La svolta nella lotta alla mafia, dal maxiprocesso ai 35 anni della riforma processuale del 1988
Gli storici ritengono che la memoria collettiva sia l'insieme di rappresentazioni del passato che vengono conservate e trasmesse in un gruppo attraverso la comunicazione.
E se la storia ha un significato essa non può essere soltanto ricostruzione cronologica di eventi ma deve costituire motivo e occasione di riflessione e di analisi.
Parlare oggi del cd. maxiprocesso, dopo trentasei anni dalla sua conclusione, ha un senso e un significato se contribuisce, anche attraverso la ricostruzione del lavoro e la testimonianza dei suoi protagonisti, a comprendere le dinamiche non solo giudiziarie dell'azione di contrasto a Cosa Nostra.
Un lavoro che però non sia solo cronaca non può prescindere dall'analisi e dalla ricostruzione del contesto in cui matura il maxiprocesso, unico nella storia giudiziaria non solo del nostro Paese, e che costituì l'approdo dibattimentale del "metodo Falcone", che proprio in quel processo, tra alterne vicende, ebbe definitivo riconoscimento processuale.
Quando si parla del "metodo Falcone" talvolta si fa riferimento al lavoro di gruppo, talaltra si evocano le innovative indagini bancarie, o, ancora, si richiama l'impiego dei collaboratori di giustizia.
In realtà il "metodo Falcone" era tutto questo e anche molto di più, era una geniale filosofia di approccio al fenomeno mafioso ancorata alla profonda comprensione delle sue dinamiche passate e presenti, nonché alle possibili strategie future.
Ed è un metodo che irrompe in un contesto sociale, politico, finanziario e giudiziario nel quale l'organizzazione mafiosa aveva trovato terreno fertile e la cui piena consapevolezza, peraltro, è maturata proprio per il decisivo salto di qualità realizzato grazie al metodo Falcone e al maxiprocesso.
La fine degli anni '70 e gli inizi degli anni '80 furono a Palermo l'epilogo di una prolungata stagione criminale che era stata avviata dalla strage di Ciaculli il 30 giugno 1963, quando una Giulietta imbottita di tritolo aveva ucciso 7 persone tra carabinieri, poliziotti e militari, mentre nello stesso anno erano esplose altre autobomba, come quella che il 12 febbraio 1963 era scoppiata dinanzi all'abitazione di Totò Greco, o il 26 aprile 1963 a Cinisi uccidendo Cesare Manzella.
Nonostante lo sconcerto destato dalle vicende di Ciaculli il Cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, appena pochi giorni dopo, scrivendo al Segretario di Stato vaticano Cardinale Cicognani, aveva affermato che “la mafia era un’invenzione dei comunisti per colpire la D.C. e le moltitudini di siciliani che la votavano”.
Dagli atti della Commissione antimafia emerge che quel Cardinale poco tempo prima aveva accolto l’invito di Piddu Greco “u tenente” (padre di Michele Greco “il papa” e di Salvatore Greco “il senatore”) per benedire la nuova chiesa nella contrada di Croceverde-Giardini.
Nello stesso mese di luglio 1963, inoltre, all’Assemblea Regionale Siciliana un deputato aveva affermato che Luciano Leggio era un galantuomo calunniato dai comunisti solo perché “era un coerente e deciso avversario politico”.
A questi primi eventi la reazione politica dello Stato era stata l'attivazione della Commissione parlamentare antimafia, che, costituita formalmente il 14 febbraio 1963, non aveva mai operato per la fine anticipata della legislatura ed era stata ricostituita con la nuova legislatura nel luglio del 1963, peraltro affidandola a un anziano giudice della Corte di Cassazione privo di qualsiasi esperienza in materia di mafia.
Intanto, poco tempo prima i cugini Ignazio e Nino Salvo, che i processi di molti anni dopo avrebbero indicato come affiliati alla cosca mafiosa di Salemi, avevano ottenuto l'appalto per la riscossione delle tasse nella Regione siciliana con un aggio di gran lunga superiore a quello nazionale e avevano conseguito ingentissimi guadagni con i contributi regionali.
Fallimentare era stata la risposta dello Stato sul versante giudiziario.
