La nuova via della collisione tra Stati Uniti e Cina

Politica | 14 giugno 2020
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di Pino Scorciapino 





CAPITOLO PRIMO

La nuova Via della Collisione”




  1. Scenari


Scenari. Di fantapolitica o di realpolitik. Chissà. Tempo di accadimento: da quattro a ventiquattro mesi da ora. I rapporti tra Stati Uniti e Cina sono sempre più conflittuali. I primi non perdonano alla seconda di essere stata l’incubatrice della pandemia che li ha messi in ginocchio: morti per Covid-19 a centinaia di migliaia, economia depressa come mai in passato, disoccupati a decine di milioni, scontro sociale e razziale propagatosi come un gigantesco incendio a livello di rivolta aperta. Gli Stati Uniti somigliano in questo momento ad un aggressivo grande felino della foresta ferito. Perciò ancora più pericoloso. Poco importa se la Cina può essere accusata di colpevoli ritardi nella gestione iniziale della pandemia che ne hanno agevolato la diffusione ma non è che abbia sparso di proposito il coronavirus. Poco importa che per i suoi troppi morti di Covid-19 l’America debba interrogarsi innanzitutto sull’efficienza, anzi sull’inesistenza, della sua sanità pubblica da sempre oscurata dalle regole mercantilistiche della élitaria, costosa, strombazzata sanità privata nella quale chi è senza soldi non si può curare come chi dispone di una assicurazione sanitaria. Poco importa che l’Amministrazione Trump debba rendere conto delle sue sottovalutazioni e dei ritardi di settimane del rischio pandemico. Poco importa se in fatto di razzismo e ripetuti ricorsi a metodi spicci delle polizie locali nei confronti degli afroamericani fino ad arrivare al “ginocchio sul collo” di un agente per 9 minuti che ha finito per soffocare a terra il malcapitato George Floyd a Minneapolis – episodio, non isolato, che ha scatenato dappertutto proteste – gli Usa non dovrebbero fare altro che capire che si raccoglie ciò che si semina. E negli Stati Uniti, storicamente, non si è fatto altro che seminare razzismo. Complice, in questi ultimi anni, anche un presidente divisivo che guarda solo al suo elettorato bianco e assai meno a quello ispanico ed afroamericano. Un presidente che davvero non si è dannato l’anima per ridurre le disuguaglianze economiche e sociali. Acuitesi con Trump alla Casa Bianca.

Agli Stati Uniti prudono le mani. E quando lo scontro interno si intensifica uno dei migliori sistemi per sedarlo consiste nel dirottare tensione ed attenzione della popolazione, nel trovarsi un nemico all’esterno.

Il nemico per la verità esiste da anni. Si chiama Cina. Insidia pericolosamente ogni giorno che passa il primato strategico, economico e tecnologico nel mondo della superpotenza americana. Al pari degli Stati uniti è diventata una protagonista globale. E’ uscita ammaccata dalla pandemia ma niente a che vedere in fatto di gesso e protesi con la gravità delle fratture di americani ed europei. Anzi, è già in avanzata fase di guarigione. Si riprenderà e riprenderà presto a correre – non come prima ma comunque a correre – mentre i suoi concorrenti zoppicano o sono addirittura sulla sedia a rotelle. E’ di un opportunismo insopportabile la Cina, di una ostinazione indisponente. Lavora ai suoi obiettivi territoriali e di espansione non solo regionale con una pazienza di decenni che trova riscontro solo nelle modalità di tessitura della diplomazia vaticana che storicamente non si fanno impressionare dalla variabile tempo. La formula “Un paese due sistemi” coniata nel 1980 dal leader Deng Xiaoping ed applicata nel 1997 nel passaggio di Hong Kong da florida colonia inglese a territorio cinese sarà presto spazzata via con tanto di legge approvata in quattro e quattr’otto nei giorni scorsi dall’affollatissima e meramente ratificatoria Assemblea Nazionale del gigante asiatico. Hong Kong sarà ridotta ad una delle tante metropoli cinesi. Ubbidiente a Pechino e al Partito comunista. Sì, spazzate via formula, libertà, proteste quotidiane di chi nell’importante centro finanziario non vuole rinunciare ad uno status di libertà ed autonomia concordato nei trattati stipulati tra Repubblica Popolare e Regno Unito. E, costi quel che costi, anche l’indipendente isola di Taiwan diverrà l’ennesima provincia cinese. Non c’è trippa per gatti. Sono quelli i piani e si realizzeranno. Punto e basta.


E’ partita da lontano la rotta di collisione tra gli Usa declinanti e la Cina sempre in marcia. Ma ora è aumentata in modo esponenziale la velocità di avvicinamento. Ogni occasione è buona per il fatidico punto di impatto. Siamo scivolati nel giro di pochi mesi nella “Seconda Guerra Fredda” - di cui parlano apertamente le stesse autorità delle due superpotenze e non solo media e commentatori – senza neppure accorgercene. Non più Stati Uniti da una parte e URSS dall’altra come nella “Prima Guerra Fredda”. Sempre gli Stati Uniti da una parte e dall’altra la Cina. A proposito: con chi si schiererà la Russia dell’ormai monarca a vita Putin quando il gioco si farà duro e verrà il momento di menare le mani? Di sicuro non dalla parte di Washington. Per restare in Asia neppure l’India dovrebbe schierarsi con la Cina. E, udite udite, i rapporti (mai idilliaci per la verità) tra l’invadente Cina e il Vietnam sono così deteriorati per storiche questioni territoriali e di sovranità su aree marine che clamorosamente i secondi potrebbero non disdegnare, sempre se e quando il gioco dovesse farsi duro, di riprendere le armi a fianco dell’antico nemico storico a stelle e strisce.


Ma è ancora presto per parlare di alleanze e schieramenti sul campo. Piuttosto consessi internazionali e cancellerie sono preoccupati per le accuse e gli insulti che i due attaccabrighe vicendevolmente si vomitano addosso e per gli spintoni che si danno prima di correre a casa per mettersi in tasca coltello e pistola. Di casus belli che trasformeranno la “Guerra Fredda Sino-Americana” in guerra rovente – diciamo pure nella Terza Guerra Mondiale, quella nucleare – se ne troveranno a bizzeffe: un incidente navale od aereo nei mari dell’Asia affollati di flotte armate ed aerei da guerra; una accelerazione dei piani cinesi di “normalizzazione” a Hong Kong e Taiwan di cui gli americani sono paladini; una manifestazione di forza di una delle due superpotenze con dispiegamento di navi ed oltrepassamento da qualche parte di acque territoriali; una delle tante contese che la Cina ha in corso con diversi paesi asiatici a proposito di rivendicazioni su arcipelaghi, isole ed isolette, a partire dal Giappone; un colpo di testa della Corea del Nord che costringerà in qualche modo Pechino e Washington ad intervenire. Non c’è che l’imbarazzo della scelta quando si è come bisonti o elefanti pronti a caricare. Peraltro nella fabbricazione di casus belli e false accuse gli americani sono maestri. Sembra non occuparsi d’altro da mesi il segretario di Stato Mike Pompeo e nessuno ha dimenticato le fantomatiche, inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein in Iraq. Una scuola, una attitudine, una tradizione storica quella statunitense in materia di frottole di cui inondare i mass media nel mondo per preparare stati ed opinioni pubbliche alle “guerre americane”. Vi farà ricorso anche per attaccare bottone con Pechino. Un fatto è certo: l’America in declino venderà cara la pelle prima di cedere il suo primato planetario all’arrembante Cina. Sarà disposta a scatenare l’inferno in terra prima di essere sorpassata dalla superpotenza asiatica. Dall’incidente singolo, in rapida accelerazione si passerà a diversi focolai, stavolta di scontro marittimo, aereo, terrestre. Convenzionali. Quando l’incendio si sarà sufficientemente propagato ci sarà sempre qualcuno in qualche war room che suggerirà il ricorso alle armi nucleari. Già nel lontano 1950 durante la guerra di Corea il generale americano Douglas MacArthur aveva suggerito di “gettare trenta o quaranta bombe atomiche sulla Manciuria e sulle principali città della Repubblica Popolare Cinese”. E la frittata è pronta, nel piatto: dalla quotidiane dichiarazioni ostili di queste settimane alle esibizioni muscolari al ricorso alle più moderne tecnologie militari, al ricorso agli arsenali da giudizio universale sai come e quando cominci ma non sai quando e come finisce. Ma lo puoi ampiamente prevedere: con un deserto in terra e morti nell’immediato a centinaia e centinaia di milioni seguiti da altri numeri se possibile ancora più ampi per gli effetti delle radiazioni.

Nessuno pianifica l’Apocalisse. Le guerre hanno un senso nelle teste malate di chi le programma sulle carte a tavolino solo se alla fine della strage di massa (in cui sostanzialmente consistono e che l’uomo si porta nella sua natura da decine se non centinaia di migliaia di anni) una parte vince l’altra viene sconfitta. Nel conflitto che vede di fronte potenze con arsenali nucleari entrambi i contendenti sanno che distruggeranno ma saranno distrutti. A meno che non si entri nella logica del “Muoia Sansone con tutti i Filistei” macchiarsi della più nefanda quanto inservibile distruzione della storia sarebbe da folli, da mostri senza eguali. E più che altro da stupidi.


