieme a tanti altri amici che ogni volta si
rinnovavano, delle meravigliose ricette di piatti, marmellate, liquori ed
elisir, che Nina preparava con sapienza e tu illustravi nelle fantasmagoriche
etichette appiccicate su bottiglie e vasetti con il nome della tua amatissima
“Dulcamara”: un nome che le si attaglia esattamente.
Uomo del sud e di sinistra, come amorevolmente e rabbiosamente
narrano tanti tuoi libri e tanti ricordi e racconti che ci siamo scambiati nel
corso degli ultimi anni, durante le cene ineguagliabili preparate da Nina con i
sostanziosi contributi di tua sorella
Teresa, dopo esserci ritrovati qui a Roma, e per giunta e per caso a poche
centinaia di passi tra casa nostra e casa vostra - quella tua bella casa sempre
aperta a tutti e sempre piena di fiori - tu in pensione ed io, non si sa per
quali imperscrutabili meandri della vita, diventata giornalista di “Liberazione”
e inviata parlamentare, a scrivere a mia volta di potere e di mafia, di
complicità e abusi, oltre che della colpevole disfatta della sinistra assieme
alla colpevolissima cancellazione dei suoi giornali.
Insomma, è capitato che alla fine io mi sia ritrovata
ad attraversare tutti i solchi che tu avevi già tracciato. Cosa che ci ha
consentito, assieme ai due compagni della nostra vita, di riprendere il filo di
un discorso mai interrotto, una sintonia di pensieri speranze e disillusioni,
la condivisione di parole ricordi e sentimenti che ci hanno permesso in questi
ultimi anni di riannodare e ravvivare una grande amicizia.
Carissimo Orazio, mi piace pensare che la destinazione
di questa tua ultima partenza sia quel “pianoro delle quaglie” dove hai giocato
da bambino, dove sei cresciuto fino a diventare un titano in mezzo ai tuoi
braccianti, ai compagni sindacalisti, agli amici anarchici, in quella terra desolata
altrettanto affascinante e spaventosa che è la Calabria, a poche braccia di mare
dalla Sicilia, tanto per non andare troppo lontano, e che come Odisseo
continuerai a cercare la tua rotta tra Scilla e Cariddi per ritornare a casa.
In ogni caso, noi atei che l’aldilà lo immaginiamo come una nebulosa universale e come una inesausta ripartenza cosmica, anche se non sappiamo dove stai andando, sappiamo dove sei rimasto. Almeno questo ci è di conforto e speriamo che possa esserlo anche per la tua compagna e nostra carissima amica Nina, per le tue figlie Fausta e Rosa, per le tue amate nipoti, per tutti i tuoi fratelli e sorelle e cognati e per tutti quelli che come noi ti hanno voluto bene.
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