In circa venti anni si contano non più di 4 o 5 processi, i più rilevanti dei quali, per di più, celebrati lontano da Palermo per la singolare convinzione che i giudici di Palermo non avessero la serenità sufficiente per giudicare: fioccavano le assoluzioni e le poche condanne erano di scarsa entità, raramente per associazione per delinquere e senza alcun riferimento alla esistenza di Cosa Nostra e alla sua struttura unitaria e verticistica.
Mi riferisco, in particolare, alle sentenze di Catanzaro del 22 dicembre 1968 e di Bari del 10 giugno 1969 con le quali erano stati assolti gli imputati da tutti gli addebiti di omicidio ed erano state pronunciate poche condanne per associazione per delinquere semplice [ancora non era stato introdotto il reato di associazione di tipo mafioso di cui all'art. 416 bis c.p.].
Inoltre, tali condanne, peraltro a pene assai contenute, erano state ulteriormente ridimensionate in grado di appello.
Nel processo di Bari erano stati assolti Totò Riina, che si diede subito a quella lunga latitanza che cessò solo il 15 gennaio 1993, e Bernardo Provenzano, che era già latitante dal maggio 1964 e che continuò a restare tale fino all’aprile 2006.
E dire che non erano mancati magistrati eccezionali come Cesare Terranova, autentico protagonista di quel periodo e il cui impegno gli era valsa la particolare "attenzione" di Luciano Leggio il quale gli attribuì la responsabilità della sua condanna nel processo di Bari in grado di appello [mentre tutti gli altri imputati corleonesi erano stati assolti] tanto che ne ordinò l'uccisione, consumata il 26 settembre 1979 quando Terranova era appena rientrato dal mandato parlamentare ed era pressoché certo che sarebbe diventato il nuovo dirigente dell'Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo.
Anzi, proprio la circostanza che, nonostante la presenza e l'impegno di magistrati eccezionali come Cesare Terranova, i risultati giudiziari contro Cosa Nostra si erano rivelati inconsistenti, era stata la cartina di tornasole della inadeguatezza del metodo di lavoro, e ciò perché i magistrati operavano in modo del tutto individuale, sia nella Procura della Repubblica, sia nell'Ufficio Istruzione.
A ciò va aggiunto che le acquisizioni probatorie della fase investigativa raramente resistevano alle pressioni ambientali del dibattimento anche perché la prassi utilizzata dai pubblici ministeri e dai giudici istruttori le ancorava, nei processi di mafia, ai “rapporti” delle Forze dell’ordine, di regola basati esclusivamente sulle segnalazioni dei confidenti che non potevano testimoniare e su ricostruzioni di polizia infondate in ordine alla organizzazione di Cosa nostra, che, peraltro, non venne mai neppure indicata con questo nome fino alle dichiarazioni del 1984 di Tommaso Buscetta.
Per cogliere ulteriormente l'inconsistenza delle attività investigative dell'epoca basti pensare che dalle indagini delle Forze di polizia non era emerso nulla sulle relazioni politiche esterne che Cosa Nostra aveva riallacciato negli anni '70, con particolare riferimento al tentativo di golpe di Junio Valerio Borghese della X Mas e ai collegamenti con lo stesso da parte del gruppo palermitano Leggio-Badalamenti-Bontate e del catanese Pippo Calderone.
Un tentativo di golpe, che, secondo quanto riferito dal Calderone, era stato interrotto in corso d'opera dopo che un Reggimento del Corpo Forestale dello Stato aveva sfilato armato per via dei Fori Imperiali e alcuni golpisti avevano sottratto armi dall'armeria del Ministero dell’interno, mentre a Palermo, secondo quanto dichiarato a Giovanni Falcone da un esponente dell’estremismo neofascista collegato a Luigi Concutelli, nella notte sul 7 dicembre 1970 era già stata occupata la sede RAI di via Cerda e altri sodali erano entrati nella Prefettura, ove l’allora Capitano dei Carabinieri Giuseppe Russo [poi ucciso da Leoluca Bagarella il 20 agosto 1977, vicino a Corleone], avrebbe dovuto prendere in consegna il Prefetto e sostituirlo, personalmente, nella funzione.