Abbiamo calcato troppo la mano nel delineare questo scenario? Abbiamo ecceduto nel più cupo, nel più estremo pessimismo strategico-militare? Niente ci renderebbe più felici dell’esserci sbagliati, dell’essere andati troppo oltre nell’ammonire sulla deriva che sta prendendo l’escalation dello scontro tra americani e cinesi. Sperando (e pregando) che tutto si mantenga entro lo spartito di una ostilità che non deflagri in conflitto militare aperto (come in fondo si è mantenuta la Guerra Fredda tra USA e URSS, pur con momenti di angosciosa criticità come dal 16 al 28 ottobre 1962 nella Crisi di Cuba) vediamo di approfondire l’analisi. Quali sono le forze in campo, chi è più “forte” sul piano strategico, militare, tecnologico, economico, dell’intelligence tra i due contendenti? Quale è la posta in gioco nella crescente ondata di ostilità nei confronti della troppo invadente ed autoritaria Cina che si sta sviluppando giorno dopo giorno non solo negli Usa ma in tutto l’Occidente e, in genere, nel mondo? Non dimentichiamo che nelle scorse settimane ben 116 stati hanno reclamato una inchiesta indipendente su quanto successo in Cina quando ha cominciato a diffondersi il coronavirus, sui ritardi e le omissioni nelle informazioni fornite all’Organizzazione Mondiale della Sanità ed alla comunità medico-scientifica internazionale.

La diffidenza di un numero crescente di paesi nei confronti di Pechino produce una variabile aggiuntiva di cui bisogna tenere conto: rende la Cina più “nervosa” e la deglobalizzazione che costituirà per un bel po’ di anni un effetto della pandemia di cui è stata epicentro la città cinese di Wuhan frenerà le colossali esportazioni “made in China”. Facendo ulteriormente aumentare il “nervosismo” dei dirigenti cinesi che non potranno più assicurare ai loro cittadini le percentuali di crescita annua del Pil del passato. E questo vis a vis alle frustrazioni americane ed alla voglia di Washington di metterla in rissa per “farla pagare” ai cinesi e per “regolare i conti”. Atteggiamenti e miscele esplosivi.



1.2 Approccio metodologico

Per il nostro approfondimento faremo ampio e diretto ricorso a commenti e ricostruzioni. Da numerose angolazioni ma, in definiva, malgrado la mole, si tratterà di una ricognizione piuttosto parziale quanto a riferimenti giornalistici e sitografici su un tema per il quale nel web, sulla carta stampata, in letteratura saggistica e specialistica esiste una quantità sterminata di contributi. Non potremo fare riferimento che ad una piccola anche se significativa parte, non solo a firma di analisti italiani ma anche di altri paesi, soprattutto delle due potenze direttamente coinvolte. Comunque sufficiente per disporre di un quadro informativo circostanziato ed aggiornato in pratica a queste settimane, alla data di pubblicazione di questo Paper. Tecnicamente lo schema adottato consiste in un collage strutturato di articoli e saggi tratti da riviste specializzate e dalle pagine “esteri” di quotidiani. Concorrono a definire un percorso che da molteplici direttrici – strategia, armamento, forza militare, forze navali, tecnologia, informatica, intelligence, commercio, economia, finanza, ecc. – passo dopo passo avvicina al punto di non ritorno, al baratro. Riportati in alcuni casi integralmente, in altri solo in alcune parti selezionate, i contributi costituiscono veri e propri blocchi modulari nella costruzione narrativa del Paper.

Un percorso che parte da lontano con analisi che spesso divergono e scaturiscono da ottiche differenti. Ma che – come vedremo – quasi sempre convergono sull’inevitabilità dello “scontro”, non sappiamo se e quanto violento.


1.3 Una “lunga marcia” di allontanamento


Sembra molto lontano quanto scriveva nel 2006 Giovanni Salvini nella rivista “Il Politico”, volume 71, numero 3, pubblicata da Rubbettino Editore in un saggio dal titolo “Le relazioni Cina-Usa. Un difficile equilibrio”. Secondo l’autore (il testo è in inglese, la traduzione nostra) “la Repubblica Popolare della Cina e gli Stati Uniti sono rivali strategici e partner economici al contempo. La crescita continua della potenza economica e militare cinese potrebbe porre una significativa sfida allo status quo strategico nell’East Asia ed agli interessi di sicurezza degli Stati Uniti nel sistema internazionale. Tuttavia un nuovo paradigma globale è attualmente funzionante. Le economie cinese e statunitense sono sempre più intrecciate, con una precaria interdipendenza tra super-debitore (Usa) e super-creditore (Cina). La relationship tra Usa e RPC sarà caratterizzata dalla convergenza verso l’approfondimento della cooperazione o da deterioramento, portando ad una concorrenza sempre più aperta. La conclusione è che gli Stati Uniti dovrebbero continuare ad incoraggiare la partecipazione attiva della Cina nell’economia globale e nelle istituzioni internazionali multilaterali”.


Sei anni dopo, il 22 febbraio 2012, Matteo Dian in un articolo su “Limes”, rivista italiana di geopolitica, dal titolo “Usa-Cina, il duello è anche militare” evidenziava che “Gli Stati Uniti vogliono conservare il controllo degli spazi comuni (mari, cieli, spazio e cyberspazio) funzionale alla loro egemonia. Pechino è l’unica potenza in grado di impedirglielo. Strategie a confronto: air sea battle vs shashou jian”.

Siamo – è importante sottolinearlo – in piena presidenza Obama. Una presidenza considerata “tranquilla” rispetto a tante altre molto più aggressive sul piano strategico e militare. Eppure è con Obama che gli Stati Uniti si vedono costretti a dare inizio ad un importante ri-orientamento strategico in funzione anticinese.

La grande strategia dell’amministrazione Obama – scrive Dian - è caratterizzata da due fattori principali: la riduzione degli impegni militari diretti (con razionalizzazione delle spese) e il ri-orientamento verso la regione dell’Asia-Pacifico.

Il ri-orientamento verso il Pacifico coinvolge aspetti diplomatici, economici e militari. L’offensiva diplomatica culminata con l’apertura a Myanmar e l’espansione della Trans pacific partnership sono gli esempi più evidenti delle prime due dimensioni. Queste sono accompagnate da un processo di riorganizzazione delle Forze armate e, soprattutto, dall’elaborazione di un nuovo concetto operativo, definito “Air sea battle”, che segnerà l’evoluzione della pianificazione militare americana.

L’elaborazione dell’Air sea battle segnala come l’attenzione dei pianificatori del Pentagono si stia sempre più allontanando, sia dal punto di vista logistico e organizzativo sia sotto il profilo strategico e tattico, dai conflitti asimmetrici e dalla counter-insurgency che hanno segnato lo scorso decennio, per avvicinarsi invece alle misure necessarie a fronteggiare l’ascesa militare cinese.

Secondo la recente Defense strategic guidance, infatti, nonostante i tagli previsti al bilancio del Pentagono (500 miliardi di dollari in 10 anni) “gli Stati Uniti rafforzeranno la loro presenza militare nel settore Asia-Pacifico”. I tagli infatti, “non si faranno a spese di questa cruciale regione”. Il documento, in linea con la Quadriennal defense review del 2010, mette a fuoco la natura della minaccia all’egemonia militare degli Stati Uniti rappresentata dall’espansione e dalla modernizzazione delle Forze armate cinesi.
La Cina è l’unico attore in grado di minacciare in modo significativo l’architrave dell’egemonia militare americana, ovvero quello che Barry Posen ha definito “Command of the commons”.

Con questa espressione si intende la capacità di controllare gli spazi comuni, ovvero oceani, spazio aereo, spazio e cyberspazio, negando eventualmente l’accesso ad altri Stati; questo controllo ha un valore duplice. In primo luogo, rappresenta il bene pubblico fondamentale dell’ordine egemonico americano: il controllo dei punti nodali del traffico marittimo quali lo Stretto di Hormuz o quello di Malacca e delle linee di comunicazione marittima facilita il mantenimento di un sistema commerciale aperto e di scambi intercontinentali.

In secondo luogo, il Command of the commons garantisce agli Stati Uniti di proiettare potere militare praticamente in ogni angolo del globo. Ciò rende possibile l’esercizio della “deterrenza estesa”, ovvero la deterrenza esercitata a favore degli alleati. (…)

La cosiddetta “american way of war”, infatti, è strettamente connessa alla supremazia sugli spazi comuni. Di fatto, gli Usa hanno condotto tutti i conflitti successivi alla seconda guerra mondiale in condizioni di supremazia aerea e navale. Le loro Forze armate hanno sempre avuto la possibilità di utilizzare “basi-santuario” fuori dalla portata del nemico ma relativamente vicine al teatro di conflitto. Gli esempi più evidenti sono l’uso delle basi in Qatar e Arabia Saudita durante il conflitto in Iraq e la base di Okinawa durante la guerra del Vietnam. A queste si aggiunge la possibilità di schierare diverse portaerei in zone non lontane dal teatro di conflitto.