Si tratta di acquisizioni probatorie emerse molti anni dopo solo grazie alla collaborazione di Buscetta, nel 1984, e di Calderone, nel 1987, anche perché non erano state ritenute attendibili le dichiarazioni auto ed etero accusatorie che il 30 marzo 1973 aveva formulato negli uffici della Squadra Mobile di Palermo Leonardo Vitale, il quale aveva confessato di appartenere alla famiglia mafiosa di Altarello di Baida e aveva svelato, ben undici anni prima di Buscetta, la struttura, le regole di Cosa nostra, il ruolo di Riina e di Pippo Calò.
Il relativo processo si era concluso il 14 luglio 1977 in Corte di Assise con la condanna del Vitale a venticinque anni di reclusione per gli omicidi dei quali si era dichiarato responsabile e con l’assoluzione di quasi tutti i chiamati in correità, compreso Pippo Calò, mentre l'esistenza di Cosa Nostra e della sua struttura non era stata neppure menzionata nella scarna sentenza, composta da appena 65 pagine.
Il giudizio di appello, poi, era stato definito il 29 ottobre 1980 con l'assoluzione per insufficienza di prove dei pochi condannati e con l'internamento in un manicomio giudiziario per cinque anni del Vitale che, appena uscito, venne assassinato da Cosa Nostra il giorno 11 dicembre 1984.
Nella sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio da cui prende avvio il maxiprocesso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino resero omaggio a Leonardo Vitale scrivendo che “Scarcerato nel giugno 1984, fu ucciso dopo pochi mesi, il 2 dicembre, mentre tornava dalla Messa domenicale. A differenza della Giustizia dello Stato, la mafia percepì l'importanza delle sue rivelazioni e lo punì inesorabilmente per aver violato la legge dell'omertà. È augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi il credito che meritava e che merita".
L'inadeguatezza del metodo di lavoro "individualista" del giudice istruttore era poi emersa, forse in modo ancor più evidente, con riferimento alle dichiarazioni confidenziali del boss nisseno Giuseppe Di Cristina al Capitano dei Carabinieri Alfio Pettinato, che le aveva rassegnate con il “rapporto rosso” del 23 agosto 1978 al Giudice istruttore del Tribunale di Palermo che si stava occupando dell’omicidio del Ten. Col. Giuseppe Russo.
Il Di Cristina, allora capo-mandamento di Riesi, temendo la vendetta di Totò Riina, aveva anticipato sotto forma di “confidenze” la trasformazione che Cosa Nostra stava subendo per l’avanzata dei “corleonesi” e gli schieramenti della “seconda guerra di mafia”, ancorché senza coinvolgere se stesso e i suoi sodali Bontate e Badalamenti.
Sotto altro profilo va ricordato che era stato sottovalutato anche il contenuto della Relazione del 10 febbraio 1972 della Commissione antimafia presieduta da Francesco Cattanei, nella parte in cui era stato affermato che:
- la mafia si è continuamente riproposta come esercizio di autonomo potere extra-legale e come ricerca di uno stretto collegamento con tutte le forme di potere pubblico, per affiancarsi ad esso, strumentalizzarlo ai suoi fini o compenetrarsi nelle sue stesse strutture;
- esiste un groviglio di inconfessabili rapporti che la mafia continua a mantenere col potere pubblico.
In buona sostanza, queste parole avevano certificato il mutamento qualitativo della mafia, passata da "antistato" a "parte del sistema di potere".
Nella Relazione di minoranza del 4 febbraio 1976, firmata, tra gli altri, da Pio La Torre e da Cesare Terranova, era stato sottolineato che “il dato caratteristico, peculiare, che distingue la mafia dalle altre forme di delinquenza organizzata è la ricerca del collegamento con il potere politico” ed era stato rimarcato che nella Relazione del Presidente Carraro “si sfuggi(va) al nodo centrale della questione: ovvero, che tale compenetrazione è avvenuta, storicamente, come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico)”.
In questo contesto, in un'escalation senza fine tra il 1979 e il 1982 Palermo era divenuta teatro di una feroce guerra di mafia che in appena tre anni aveva registrato oltre seicento omicidi, che coinvolsero appartenenti all'organizzazione ma anche esponenti di particolare rilievo delle Istituzioni, come il Dirigente della Squadra mobile della Questura di Palermo Boris Giuliano [21 luglio 1979], il giudice Cesare Terranova [25 settembre 1979], il Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella [6 gennaio 1980], il Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monreale Capitano Emanuele Basile [4 maggio 1980], il Procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa [6 agosto 1980], l'Onorevole Pio La Torre [30 aprile 1982], il Prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa [3 settembre 1982].
In nessun altro Paese di democrazia occidentale si era mai verificato un fenomeno simile.
La conclamata inadeguatezza della risposta giudiziaria, che unitamente alla impotenza dell'azione politica, venne colta perfettamente da Giovanni Falcone che, in uno dei suoi scritti, aveva affermato che “i problemi sono aggravati da inadeguate conoscenze del fenomeno mafioso da parte della magistratura e così, di fronte ad una organizzazione come la mafia, che si avvia a diventare sempre più monolitica e a struttura verticistica e centralizzata, vi sono ancora pronunce di giudici che fanno riferimento ad una sorta di
Ebbene, quando nei primi anni Ottanta il fenomeno è esploso in fatti di violenza inaudita, e quando tanti magistrati e pubblici funzionari sono caduti, con ritmo incalzante, sotto il piombo mafioso, le conoscenze del fenomeno erano ormai assolutamente inadeguate”.
Cosicché, il ricorso al modulo di “lavoro specializzato di gruppo” per i processi di mafia [meglio conosciuto come pool dell’Ufficio Istruzione] divenne una vera e propria necessità nella vita del Tribunale di Palermo della fine del 1983 per fronteggiare le gravissime carenze organizzative nell’azione di contrasto a Cosa nostra.
L'inversione di tendenza si ha con la nomina di Rocco Chinnici a Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo.
Chinnici aveva maturato un'antesignana conoscenza delle dimensioni organizzative della mafia e della sua capacità di permeare il tessuto sociale e politico.
Questa sua straordinaria conoscenza da un lato e la consapevolezza della inadeguatezza del metodo sino a quel momento seguito dall'altro lo indussero a una grande innovazione organizzativa.
Infatti, grazie anche alla sua eccezionale capacità di lavoro assegnò a se stesso la maggior parte dei processi relativi agli omicidi più rilevanti, con l'obiettivo in fieri di attuare una “visione strategica” del fenomeno e di coinvolgere direttamente alcuni magistrati dell’Ufficio, a cominciare da Paolo Borsellino, cui assegnò sempre più complessi processi di mafia riguardanti “fatti e aree omogenei”.
La svolta decisa, però, segue all'assegnazione a Giovanni Falcone, anch'egli arrivato da poco in quell'Ufficio, del processo "SPATOLA+112”.
La geniale intuizione di Falcone di fare ricorso costantemente alle indagini bancarie e societarie delegate alla Guardia di Finanza fece emergere sia la consapevolezza della impossibilità che un solo magistrato potesse gestire processi di grandi dimensioni come poi sarebbe stato il maxiprocesso, sia la necessità del lavoro di gruppo.
In particolare, era accaduto che sul cadavere di Giuseppe Di Cristina, assassinato il 30 maggio 1978, erano stati trovati assegni circolari di piccolo taglio per il valore complessivo di circa 300 milioni di lire, intestati a diversi soggetti, quasi tutti mafiosi.
Orbene, per effetto del sistema di assegnazione dei processi che non si poneva neppure il problema del possibile coordinamento investigativo, il giudice istruttore assegnatario di quel processo, avendo rilevato che i titoli erano stati emessi da istituti bancari di Napoli, ne aveva disposto lo stralcio e l’invio per competenza alla Procura di quella città senza neppure trattenerne copia per la valutazione della eventuale rilevanza nelle indagini sull'omicidio del Di Cristina sul quale era rimasto competente.
Giovanni Falcone, avendo intercettato casualmente molti di quegli assegni circolari nell’istruttoria Spatola, li aveva recuperati tutti e aveva scoperto che erano il frutto della redistribuzione dei proventi illeciti di un imponente traffico di tabacchi e di sostanze stupefacenti.