Dopo la guerra fredda, la “rivoluzione negli affari militari” realizzata dall’esercito degli Stati Uniti ha accentuato l’importanza del controllo dello spazio e del cyberspazio. La Rma, ovvero l’utilizzo sistematico dell’information technology e delle comunicazioni satellitari a fini militari, conferisce agli Usa due vantaggi fondamentali. Il primo è la superiorità informativa, ovvero una maggiore conoscenza dei movimenti del nemico e dei suoi punti deboli. Il secondo è la supremazia tecnologica, che permette di colpire con precisione grazie ad armi teleguidate e di mantenere un maggiore coordinamento sul campo di battaglia. La salvaguardia di questo tipo di supremazia rappresenta quindi la componente centrale di una strategia volta al mantenimento dell’egemonia politica e militare globale.

I recenti documenti pubblicati dal Pentagono sottolineano con insistenza come l’ascesa militare cinese rappresenti la minaccia principale all’egemonia sugli spazi comuni. Per il momento la Repubblica Popolare non rappresenta un competitor in termini assoluti: il suo budget militare è ancora 4 volte inferiore a quello americano; a ciò si deve aggiungere una notevole disparità tecnologica e la differente capacità di proiezione del potere militare in teatri lontani dal territorio nazionale. Ciò che preoccupa il Pentagono è la strategia cinese di Anti access-area denial (A2ad), ovvero la capacità di contrastare la superiorità degli Stati Uniti sugli spazi comuni dell’area dell’Asia Orientale. Dalla fine della guerra fredda, e in particolare dopo la crisi di Taiwan del 1996, la pianificazione militare cinese è stata fortemente orientata allo sviluppo di capacità A2ad, ovvero di “negazione dello spazio” ad eventuali nemici attorno al territorio cinese.

Anche se l’Esercito di liberazione popolare (Pla, le Forze armate cinesi) non ha mai concettualizzato in modo esplicito questa strategia, l’idea della negazione dello spazio emerge chiaramente dalla recente evoluzione della dottrina militare. Gli strateghi cinesi chiamano questa strategia Shashou Jian, ovvero "mazza ferrata" o "mazza dell’assassino". Il termine non si riferisce solo alla capacità di negare lo spazio nella zona circostante il territorio cinese: al contrario, riguarda lo sviluppo di una capacità militare in grado di disarmare l’avversario prima che questi possa colpire.

Questa strategia è coscientemente asimmetrica: riconosce la superiorità tecnologica dell’avversario e teorizza la necessità di sfruttarne le debolezze, evitando lo scontro in campo aperto. I vertici dell’esercito cinese infatti sono consapevoli del fatto che, qualora gli Stati Uniti avessero la possibilità di dispiegare le loro risorse tecnologiche e militari, non ci sarebbero speranze di vittoria per la Repubblica Popolare.

Per questo, coerentemente con il pensiero di Sun Tzu, l’esercito cinese dovrebbe negare al nemico lo spazio per la battaglia e “vincere prima di combattere”, interrompendo la catena di comando e danneggiando la struttura logistica americana. Impedendo quindi agli Stati Uniti di dispiegare il proprio potenziale militare.

La prima e più evidente componente di questa strategia è la modernizzazione navale. La marina militare cinese è in rapida espansione in termini qualitativi e quantitativi. L’obiettivo di fondo è il contrasto alla libertà di movimento per le portaerei americane. Per questo Pechino ha sviluppato un’ampia e avanzata flotta di sottomarini. (…)

Di recente inoltre Pechino ha schierato la sua prima portaerei: una classe Varyag acquistata dalla Russia e rimodernata negli arsenali cinesi. Questa acquisizione – unita allo sviluppo dei nuovi cacciatorpedinieri Luhu, Luhai, Luyang e Louzhou – testimonia la volontà cinese di espandere la propria capacità di controllo marittimo ben oltre lo stretto di Taiwan e di rafforzare le capacità di negazione dello spazio fino e oltre la prima catena di isole, compresa tra il Giappone, Okinawa e le Filippine.

Un’altra componente fondamentale è l’espansione e la modernizzazione della Seconda artiglieria, ovvero dell’arsenale missilistico. Questo processo riguarda sia missili balistici a medio raggio, destinati a colpire le basi americane in Giappone e Corea, sia missili balistici anti-portaerei. In un futuro conflitto, le basi americane strategicamente più rilevanti – quelle in territorio giapponese, sudcoreano e quelle di Okinawa – potrebbero essere fortemente danneggiate da un attacco missilistico. Le previsioni più pessimiste ritengono che anche la base di Guam sia fortemente vulnerabile. I missili balistici anti-carrier, inoltre, rappresentano un ulteriore fattore di vulnerabilità per le portaerei americane e un ulteriore fattore di riduzione della capacità di mantenere la superiorità navale e aerea da parte degli Stati Uniti.

La strategia A2ad cinese si compone di altri due elementi essenziali: la negazione della superiorità americana nello spazio e nel cyberspazio. Da tempo gli analisti militari cinesi hanno identificato nell’eccessiva dipendenza dall’alta tecnologia la debolezza principale della struttura militare a stelle e strisce. Il forte livello di dipendenza dall’information technology determinata dalla rivoluzione degli affari militari renderebbe possibile un “attacco accecante” nei confronti del cosiddetto C4isr (Command control communication computer intelligence surveillance and reconnaissance) americano. Per questo il Pla, in caso di conflitto, tenterebbe di attaccare l’infrastruttura informativa americana e soprattutto i sistemi di controllo satellitare. (…)

Gli Stati Uniti – prosegue Dian - si preparano a tornare ad affrontare operazioni militari in cui gli spazi comuni sono oggetto di competizione e in cui i santuari logistici vengono significativamente allontanati dal campo di battaglia. La prima mossa è l’accelerazione del riposizionamento della struttura delle basi già in corso da un decennio. La tendenza in questo senso è verso la creazione di un sistema di basi flessibile, che prevede la presenza di basi principali dette “hub” e di basi minori definite “lily pad”. Le prime, tra le quali Okinawa, Guam e le principali basi in Giappone e Corea del Sud, sono i punti chiave della struttura militare americana. In caso di conflitto le forze americane sono pronte ad attivare le basi secondarie e a disperdersi. A ciò si aggiunge lo spostamento di parte delle risorse militari fuori dall’area minacciata dalle misure anti accesso cinesi. Ad esempio, parte delle strutture tradizionalmente collocate ad Okinawa verranno spostate verso Guam o verso la base di Darwin in Australia. Inoltre, è prevista l’attuazione di un blocco navale a distanza che permetta di tagliare alla Cina i rifornimenti marittimi e in particolare le materie prime provenienti dal Medio Oriente.

Uno degli aspetti centrali del nuovo concetto operativo è l’espansione del confronto a spazi comuni prima immuni dalla competizione militare, quali lo spazio e il cyberspazio. L’Air sea battle prevede, infatti, che la prima fase del conflitto si svolga proprio in questi settori e in particolare attraverso un reciproco tentativo di danneggiare i sistemi di intelligence e comunicazioni elettroniche, soprattutto quelle basate nello spazio.

La prima conseguenza a livello pratico per gli Stati Uniti è il rafforzamento del sistema di difesa antimissile dell’Asia-Pacifico, entrato in fase operativa tra il 2009 e il 2010. Inoltre, la crescente militarizzazione dello spazio rende necessarie misure atte a proteggere l’infrastruttura satellitare, il vero tallone d’Achille delle Forze armate americane dopo la “rivoluzione degli affari militari”.

L’Air sea battle, inoltre, prevede una maggiore integrazione logistica e operativa tra esercito, aviazione e marina e l’accelerazione dello sviluppo di armamenti che siano in grado di contrastare i recenti passi avanti cinesi. Tra questi spiccano lo sviluppo di nuovi droni e una serie di missili cruise teleguidati. Più in generale, il rischio di perdere l’uso delle basi santuario sta spingendo il Pentagono ad acquisire nuovi sistemi in grado di colpire il nemico a distanza, diminuendo l’effetto della strategia cinese di negazione dello spazio.

Al di là dei dettagli tattici e organizzativi – conclude Matteo Dian - la rilevanza strategica del concetto di Air Sea Battle è molteplice. In primo luogo, come detto, il ritorno a una pianificazione militare e logistica esplicitamente pensata e realizzata per conflitti simmetrici tra grandi potenze. Più in generale, è necessario notare che, nonostante i documenti ufficiali e le dichiarazioni dell’amministrazione Obama neghino ogni volontà di contenere l’ascesa cinese, gli Stati Uniti stanno ridisegnando le proprie Forze armate in funzione della minaccia rappresentata dalla Repubblica Popolare”. (…)”.