Il processo Spatola, quindi, diede l'input a una vera e propria rivoluzione organizzativa nelle indagini relative a fatti di mafia, nella consapevolezza, ispirata e sostenuta con determinazione proprio da Falcone, che il metodo di lavoro non fosse una fattore neutro e che invece sottendesse già un'opzione di risultato.
Così, cambio radicalmente nell’Ufficio Istruzione di Palermo il modo di interpretare il lavoro quotidiano, anche sulla scorta delle pregevoli e proficue esperienze sempre più divulgate dai magistrati che si occupavano di terrorismo negli uffici di Torino e di Milano e che avevano creato spontaneamente una “rete di scambio” di informazioni e di atti.
Il metodo di lavoro di gruppo comportò, all’Ufficio Istruzione, che nulla potesse essere più acquisito in indagini di mafia da chiunque condotte senza che tutti i componenti del pool non ne fossero informati in tempo reale.
Si trattò di un cambiamento che travalicò in confini dell'Ufficio istruzione di Palermo, ove nel frattempo era arrivato Nino Caponnetto al posto di Rocco Chinnici barbaramente assassinato il 29 luglio 1983, per estendersi anche alla Procura della Repubblica palermitana e divenire anche oggetto di attenzione istituzionale da parte del CSM che vi dedicò appositi incontri di studio, nella dichiarata consapevolezza che “l’organizzazione degli uffici e la gestione dei processi di mafia ponevano questioni importanti per l’assetto ed il ruolo della magistratura” e che “il nuovo percorso era iniziato proprio nel 1982, segnando una svolta per la magistratura e per il CSM".
Nino Caponnetto, con grande determinazione, aveva istituzionalizzato questo modello organizzativo per cui nessun giudice istruttore poteva ritenersi più una monade, essendo, invece, una tessera di un mosaico alimentato da un continuo scambio di informazioni.
Ma in questa rivoluzione ebbe un ruolo determinante anche una norma del vecchio codice di procedura penale, fino a quel momento non adeguatamente valorizzata nella sua autentica valenza.
Era diffuso, intatti, il convincimento, per effetto di una prassi applicativa, che il giudice istruttore, senza essere investito dalla Polizia giudiziaria o dal Pubblico Ministero, non avesse l'obbligo di compiere atti di indagine, non considerando, invece che l'art. 299 del vecchio codice di rito espressamente prevedeva che "Il giudice istruttore ha obbligo di compiere prontamente tutti e soltanto quegli atti che in base agli elementi raccolti e allo svolgimento dell'istruzione appaiono necessari per l'accertamento della verità".
Una norma apparentemente di scarso rilievo e che, invece, divenne la chiave di volta della rivoluzione di Falcone nel recupero della centralità del ruolo del giudice istruttore, sul quale incombeva non una mera facoltà ma un vero e proprio obbligo di compimento di qualsiasi atto apparisse necessario per l'accertamento della verità, con la conseguente autonomia nella gestione del processo.
Non si trattò di una intuizione da poco perché spostava il baricentro dagli apparati investigativi e dall'ufficio del pubblico ministero al giudice istruttore e costò non poche avversioni a Falcone, che rafforzò nel tempo le proprie idee sul metodo di lavoro per il contrasto alla mafia con altre proposte e altre iniziative apprezzate anche a livello internazionale ma che finirono per comportargli un isolamento e una serie di bocciature talmente note, oltre che dolorose, da rendere superfluo ricordarle in questa sede.
Ma si trattò dell'intuizione e della rivoluzione che consentirono che nel mese di novembre del 1985 si arrivasse alla sentenza-ordinanza definita nell'esilio a pagamento dell'Asinara e dalla quale si aprirono le porte per il maxiprocesso.
Peraltro, già per il numero degli imputati, 475 [dagli originari 707 indagati] e dei capi di imputazione, oltre che per la caratura criminale degli imputati medesimi, dei quali gran parte detenuti in carcere o agli arresti domiciliari, emerse subito il timore della enorme difficoltà se non della impossibilità di celebrazione del dibattimento.
Il primo scoglio da affrontare, anche se non avrebbe dovuto esserlo, fu quello della presidenza del Collegio giudicante, che, come è noto, venne affidata al Presidente Alfonso Giordano.
Lo avevo conosciuto nel 1976 quando, studente della facoltà di giurisprudenza, avevo sostenuto l'esame di diritto industriale con lui, che era titolare del relativo insegnamento essendo tra l'altro un fine civilista.
Mi aveva colpito favorevolmente durante l'esame il fatto che, nonostante avessi sostenuto, forse con un po' di incoscienza, tesi del tutto contrarie alle sue in materia di concorrenza tra imprese, avesse apprezzato particolarmente le mie considerazioni tanto da avere tradotto questo apprezzamento con un voto alquanto lusinghiero.
Gli ricordai l'episodio dopo diversi anni, quando era già Presidente della Corte di Appello palermitana e io facevo parte del Consiglio giudiziario da lui presieduto, e anche per questo piccolo gesto mi rinnovò la sua stima, che nel corso della consiliatura ebbe altri riscontri e che da ultimo mi esternò il 26 maggio 2020 quando nel mio ufficio, che era stato anche il suo, mi fece omaggio del suo libro sul maxiprocesso con una dedica con la quale ricordò che il nostro primo incontro aveva segnato nel suo animo un apprezzamento che attraverso gli anni si era trasformato "in sincera stima ed ammirata amicizia".
Alfonso Giordano definì quel libro il suo "testamento spirituale" e nella prefazione scrisse testualmente che l'opera "adempie al compito di far piena luce su un processo, certamente di portata storica, che ha illuminato la storia della nostra nazione".
Leggendolo ho rivissuto quel periodo storico, che, per quanto lavorassi in altro ufficio, avevo seguito con interesse, anche perché era la concretizzazione del lavoro avviato nell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, nel quale, nel 1981, avevo svolto una gran parte del mio tirocinio iniziale con la guida di Rocco Chinnici.
Mi aveva incuriosito e sorpreso non poco proprio la vicenda della formazione del collegio giudicante, avendo appreso [fatto ampiamente confermato nel libro di Alfonso Giordano] che ben otto dei dieci presidenti di sezione del Tribunale di Palermo avevano "rifiutato" la presidenza del collegio, adducendo varie ragioni, di talché la scelta era caduta proprio su Alfonso Giordano, ultimo arrivato e con una prolungata esperienza nel settore civile.
A questo problema si aggiunse quello, che destò particolare preoccupazione, del luogo di celebrazione del processo.
Nel Palazzo di Giustizia di Palermo non esisteva una struttura idonea a consentire la trattazione di un processo con 475 imputati, con un elevatissimo numero di difensori.
Inoltre, il trasferimento dal carcere dell'alto numero di imputati detenuti sarebbe stato difficilmente governabile e avrebbe comportato rischi assai seri sotto diversi profili.
Così il Ministero della Giustizia decise che l'unica soluzione funzionale era la costruzione di un'aula connessa con il carcere dell'Ucciardone, ove si trovavano i detenuti, conseguendo al tempo stesso l'obiettivo di disporre di uno spazio adeguato e di non dovere effettuare rischiose e complesse operazioni di traduzione dei detenuti, che inoltre avrebbero certamente inciso negativamente sui tempi processuali.
Il progetto dell'Architetto Martuscelli, nonostante la straordinaria imponenza dell'opera che occupa circa 7.500 mq., venne portato a termine in pochi mesi grazie anche alla organizzazione di turni di lavoro che coprivano l'intera giornata e a un impegno eccezionale di tutte le componenti che concorsero a diverso titolo all'attuazione del progetto medesimo.
Si trattò di un'opera avveniristica per l'epoca in cui venne realizzata, oltre che per gli eccezionali strumenti di protezione previsti anche contro attacchi missilistici e ancora oggi è molto apprezzata da diversi Paesi stranieri [lo scorso anno abbiamo ricevuto la visita di una delegazione olandese] che chiedono informazioni e notizie manifestando apprezzamento per le caratteristiche costruttive, per la funzionalità e per i tempi, davvero inconsueti soprattutto per il nostro Paese, impiegati per la sua realizzazione.
In quella fase fu decisivo l'apporto dell'allora Direttore Generale del Ministero Liliana Ferraro, che con grande efficacia e tempestività intervenne in ogni momento apprestando tutto quanto era stato via via necessario.