1.4 I dazi e la “triade nucleare”. Le nuove dottrine militari e il deterioramento dei rapporti


Nel 2018 con la presidenza Trump la questione dei dazi doganali è già esplosa e i rapporti con la Cina si deteriorano con quotidiana frequenza. E’ del 18 agosto sul sito del quotidiano “Libero” l’articolo dall’inquietante titolo “Guerra atomica, il report degli 007 americani: chi ci può attaccare”. L’articolo di Matteo Legnini riprende una analisi di Mirko Molteni, studioso ed esperto di questioni miliari e di intelligence. “Mentre si attende per il 23 agosto l'entrata in vigore dei nuovi dazi doganali statunitensi per arginare i prodotti cinesi, la minaccia del dragone si conferma crescente anche sotto il profilo militare. Il Dipartimento della Difesa, ossia il Pentagono, ha presentato ieri al Congresso di Washington un rapporto secondo cui la Cina è ormai in grado di colpire a grande distanza le basi americane nel Pacifico, oltre ai Paesi alleati. Entro 10 anni, inoltre, i cinesi avranno la piena efficienza in quella che strategicamente si dice «la triade nucleare», ossia la capacità di lanciare testate atomiche sia da rampe di terra, sia da unità navali, sia da aerei in volo. L'allarme arriva poco dopo che il presidente Donald Trump ha firmato il nuovo bilancio della Difesa Usa per il 2019, che supererà 716 miliardi di dollari, contro i 700 del 2018. Dice il rapporto curato dai generali del segretario alla Difesa James Mattis: «La Cina sta sviluppando capacità d' attacco per ingaggiare bersagli il più lontano possibile. Negli ultimi tre anni l'aviazione cinese ha esteso rapidamente le sue zone per le operazioni oltremare dei bombardieri, guadagnando esperienza in regioni marittime critiche e addestrandosi per attacchi contro obiettivi americani e alleati». Gli americani si riferiscono ai sempre più lunghi voli con cui si impratichiscono gli equipaggi dei grossi bombardieri Xian H-6K, che spesso superano la cintura delle isole giapponesi Ryukyu e le Filippine, effettuando anche prove di atterraggio e decollo dalle nuove piste sugli isolotti dell'arcipelago delle Spratly, nel Mar Cinese Meridionale. (…).

Il bombardiere cinese, spinto da due turbogetti, ha velocità massima di 1.000 km/h ed è stato portato da 4.800 a ben 7.000 km di autonomia, il che significa 3.500 km di raggio d' azione, contando il ritorno alla base. Ogni bombardiere porta fino a 6 missili da crociera, di vari tipi, con gittata da 800 a 2.000 km e testata anche nucleare. Tali aerei, decollando dalle isole Spratly minaccerebbero il traffico navale negli stretti della Malacca e di Lombok, specie le petroliere, oltre che basi americane come Guam. Il rapporto inoltre afferma che «la competizione strategica a lungo termine con la Cina è una delle principali sfide militari degli Usa. Caccia non intercettabili, a lungo raggio con capacità nucleare potranno essere operativi entro i prossimi 10 anni». Si tratta del Chengdu J-20, più grosso dell'F-35 americano, con un maggior raggio d' azione e capace di portare missili da attacco contro obbiettivi terrestri o navali.

Il Pentagono ricorda anche che la Cina sta rafforzando la sua fanteria da sbarco, e che a fine 2018 o inizio 2019, dovrebbe entrare in servizio la sua seconda portaerei, in completamento nei cantieri di Dalian. Non ancora battezzata, la nuova unità da 70.000 tonnellate è lunga 300 metri e potrà portare sul ponte di volo 32 caccia Shenyang J-15. Si aggiungerà alla Liaoning, per ora l'unica portaerei cinese operativa, nella lotta per la supremazia nei mari asiatici”.


A fine 2018, il 5 dicembre, su “Limes” in un saggio informato e ricco di dati dal titolo “La Cina si sta facendo potenza marittima” Alberto de Sanctis osserva che “l’ascesa della Marina cinese è il frutto di un processo evolutivo articolato e profondo. Su di essa ha inciso in modo risolutivo il doppio sconvolgimento che ha colto la Cina al volgere del secolo: la scomparsa improvvisa di gravi minacce terrestri alla sua sicurezza nazionale (una su tutte: il pericolo di una grande invasione sovietica dal nord); e il progressivo superamento delle diatribe confinarie con i vicini continentali, storicamente instabili e aggressivi”. [Valutazione quest’ultima sulla quale ci permettiamo di non essere così categorici stante i rapporti con alcuni paesi ad esempio dell’Indocina, n.d.a.].

Secondo de Sanctis sullo spettacolare sviluppo della flotta da guerra cinese “a smuovere le acque furono gli eventi bellici e le crisi degli anni Novanta del secolo scorso, che palesarono il grave ritardo bellico della Cina e l’importanza strategica degli spazi marittimi. Il riferimento è alla spettacolare campagna militare imbastita da Stati Uniti e alleati durante la prima guerra del Golfo (1990-1991): operazione impensabile senza il controllo degli oceani da parte americana, che permise il trasferimento in tutta sicurezza di oltre mezzo milione di uomini e relativi equipaggiamenti dal Nordamerica al Medio Oriente. Ma anche e soprattutto allo smacco subito durante la crisi di Taiwan (1995-1996), innescata da test missilistici ed esercitazioni militari cinesi. La comparsa di due gruppi di portaerei statunitensi a supporto di Taipei evidenziò agli occhi di Pechino la necessità di rivedere dottrine operative, mezzi e ruolo della flotta. A meno di non volere affidare il proprio futuro all’incerta e forse transitoria benevolenza di Washington. Il che, come affermò anni dopo un noto analista dell’Accademia cinese di scienze sociali, sarebbe equivalso a porgere la gola al pugnale dell’avversario.

Per proseguire in maniera rapida la capacità di affrontare da una posizione di vantaggio avversari militarmente superiori, negli ultimi due decenni Pechino ha dato inizialmente priorità allo sviluppo o all’acquisizione di sistemi d’arma economici e già operativi (come sottomarini a propulsione diesel e missili antinave Cruise e balistici a lungo raggio), onde spostare più al largo possibile le prime linee difensive. (…)

Fin qui la teoria. La pratica dice che colpire un bersaglio navale con vettori basati a terra è assai difficile. Emblematico il caso del missile balistico antinave Df-21d, ribattezzato "ammazza-portaerei" per la sua (presunta) capacità di bersagliare anche le grandi unità tuttoponte della Flotta americana da oltre mille chilometri di distanza, salvo non essere mai stato testato contro bersagli marittimi, né in condizioni operative reali. Ciò non ha impedito di occupare un posto d’onore nelle strategie d’interdizione d’area cinesi: mettere anche solo in dubbio la solidità dell’avversario può infatti bastare a fiaccarne la volontà durante una crisi, disarmandolo prima che sia in grado di colpire oppure precludendogli opzioni sin lì reputate sicure e affidabili.

Concepire uno schema siffatto, che fa ampio affidamento sul rapporto di fuoco (reale e presunto) di aerei e batterie missilistiche basate a terra significava ammettere di non poter contare sulla propria flotta per assicurare la difesa del fianco marittimo. Persino in tempi più recenti, pur di sostenere le proprie rivendicazioni su di un bacino conteso come il Mar Cinese Meridionale, Pechino ha dovuto tramutare le acque in terraferma con la costruzione di isolotti artificiali guarniti di missili, radar e aerei”.

De Sanctis riporta dati che non hanno bisogno di commento: “Sotto il profilo materiale, la trasformazione ha dell’impressionante. Lungi dal concentrarsi soltanto sui programmi più rappresentativi e scenografici, quali missili balistici antinave o portaerei, Pechino ha scelto di investire a 360 gradi su ogni piattaforma e sistema d’arma della sua flotta: droni, mine, missili da crociera, velivoli, sottomarini, cacciatorpediniere, fregate corvette, pattugliatori, unità anfibie, unità logistiche, navi ospedale e sistemi comando, controllo comunicazioni di supporto. Dal 2000 al 2017, la costruzione di navi deputate a comporre la spina dorsale della flotta nel cruciale teatro operativo dei mari vicini (cacciatorpediniere, fregate, corvette e sottomarini) ha raggiunto e superato la capacità produttiva aggregata delle tre principali marine regionali nell’Indo-Pacifico (Giappone, Corea del Sud ed India), i cui programmi di espansione navale restano comunque ragguardevoli. (…) il dislocamento complessivo delle nuove navi cinesi supera quello delle Marine di Francia, Germania, India, Italia, Corea del Sud, Spagna o Taiwan. Nel triennio 2015-2017, dopo una lunga rincorsa e grazie al contributo aggregato delle oltre 150 mila tonnellate della portaerei Shandong, della prima unità di una nuova serie di navi ausiliarie e di tre rifornitrici di squadra, la produzione navale cinese ha persino sopravanzato quella americana con un dislocamento complessivo di oltre 350 mila tonnellate (contro le 150 mila statunitensi)”.