Ma un'altra persona ha avuto un ruolo decisivo nella nascita e nella gestione dell'aula bunker ed è stato il cancelliere Vincenzo Mineo, del quale tra due giorni ricorre il secondo anniversario dalla sua improvvisa e prematura scomparsa all'età di 69 anni.
Il Presidente Grasso lo definì"l'anima dell'aula bunker", con un'espressione che ho trovato del tutto appropriata ed efficace per tradurre perfettamente il suo rapporto con quell'aula e il ruolo determinante avuto con la sua storia.
Era stata la prima persona ad averne le chiavi, ne era la memoria storica, avendo costituito costante punto di riferimento sia per gli addetti ai lavori sia per coloro che per varie ragioni vi accedevano, dai giornalisti agli studenti, in particolare in occasione delle commemorazioni del 23 maggio quando interveniva in modo determinante per contribuire a risolvere i numerosi problemi logistici e organizzativi che si presentavano per l'afflusso straordinario di persone nell'Aula.
Personalmente ne ricordo anche il contributo alle operazioni postelettorali che, come è noto, gravano sulla Corte di Appello e che ha come punto strategico operativo proprio l'Aula Bunker.
E questo contributo non era per lui un lavoro aggiuntivo ma una partecipazione naturale in quella che, in fondo, credo che considerasse un po' casa sua e che conosceva in ogni angolo.
Ricordo che si diceva: "per il Senato ci pensa Enzo Mineo"; e infatti organizzava il gruppo degli altri collaboratori, individuava la tempistica e le modalità di articolazione del lavoro, divenendo un punto di riferimento per i magistrati anche in questo ambito, così come lo era per l'attività giudiziaria che si svolgeva al bunker.
Dotato di intelligenza acuta e dinamica, di spirito ironico e di capacità di osservazione non comune, riusciva con semplicità a proporre soluzioni per ogni criticità che si presentava, senza mai perdere la tranquillità e con una disponibilità che gli derivava dalla sua bonomia e dalla sua grande esperienza.
Tutto questo era per lui motivo di grande soddisfazione e di grande orgoglio, ma non ne faceva ostentazione, perché per lui era soltanto fare il proprio dovere, anche quando il suo apprezzato contributo andava ben al di là degli specifici compiti dell'attività di cancelliere.
I numeri del maxiprocesso furono impressionanti: 475 imputati, molti dei quali detenuti, 349 udienze, 1314 interrogatori, 900 esami testimoniali, 200 difensori, 635 arringhe, oltre 8.500 pagine di sentenza.
Dati che sono fortemente indicativi della unicità di questo processo e della ragionevolezza delle preoccupazioni iniziali.
Aleggiava, in particolare, il timore che l'immensa mole delle carte [quelle "carte" nelle quali, durante la fase istruttoria, si diceva che sarebbe naufragato Giovanni Falcone …], il numero degli imputati e delle imputazioni avrebbero reso impossibile l'accertamento delle responsabilità.
Ma le preoccupazioni vennero spazzate via perché in 22 mesi venne emessa la sentenza con 346 condanne e 114 assoluzioni, e in tempi altrettanto ragionevoli e compatibili con la mole impressionate degli atti vennero depositate le motivazioni.
Certamente non mancarono i momenti difficili, le tensioni, le critiche, anche da parte di addetti ai lavori e da giornalisti, come del resto era facilmente prevedibile, ma nessuno mise mai in dubbio la serenità dei giudici, la loro capacità valutativa delle prove, l'autonomia decisionale.
L'architettura complessiva della decisione con le sue ragioni fondanti, dopo un significativo ridimensionamento nel giudizio di appello non solo in termini sanzionatori ma anche con riferimento alla valutazione delle prove, recuperò pienamente la propria solidità grazie alla decisione della Corte di Cassazione che, riconoscendo invece la fondatezza della prima sentenza e la incoerenza di quella di secondo grado, annullò quest'ultima rinviando a un nuovo collegio che si uniformò ai principi del giudice di legittimità e pose fine alla vicenda.
Non era un risultato per nulla scontato, già per l'esito del primo giudizio di appello, nonché per il fatto che per la prima volta l'intera struttura organizzativa di Cosa Nostra era sottoposta a processo e che veniva in discussione in modo massiccio il ruolo dei collaboratori di giustizia.