Ma – osserva l’analista – “nonostante l’impressionante produzione numerica e gli elevatissimi ratei di ingresso in linea delle nuove unità, trasformare questa massa di scafi in una temibile armata dei mari richiederà tempo, sforzi e pazienza. Più del semplice computo numerico delle navi, a incidere veramente sarà la capacità cinese di combinare tutte le risorse disponibili per conseguire cruciali vantaggi tattici e operativi in mare. La Marina cinese accusa ancora un certo ritardo in fatto di operazioni interforze, la lotta antisommergibile resta un tallone d’Achille e l’esperienza bellica è pressoché assente. (…)

Altrettanto rilevante è la partecipazione a esercitazioni militari con le flotte straniere. Russi e cinesi manovrano congiuntamente dal 2012, ma negli anni la flotta di Pechino si è addestrata con altri partner, compresa una doppia partecipazione (2014 e 2016) alla più prestigiosa e complessa esercitazione multinazionale del globo, l’americana Rimpac, prima che Washington ritirasse l’invito all’edizione 2018 per l’avvenuta militarizzazione del Mar Cinese Meridionale. Il crescente attivismo della Marina cinese si esplica anche con le sempre più frequenti campagne navali oltre la prima catena insulare. Con buona pace di Tokyo, squadre cinesi attraversano lo strategico Canale di Miyako, nelle Ryukyu giapponesi, almeno dal 2008. Assieme allo Stretto di Luzon, posto tra Taiwan e le Filippine, questo braccio di mare connette i mari cinesi al Pacifico occidentale e in caso di conflitto le sue acque diverrebbero tra le più contese. (…)

E’ però nell’Oceano Indiano che si deciderà il futuro della Cina in quanto potenza dei mari – conclude de Sanctis – Qui scorrono infatti le tratte marittime più importanti per lo sviluppo cinese. Emblematica la decisione di aprire a Gibuti la prima base cinese all’estero, per sostenere le missioni antipirateria, rafforzare la presenza nel Corno d’Africa e, in prospettiva, far capolino nelle acque della penisola europea, dal Baltico al Mediterraneo. Per la prossima installazione militare sono in lizza la penisola pakistana di Jiwani (che consente di proiettarsi sul Golfo) e l’isola cambogiana di Koh Kong, nel Golfo del Siam, oggetto di una preoccupante missiva del vicepresidente americano Mike Pence al premier Hun Sen. Nel mentre infiamma la competizione con Delhi per la preminenza su quattro stati insulari del vasto bacino (Sri Lanka, Maldive, Mauritius e Seychelles), cruciali agli occhi di Pechino per controbilanciare l’India ed espandere la propria influenza lungo la costa orientale africana.

In questo proibitivo teatro strategico, la Cina non potrà mai godere di un massiccio supporto di fuoco terrestre, dunque la Marina sarà sempre in prima linea per difendere gli interessi nazionali. (…)”.



1.5 I nemici sempre più simili e la retorica bellicosa

Ce ne è abbastanza perché gli americani mettano qualche punto fermo avviando una sempre più percepibile politica dell’irrigidimento.

In un suo discorso dell’ottobre 2018, il vicepresidente americano Mike Pence attacca la Cina a 360 gradi, dalla politica all’economia, dai diritti umani agli affari militari e agli investimenti. E avverte che la postura geopolitica ed economica di Pechino non può essere accettata dagli Stati Uniti. (Mu Chunshan, “Gli Stati Uniti non possono fermare la nostra ascesa” in www.limesonline.it, 5 dicembre 2018). Può considerarsi questa se non la data ufficiale quanto meno una data importante nella genesi progressiva della Guerra Fredda sino-americana.

E, restando sempre nel 2018, meritano attenzione le illuminanti tesi espresse da Mark Leonard in un intervento dal titolo “Stati Uniti e Cina sono nemici sempre più simili” (in “European Council on Foreign Relations”, 7 dicembre 2018).

Convincimento del saggista è che dopo anni di simbiosi economica che hanno visto gli Stati Uniti importare a basso costo e la Cina comprare titoli del tesoro statunitensi, ora, quest’ultima, sembra esser decisa a perseguire le prerogative di una superpotenza. Dal canto loro, gli Stati Uniti, non hanno risposto tanto diversamente. Ne risulta che entrambi i paesi stanno diventando sempre più simili, particolarmente nella loro convinzione che in tale competizione vi possa essere un’unica superpotenza vincitrice.

Per molto tempo si è parlato di come la competizione strategica emergente negli ultimi anni tra Stati Uniti e Cina avrebbe un giorno portato ad un confronto. Quel momento è arrivato: benvenuti alla guerra fredda 2.0. – scrive Leonard - La narrativa standard sviluppatasi intorno al conflitto sino-americano dipinge due sistemi distinti contrapposti tra loro. Per gli Stati Uniti, la Cina è una dittatura dei big-data che ha rinchiuso milioni di Uighurs in campi di concentramento, represso i cristiani, limitato i diritti civili e distrutto l’ambiente – il tutto costruendo un esercito e minacciando gli alleati regionali americani. Dal punto di vista di molti cinesi, gli Stati Uniti raffigurano l’intervenzionismo e l’imperialismo, e la guerra commerciale dell’amministrazione Trump è solamente il colpo d’inizio di un più ampia disputa economica, militare e ideologica.

Eppure, questo quadro ci porta ad una visione vecchia delle cose. Il nuovo confronto sino-americano non ha radici nelle differenze tra i due paesi ma bensì nelle loro crescenti similitudini. Cina e Stati Uniti rappresentavano lo yin e lo yang dell’economia globale, con l’America nel ruolo del consumatore e la Cina in quello del manifatturiere. Per anni, la Cina ha incanalato i surplus nell’acquisto di buoni del tesoro statunitensi, favorendo così la dissipazione americana e plasmando un accordo simbiotico che lo storico Niall Ferguson ha definito “Chimerica”.

Ma oggi “Chimerica” è qualcosa che appartiene al passato. Con la sua agenda politica del “Made in China 2015”, Xi Jinping sta portando il suo paese in cima alla catena globale del valore, nella speranza di diventare un leader nell’intelligenza artificiale e in altre tecnologie all’avanguardia. A tale scopo, la Cina ha limitato l’accesso delle compagnie occidentali ai suoi mercati, rendendolo subordinato al transfer di tecnologia e dei diritti di proprietà intellettuale ai “partner” domestici.

Mentre la Cina era impegnata a riorientare il proprio modello di sviluppo economico, contemporaneamente gli Stati Uniti hanno rimpiazzato l’approccio del lassez-faire con una strategia industriale tutta loro. Dietro alla guerra commerciale di Trump vi è il desiderio di riequilibrare il campo di gioco economico e “separare” gli Stati Uniti dalla Cina. Con entrambi i paesi fermi in una concorrenza a somma zero, il Team GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) e il Team BATX (Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi) stanno scatenando una guerra di know-how tecnico e data access su scala mondiale.

Eppure, perseguendo l’obiettivo di far fuori l’avversario nelle stesse aree, le strategie di Stati Uniti e Cina stanno diventando sempre più simili. In riposta ai tentativi di Barack Obama per creare un blocco commerciale sul Pacifico per arginare la Cina, Xi lanciò la sua Belt and Road Initiative (BRI) [da noi in Italia meglio nota come “La Via della Seta”, n.d.a.] che è ora soddisfatta da una iniziativa indo-pacifica sotto la guida americana di Trump.

I due paesi sono in un percorso simile anche militarmente. Benché la Cina abbia ancora dei recuperi da fare, la sua spesa totale sulla difesa è seconda solo a quella degli Stati Uniti: ha costruito e lanciato il suo primo portaerei e ha intenzione di lanciarne di nuovi; sta sviluppando e utilizzando sistemi di difesa anti-access/area-denial (A2/AD); e, inoltre, stabilendo la sua prima base militare oltremare a Gibuti, ha inviato il segnale di avere ambizioni globali e non solo meramente regionali.

Cina e Stati Uniti sono sempre più concordi a prediligere l’interventismo. Per la Cina questo rappresenta un netto abbandono della sua tradizionale difesa del non interventismo adottato quasi alla stregua di una dottrina religiosa. (…)

Un’altra area di convergenza sino-americana riguarda il sistema multilaterale. Nel suo discorso di “responsible stakeholder”, il Vice Segretario di Stato degli Stati Uniti Robert Zoellick ha comunicato all’occidente che le istituzioni della governance globale debbano includere la Cina o altrimenti rischierebbero di essere rovesciate. Tuttavia, per i cinesi, il coinvolgimento internazionale non è mai stata un’alternativa. Quindi, piuttosto che diventare uno stakeholder responsabile nell’ordine guidato dagli Stati Uniti, la Cina sta sviluppando ciò che potrebbe essere descritto come un internazionalismo con caratteristiche cinesi.

Di conseguenza, la Cina ha sfruttato l’appartenenza a istituzioni dominate dall’occidente allo stesso tempo sfidandole e costruendo un proprio sistema parallelo. Tuttavia, come dimostra la struttura della BRI, l’immaginario dell’ordine mondiale cinese non è fondato sul multilateralismo ma bensì su relazioni bilaterali tra stati. Affrontando i governi singolarmente, la Cina può negoziare da una posizione di forza e imporre le proprie condizioni.

La dottrina “America First” di Trump incarna la stessa visione per gli Stati Uniti. Sia Trump sia Xi hanno adottato un messaggio di rinnovamento nazionale. Questo ha portato Xi a sostituire la tradizionale politica estera della Cina fondata sulla moderazione e la cooperazione tattica, con una strategia fondata sul perseguimento della grandezza nazionale. Entrambi i leader hanno in misura crescente concentrato le decisioni di politica estera nelle proprie mani, andando a destabilizzare l’equilibrio dei sistemi di governance di altri paesi”.

Considerate le premesse e il filo logico dell’analisi non sono certo rassicuranti le conclusioni a cui perviene Leonard: “Malgrado la “guerra 2.0” non sia caratterizzata dallo scontro di ideologie utopiche che caratterizzarono l’originale, la metafora è senza dubbio adeguata. Come la precedente, questa guerra vedrà scontrarsi due superpotenze in disaccordo su come il mondo debba essere organizzato ma d’accordo sul fatto che vi possa essere un solo vincitore”.


Anche sul piano verbale i contendenti non disdegnano un linguaggio crudo, esplicito. Indicativo di un clima sempre più surriscaldato. In un articolo dal titolo “ “Gli Usa hanno paura di morire”. La Cina si prepara alla guerra?” del 5 gennaio 2019 su “it.insideover.com” Paolo Mauri esordisce proprio con una frase ad effetto di un alto ufficiale e teorico militare cinese: “Gli Stati Uniti temono la morte”. Non sono le parole della propaganda salafita o del leader della Corea del Nord, ma quelle del vice ammiraglio della marina cinese Luo Yuan, teorico militare presso l’Accademia delle Scienze Militari del Pla (People’s Liberation Army) [l’esercito cinese, n.d.a.]. 

Lo scorso 20 dicembre, come riporta il sito National Interest, l’ammiraglio, durante un discorso tenuto nella città di Shenzen, ha apertamente espresso il suo animo bellicoso affermando: “Adesso abbiamo i missili Dong-Feng-21D e Dong Feng-26. Questi sono killer di portaerei. Attacchiamo e affondiamo una delle loro portaerei. Infliggiamo loro 5mila perdite umane. Attacchiamo e affondiamo due portaerei, 10mila perdite. Vediamo se gli Stati Uniti hanno paura o no?”. 

Quello dell’ammiraglio Luo Yuan non è un caso isolato. Non si tratta di un falco che parla per sé stesso, ma rappresenta una linea politico/strategica condivisa da alcuni esponenti delle Forze Armate cinesi e da elementi di spicco del Partito Comunista Cinese.

Ancora a dicembre, Dai Xu, presidente dell’Istituto di Sicurezza e Cooperazione Marittima di Pechino e colonnello dell’Aeronautica Militare Cinese, durante una conferenza nella capitale, aveva espressamente affermato che un incidente nel Mar Cinese Meridionale con la Us Navy sarebbe auspicabile per poter rispondere in modo adeguato e scatenare un conflitto che porterebbe, come conseguenza, alla riunificazione di Taiwan alla Cina.

Accelererebbe il processo di unificazione con Taiwan… Cerchiamo solo di essere preparati e di aspettare. Una volta che si paleserà l’opportunità strategica dobbiamo essere pronti per attaccare Taiwan” sono state le parole del colonnello.

Anche al di fuori del mondo militare, come detto, la narrazione è altrettanto bellicosa. Secondo alcuni accademici cinesi, come il professor Huang Jing, la politica estera americana non è più in grado di competere con quella cinese nell’attrarre consenso e supporto di altri attori della regione asiatica. 

In Cina, quindi, soffia un vento diverso, un vento foriero di nuvole tempestose ed è proprio grazie alla nuova politica di Xi Jinping – ed alle attuali congiunture internazionali – che questa filosofia bellicosa sta prendendo piede. Lo stesso Xi ha recuperato, come noto, la filosofia maoista di accentramento del potere che ha portato con sé il recupero della retorica antiamericana. 

Le epurazioni condotte da Xi di elementi corrotti all’interno dell’establishment – sia tra i militari sia tra i funzionari di partito – oltre a provocare malumori hanno accentuato questa virata “ideologica” del PCC e del PLA. Eliminate le mele marce posti chiave sono stati affidati a uomini di comprovata fiducia “Jinpinghista” e meno avvezzi al traccheggio e al mercantilismo che aveva generato la corruzione che rischiava di frenare la svolta di ringiovanimento della Cina voluta dal presidente.

Il cambio di atteggiamento verso gli Usa però – continua Mauri - non è solo una questione filosofica, ma è stato anche dettato da particolari ragioni contingenti presenti e del passato più o meno recente.

Il segnale che ci sia attualmente una piccola rivoluzione all’interno del Comitato Centrale è stato dato anche dal fatto che la quarta assemblea plenaria è stata posticipata.

La ragione, individuata da diversi analisti, è proprio perché l’attuale guerra commerciale che gli Stati Uniti stanno muovendo alla Cina sta cominciando ad avere i suoi effetti andando ad intaccare il bilancio del sistema socio-economico. “La politica Usa verso la Cina si è spostata marcatamente dalla cooperazione alla competizione, uno sviluppo che minaccia la sopravvivenza del regime” ha fatto notare il sito SinoInsider lo scorso ottobre “pertanto Xi Jinping ha la necessità di radunare le élite del partito in sessione plenaria per poter affrontare in un solo momento le crisi interne ed esterne”.

La guerra dei dazi di Trump, però, non va letta come un attacco diretto alla Cina, anche se de facto si tratta di questo, ma come una necessità dettata da considerazioni di economia interna: rendere i prodotti statunitensi più competitivi sul mercato globale e rilanciare la produzione nazionale. Niente di più del “America First” propagandato in campagna elettorale dal Presidente Usa.

La retorica bellicosa della Cina, però, non è solamente legata alla competizione sul piano economico. Pechino, oggi, si sente più forte perché, anche al netto delle novità tecnologiche nel campo degli armamenti, gli Stati Uniti hanno abdicato al loro ruolo di gendarmi del mondo in particolare nello scacchiere asiatico, dove la politica del Pivot to Asia di Obama è stata un totale fallimento, col senno del poi.

Se infatti gli analisti cinesi sono in grado di dire che Washington non è più il punto di riferimento per i Paesi asiatici è proprio perché gli Stati Uniti hanno sottovalutato quello scacchiere con scelte sbagliate effettuate dall’amministrazione precedente. Per onor di verità anche le parole di Trump a poca distanza dal suo insediamento hanno contribuito, negli alleati asiatici degli Usa, a fomentare quel sentimento di “abbandono” che è così ben evidenziato dalla corsa al riarmo effettuata dal Giappone, ma tuttavia l’attuale amministrazione ha avuto il pregio di aver parzialmente risolto, o quantomeno congelato, la crisi nordcoreana anche e soprattutto grazie alle dimostrazioni di forza militare”.

Quello che si chiede Mauri è se sarà guerra. Domanda alla quale risponde così: “Uno scontro armato, magari per la questione della libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale, ormai considerato da Pechino come “acque territoriali”, non è da escludere. Come reazione ad una eventuale scaramuccia da quelle parti, la Cina potrebbe, come abbiamo visto, approfittarne per risolvere la questione di Taiwan. 

Il problema però risulta nascere dall’escalation che ne deriverebbe. Pechino sa che, nonostante i suoi missili “killer di portaerei” ed i nuovi sistemi ipersonici, il suo arsenale atomico impallidisce davanti a quello statunitense, e gli Stati Uniti non hanno alcun interesse ad essere i primi a premere il bottone di un conflitto atomico che raderebbe al suolo la Cina. 

In quel di Pechino però sanno che negli Usa stanno mettendo a punto nuove armi atomiche tattiche – o di basso potenziale – così come sanno che sono in possesso di armi convenzionali di alta potenza ed elevatissima precisione che potrebbero essere impiegate per un attacco preventivo seguendo la dottrina del Prompt Global Strike

In questo momento gli Stati Uniti sono in una delicata fase di transizione e di rimodernamento delle proprie Forze Armate che devono recuperare il gap tecnologico almeno sulle armi ipersoniche e si trovano ad affrontare enormi problemi di gestione della manutenzione delle proprie linee di volo. Questo fattore potrebbe quindi invogliare i falchi di Pechino a fare la prima mossa contando proprio sulla debolezza del proprio avversario sapendo che non impiegherebbe il proprio arsenale atomico perché vorrebbe dire assumersi una responsabilità troppo grande agli occhi della comunità globale. 

D’altro canto la Cina non sarebbe nemmeno pronta per un conflitto su vasta scala perché non possiede ancora quegli asset per la proiezione di forza – come le portaerei – in numero tale da poter efficacemente supportare operazioni anfibie a grande distanza. In questo momento però Pechino si sente abbastanza forte da poter minacciare quei territori più vicini ai propri confini, come Taiwan, le isole Senkaku ed il Mar Cinese Meridionale, che rientrano perfettamente nel proprio ombrello difensivo”.



1.6 Usa e Cina, i rapporti di forza


Andrea Gilli e Mauro Gilli, rispettivamente ricercatori presso il “Nato Defense College” di Roma e il “Center for Security Studies” del Politecnico di Zurigo sono coautori di una ricerca dal titolo “Why China has not caught up yet” dedicata alla competizione tra le due superpotenze in campo tecnologico e militare. Secondo i due autori alla Cina non manca molto sul piano tecnologico per assurgere al ruolo di superpotenza globale ed eguagliare gli Stati Uniti. Sul piano militare e strategico invece le distanze sono ancora notevoli. Queste conclusioni sono state oggetto di due interviste dalle quali emergono spunti particolarmente interessanti. Nella prima - rilasciata a Enrico Casini e Michele Pierri e pubblicata il 14 aprile 2019 su “Europaatlantica.it” con il titolo “Gli Usa domineranno ancora la competizione tecnologico-militare (nonostante la Cina)” e in contemporanea su “Formiche.it” - Andrea Gilli osserva tra l’altro che “le più grandi aziende di software al mondo sono quasi tutte nate nei Paesi occidentali: il fatto che queste aziende abbiano una posizione di leadership spesso decennale e che rivali da Cina o Russia non siano emersi evidenzia quanto difficile sia sviluppare o anche solo copiare il software.
Nel campo militare, tutto ciò è ancora più vero per due semplici ragioni. Da una parte, la complessità delle piattaforme è ancora più elevata, per via della necessità di dover neutralizzare sistemi e contro-misure nemiche e quindi di operare in contesti ambientali al limite”. E aggiunge: “Il nostro lavoro suggerisce che la superiorità tecnologica americana non verrà raggiunta facilmente e velocemente. Le risorse investite possono aiutare a ridurre i tempi, ma come argomentiamo a livello teorico e dimostriamo empiricamente, le risorse finanziarie bastano fino ad un certo punto. In secondo luogo, molto dipenderà da cosa Stati Uniti e Cina faranno negli anni a venire. Gli Stati Uniti, per esempio, potrebbero smettere domani di investire in tecnologia militare, magari per finanziare infrastrutture o welfare a livello domestico. Allo stesso modo, il successo della Cina dipenderà dalle sue scelte interne, a partire dalla politica nel campo dell’istruzione. A ciò vanno aggiunte considerazioni più dettagliate sulla superiorità tecnologica futura. Gli Stati Uniti, come anche la Cina, stanno cercando di capire come sfruttare l’intelligenza artificiale e in particolare varie tecniche di
machine learning, così come il progresso nel campo dei sensori, dei materiali e dei processori per il futuro. La nostra ricerca suggerisce che queste nuove tecnologie supportano, ma non sostituiscono, le attuali capacità militari. Di conseguenza, il primato tecnologico futuro nel campo militare dipenderà tanto da capacità industriali tradizionali che dalla capacità di integrarle con competenze più recenti”.