Proprio recentemente sono state rinnovate aspre critiche al maxiprocesso, che, al di là dell'improvvida e sconcertante terminologia adoperata, tendono ad accreditare l'idea che la decisione sia stata frutto di neppure precisate lesioni del diritto di difesa invocandosi il principio di pari dignità di tutti gli imputati, nonché di violazione del principio costituzionale della responsabilità personale dell'imputato.
Si è adombrato, in buona sostanza, che il volume degli atti e il numero degli imputati avessero reso impossibile un'adeguata valutazione delle posizioni individuali degli accusati quasi come se il giudizio avesse inteso perseguire un fenomeno criminale nel suo complesso e non singole responsabilità.
In tal modo, però non si considera, oltre al fatto che il codice di rito dell'epoca era diverso da quello attuale, che nessuna violazione del diritto di difesa e nessuna lesione dei diritti degli imputati, anche con riferimento all'adeguatezza delle prove acquisite a carico di ciascuno, sono state rilevate nel corso dei successivi gradi di giudizio e, in particolare, dalla Corte di Cassazione, alla quale, è superfluo ricordarlo, la nostra architettura ordinamentale assegna un ruolo ben preciso attribuendo carattere di definitività alle sue decisioni.
Decisioni che, inoltre, hanno consacrato in via definitiva la struttura unitaria e verticistica di Cosa Nostra, con gli effetti anche sulla riferibilità ai suoi vertici dei delitti commessi dagli appartenenti all'organizzazione.
Al di là delle valutazioni strettamente tecniche, questa ulteriore vicenda marca amaramente una profonda contraddizione: si esalta la professionalità unica di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, dei quali non si manca ogni 23 maggio e ogni 19 luglio di dichiarare di onorarne la memoria, e però si prospetta che il loro immane lavoro abbia consegnato ai giudici della Corte d'Assise un vero e proprio monstrum [nel senso deteriore del termine] perché lesivo di principi fondamentali di diritto.
E analoga contraddizione riscontro con riferimento all'attività dei giudici della Corte d'Assise, ai quali si finisce per addebitare un'acquiescenza acritica al materiale probatorio formato durante la fase istruttoria, senza considerare che lo stesso era stato sottoposto a congrua e accurata valutazione, tanto che ben 114 imputati erano stati assolti [e tra costoro Luciano Leggio e Giovanni Brusca] e che tanta attività istruttoria era stata svolta in dibattimento.
Penso, in particolare, al confronto drammatico tra Tommaso Buscetta e Pippo Calò e alla successiva rinuncia al confronto manifestata da altri imputati che inizialmente lo avevano chiesto.
Se il maxiprocesso poté celebrarsi e arrivare a conclusione lo si deve all'impegno e alla dedizione di tutti coloro che vennero chiamati a collaborarvi a diverso titolo.
Nessuno si sottrasse a quello che avvertì essere prima di tutto l'adempimento di un dovere inderogabile.
Tutto ciò si rivelò decisivo per il maxiprocesso e consentì, unitamente ad altri fattori consonanti, di ottenere, per la prima volta, la condanna dei vertici di Cosa Nostra sulla base di accertata e riscontrata partecipazione ai reati contestati, annientando il mito della sua invincibilità e creando uno spartiacque giudiziario tra il passato e il futuro.
Il lavoro di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, consacrato nel maxiprocesso presieduto da Alfonso Giordano, riportò in questa terra la credibilità dello Stato, facendo recuperare il senso del valore della Giustizia e della Legalità e restituendo ai cittadini, che lo avevano smarrito, il senso dell'appartenenza a una comunità libera e democratica.
Alfonso Giordano conclude la prefazione del suo libro affermando "era necessario farlo ed è stato fatto".
E nella stanza del Palazzo di Giustizia in cui ha lavorato per alcuni anni Giovanni Falcone é esposto un quadretto nel quale é scritta la seguente frase di John Fitzgerald Kennedy, pure riportata nel libro di Giordano:
"Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l'essenza della dignità umana".
Credo che questa regola aurea debba essere la stella polare di ciascuno di noi.
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