Considerazioni riprese ed estese anche alla terza superpotenza in campo - o, per meglio dire, alla finestra, la Russia - ed al suo possibile ruolo in una intervista ai due, anche in questo caso di Enrico Casini, pubblicata sul sito “Formiche.it” il 14 dicembre 2019 con il titolo “Cina vs Usa. Mauro e Andrea Gilli spiegano perché Pechino è un passo indietro”.

Ecco alcune valutazioni dei due studiosi. “Le capacità militari vanno valutate non solo in termini assoluti, ma anche relativi e per aree specifiche. Per esempio, un Paese può avere forze terrestri estremamente avanzate, ma essere invece in ritardo sulla parte aerospaziale. Allo stesso modo, un Paese può sviluppare navi da guerra di primario livello, ma pur sempre inferiori a quelle avversarie. C’è poi una terza considerazione aggiuntiva: le capacità militari non significano solo armamenti. Un carro armato senza combustibile, truppe che lo adoperano, mezzi di ricognizione che identificano minacce, è di poca utilità. Fatte queste premesse, sulla Cina possiamo fare tre affermazioni.

Le sue capacità militari sono cresciute enormemente, anche grazie alla sua spesa militare cresciuta, stando ai dati ufficiali (quindi probabilmente tenuti al ribasso) del 3000% tra il 1991 e il 2016. Il divario relativo con gli altri Paesi, soprattutto con gli Stati Uniti, è stato ridotto ma non annullato. Le più avanzate tecnologie militari cinesi sono infatti almeno una generazione indietro a quelle americane. Infine, alle forze armate cinesi manca esperienza pratica, ovvero la prova del fuoco. Non sappiamo dunque come opererebbero sul campo. Per fare un esempio, nel 1991 l’Iraq di Saddam Hussein aveva uno dei più grandi eserciti al mondo. Venne sconfitto in una delle più devastanti vittorie militari della storia. Ciò solo per dire quanto gli indici numerici possano essere poco indicativi, in un senso o in un altro”.

Quanto invece alla domanda “Come si colloca la Cina a livello militare nel confronto con potenze globali come Usa e Russia?” ecco la risposta: “Dipende dal contesto. Su alcuni ambiti tecnologici, quali per esempio aerei da combattimento, la Cina è ancora indietro anche rispetto alla Russia, tanto che deve copiarne e importarne la tecnologia. In altri ambiti, quali cyber, spazio o nuove tecnologie — dall’intelligenza artificiale al 5G — la Cina è più avanti. Rispetto agli Stati Uniti è probabilmente più indietro in quasi tutti i campi, salvo quelli nei quali, per varie ragioni, magari gli Stati Uniti hanno smesso di investire mentre la Cina ha puntato molto, anche perché emergenti. La Cina è però oramai una potenza in grado di operare ampiamente in giro per il mondo, non al livello degli Stati Uniti, ma superiore alla Russia.

Nel campo dell’intelligenza artificiale, molti sono preoccupati dalla crescita cinese. Se però guardiamo gli studi accademici più citati, vediamo come la Cina rimanga indietro — nonostante sia pur sempre in crescita. Allo stesso modo, siamo in un’era in cui big data stanno esplodendo. Con il miglioramento degli algoritmi, però, in futuro l’accesso a grandi dataset potrebbe diminuire d’importanza. Dunque il fatto che la Cina sia avanti in questo campo, o che abbia accesso a un’enormità di dati, è indicativo fino ad un certo punto.

Sappiamo che, dal punto di vista delle tecnologie militari più avanzate — caccia di quinta generazione, sottomarini a propulsione nucleare e simili — la Cina non ha ancora raggiunto gli Stati Uniti. In altri campi, quali il 5G, la Cina è avanti anche per colpe americane: le frequenza del 5G negli Usa sono di esclusiva militare e dunque, le aziende private non vi potevano investire facilmente. La verità è che il passato, il presente e il futuro saranno determinati dal fattore umano. Può sembrare un paradosso, ma pensiamo a due ragazzi che giocano alla Playstation. Il software è lo stesso. Vince quello con maggiori capacità. Lo stesso vale nel campo della competizione. Più aumenta il ruolo della tecnologia, più aumenta l’importanza del fattore umano. E gli Usa, per il momento, sono ancora avanti — così come l’Europa”.

Tranchant, [a nostro modesto avviso forse un po’ troppo riduttiva, n.d.a.], la risposta dei Gilli alla domanda “E invece la Russia, che ruolo potrà giocare nel confronto con il mondo occidentale e nel rapporto con la Cina”?

La Russia è una potenza in declino: economico, tecnologico, militare. Molto dipenderà dalla permanenza di Putin al potere. Per il resto, la Russia rappresenta una minaccia localizzata a specifiche regioni ma che è destinata ad essere sempre più in difficoltà negli anni a venire — a meno di maggiori riforme che però non sono ben viste dal circolo intorno al Cremlino”.

Quali potranno essere le regioni geografiche e le questioni strategiche su cui si potrebbero concentrare la competizione e il confronto nei prossimi anni? Geograficamente, la competizione vera sarà laddove si apriranno delle opportunità di influenza o di potere. Se l’Europa dovesse spaccarsi, per esempio, è chiaro che ciò risveglierà l’appetito di potenze esterne. Per fortuna non sembra ciò possa avvenire a breve. Per il resto il Pacifico Occidentale, il Mar Nero, i Baltici e l’Africa sono di sicuro regioni ad alto potenziale geopolitico. Per quanto riguarda le questioni strategiche, di sicuro le infrastrutture dei dati saranno sempre più importanti, così come le questioni climatiche anche perché accordi sul riscaldamento globale hanno importanti ripercussioni industriali. Un’altra area in cui ci sarà di sicuro competizione riguarda la regolazione, e l’etica, dei dati e degli algoritmi”.

E la Nato? L’Alleanza ha aumentato la sua attenzione verso la Cina e l’area indo-pacifica nel corso degli ultimi anni.

La Nato è un’alleanza atlantica – osservano i due studiosi - ma se il mondo diventa a trazione pacifica ciò ha sicuramente delle implicazioni per la natura e la struttura dell’Alleanza. Non vogliamo dire cosa la Nato dovrebbe fare. Ma la crescita demografica, economica, tecnologica e militare della Cina altera gli equilibri mondiali ed è naturale che la più forte Alleanza militare della storia guardi alle sue implicazioni. L’espansione cinese in Africa e in Europa, anche per la questione del 5G, ha sicuramente accelerato pensieri che la Nato aveva già da tempo. (…) La Nato però svolge già un ruolo globale. È in Afghanistan dal 2002. Fa capacity-building in Africa e Medio Oriente dove anche intrattiene vari tipi di relazione. Ha come partner il Giappone, la Corea del Sud e l’Australia così come la Colombia. Se pensiamo che le minacce che provengono dalla tecnologia stiano riducendo il ruolo della geografia, è ovvio che un ruolo globale più marcato è d’obbligo”.



1.7 Il nuovo nemico della Nato? Tutto lascia prevedere che sarà la Cina


Già, la Nato. “La Cina è il nuovo nemico della Nato?” è il titolo senza tante perifrasi di un articolo di Violetta Silvestri su “Money.it” del 19 dicembre 2019.

Inizierà domani il vertice dell’Alleanza Atlantica, portando innanzitutto un interrogativo: la Cina è il nuovo nemico della Nato?

La domanda è più che lecita leggendo lo scenario geopolitico mondiale del momento. E, soprattutto, stando alla strategia di Donald Trump, alle prese con la guerra commerciale e con l’aspra battaglia contro i cinesi.

Pechino ha ormai raggiunto livelli di importanza economica, militare e di influenza politica che non si possono sottovalutare. Questo spiega perché, per la prima volta, nell’agenda del vertice Nato – spiega l’autrice - c’è una discussione sulla grande nazione asiatica. Gli Stati vogliono capire se davvero la Cina è il nuovo nemico dell’Alleanza.

Sono le parole dirette del Segretario Generale dell’Alleanza Atlantica a mettere in guardia sulla potenza asiatica:

Quello che vediamo è che il crescente potere della Cina sta spostando l’equilibrio globale del potere e la sua ascesa - economica e politica - offre alcune opportunità ma anche alcune sfide serie.”

Con questa sintetica analisi Jens Stoltenberg ha affermato alla CNBC che una questione cinese esiste tra i 29 Stati membri dell’alleanza militare occidentale.

Non possono essere ignorati, infatti, i progressi portati avanti finora da Pechino, ormai presente in modo massiccio in Africa, nell’Artico, nel cyber spazio. Senza dimenticare che la nazione asiatica vanta il secondo posto mondiale per la spesa nella difesa.

In più, la potenza cinese sta crescendo a ritmi importanti nell’ambito della tecnologia, con il progetto 5G già ampiamente avviato e avvertito come minaccia in primis dagli USA.

L’approccio nei confronti della Cina non dovrà essere quello di una chiusura bellicosa nei confronti di un nuovo nemico secondo le parole del Segretario Nato.

Ma è evidente che la discussione su come affrontare il grande impero asiatico è sul tavolo perché impensierisce la più importante alleanza militare.

Nel pieno della guerra commerciale dagli esiti ancora incerti e, soprattutto, nel cuore di una vera battaglia contro la Cina anche su fronti esterni come Hong Kong, gli USA potrebbero giovare dell’appoggio della Nato.

Probabilmente, come sottolineano gli analisti, Donald Trump cercherà di convincere le nazioni occidentali, soprattutto quelle europee, dell’esistenza di un pericolo cinese.

Il Presidente Usa è preoccupato anche delle rivalità tra nazioni nel Mare Cinese Meridionale, importante passaggio di merci, delle quali un quarto statunitensi.

Washington tenterà di unire l’Alleanza nell’allerta contro Pechino, nuovo nemico che si aggiunge alla Russia. Le capacità militari in mano ai cinesi, inclusi missili intercontinentali a lungo raggio che possono raggiungere l’Europa e il Nord America verranno esaminate attentamente.

La Nato, data per morente secondo alcuni Paesi come la Francia, potrebbe trovare – conclude Violetta Silvestri - obiettivi strategici nuovi nella difesa contro la Cina”.



1.8 La competizione tecnologica: Huawei e 5G


Apriamo ora il capitolo tecnologia o, con maggiore precisione di linguaggio, il capitolo della competizione tecnologica. E’ incredibile come a volte basti uno slogan od addirittura una parola per sintetizzare mille concetti. La competizione tecnologica tra Cina e Usa, senza esclusione di colpi, si riassume in due sole parole: “Huawei” e “5G” o, per guardare più in là al futuro, “6G”. Il perché lo analizza con efficacia Fabio Vanorio sul sito www.startmag.it (StartMagazine è un magazine dedicato all’innovazione ed alla crescita) il 3 maggio 2019 in un esaustivo contributo dal titolo “Huawei-Usa. Come la competizione nel 5G e 6G avrà ripercussioni su difesa, intelligence e sicurezza globali”. Osserva tra l’altro Vanorio, dirigente in aspettativa del nostro Ministero degli Esteri, studioso di economia della sicurezza nazionale e di rapporti tra intelligenza artificiale e crescita economica: “(…) Recentemente, i senatori repubblicani Tom Cotton, (Arkansas) e John Cornyn (Texas), entrambi membri del Select Committee on Intelligence del Senato, hanno identificato Huawei come un “cavallo di Troia” del governo cinese (la CIA statunitense avrebbe provato l’esistenza di finanziamenti provenienti dal People’s Liberation Army, [ossia dall’Esercito Cinese, n.d.a.], dalla National Security Commission cinese e da una terza branca del sistema di intelligence cinese) tramite il quale Pechino intenderebbe raggiungere il controllo dei vertici di comando digitali del mondo. (…)

Nel caso di impiego di infrastrutture di rete cinesi, anche i più rigorosi test tecnici pre-impiego non possono impedire all’intelligence di Pechino di accedere alle informazioni che fluiscono tra i paesi partner, arrivando a poter anche negare il servizio in caso di conflitto. (…)

Negli Stati Uniti vi è una forte preoccupazione relativa alla condivisione dello spettro di proprietà del governo con il settore commerciale. (…)

Per la velocità e la latenza assicurate, il 5G consente un trasferimento dei dati quasi permanente. Ciò crea vulnerabilità in presenza di backdoor nascoste o semplicemente di impiego di apparecchiature Huawei nelle reti. D’altro canto bandire l’hardware Huawei non garantisce la protezione assoluta delle reti. Anche in assenza di apparecchiature Huawei, i sistemi possono fare affidamento su software sviluppato in Cina che può essere riprogrammato a distanza. (…)

Il 4 aprile scorso, il Defense Innovation Board statunitense ha pubblicato un rapporto che illustra i rischi e le opportunità per gli Stati Uniti nella competizione militare per lo sviluppo della rete 5G.

Storicamente, le forze armate statunitensi hanno sempre ottenuto enormi vantaggi dall’utilizzo di tecnologie all’avanguardia direttamente in teatri di guerra. La tecnologia 5G ha un potenziale innovativo sia sul miglioramento delle comunicazioni militari, sia sullo sviluppo di tecnologie militari legate alla robotica e all’intelligenza artificiale. Ad esempio, le capacità di intelligenza artificiale e di apprendimento automatico utilizzate dal Dipartimento della Difesa in Project Maven troverebbero miglioramenti notevoli sfruttando le velocità di elaborazione dei dati rese possibili dall’infrastruttura 5G.

In presenza di un dominio globale cinese nello sviluppo della tecnologia 5G, gli Stati Uniti e i loro alleati devono, dunque, considerare attentamente le implicazioni tattiche e operative del condurre in teatro operazioni convenzionali o di controinsurrezione in aree dove siano presenti infrastrutture 5G di proprietà o gestite da Pechino.

In assenza di una simile valutazione, l’integrità dei sistemi di comunicazioni militari statunitensi che si basano su reti 5G potrebbe essere compromessa nelle fasi chiave di un’operazione. Ad esempio, se gli Stati Uniti stanno conducendo un’operazione militare in un’area di interesse per la Cina (come il Mar Cinese meridionale, ad esempio, o l’area Indo-Pacifica), è plausibile che il governo cinese possa sfruttare Huawei per intercettare o bloccare le comunicazioni militari. Il predominio cinese delle infrastrutture 5G di telecomunicazione in un teatro di operazioni può limitare la capacità militare degli Stati Uniti di condurre un targeting di precisione che sfrutti la raccolta di informazioni sui segnali sulle reti di telecomunicazioni 5G. Come evidenziato dal Comandante di AFRICOM, Thomas Waldhauser, questa tipologia di scontro sul 5G con la Cina è già realtà in Africa. (…)

La decisione del National Security Council britannico, pur aprendo ad indubbi benefici interni all’economia britannica, rende i comparti dell’intelligence e della sicurezza nazionali vulnerabili nei confronti di terzi e comporta rischi di compromissione nella cooperazione in materia di intelligence nell’ambito di accordi come il “Five Eyes Agreement”), o la Nato, minandone le fondamenta basate sulla salvaguardia della informazioni poste in circolazione nel suo ambito.

Con le defezioni di Regno Unito, Nuova Zelanda e Canada, l’Australia – attualmente – è l’unico membro dell’accordo Five Eyes – a parte gli Stati Uniti – che ha ribadito il divieto totale di uso delle apparecchiature di telecomunicazione cinesi. Una delle ultime decisioni dell’ex Primo Ministro australiano, Malcolm Turnbull, fu proprio quella di vietare alle TelCo cinesi di far parte della rete 5G australiana così da evitare compromissioni. Finora la posizione è stata confermata ma la fermezza di Canberra nel mantenere in futuro questo divieto sarà presto messa alla prova.

La Cina, infatti, è il maggiore partner commerciale dell’Australia e, come verosimile ritorsione, nel gennaio scorso ha ritardato lo sdoganamento del carbone australiano attraverso i suoi porti per “addizionali” controlli di conformità ambientale. (…)

La Cina ha recentemente annunciato di aver iniziato a lavorare sul 6G utilizzando l’Internet of Things come uno dei suoi principali driver. In generale, Internet tattile, Internet of Skills e veicoli autonomi, tutte queste applicazioni entreranno nelle dinamiche 6G in un modo che non sarà mai stato possibile per il 5G. La Realtà Virtuale diventerà un’applicazione di supporto obbligatoria nel momento in cui 6G inizierà la standardizzazione e questo guiderà le velocità dei dati individuali a livelli più elevati di qualsiasi altra applicazione che conosciamo finora.

Un sistema costruito su milioni di ripetitori cellulari, antenne e sensori – conclude Vanorio - offrirà un potenziale di sorveglianza precedentemente impensabile già con il 5G. Il 5G provvederà a catalogare esattamente da dove arriva qualcuno, dove sta andando e cosa sta facendo. Abbinato al riconoscimento facciale e all’intelligenza artificiale, i flussi di dati e le capacità di localizzazione di 5G renderanno l’anonimato un artefatto storico”.



1.9 Armati fino ai denti


Accanto alla supremazia tecnologica nella competizione strategica tra Cina e Stati Uniti un altro fondamentale indicatore da tenere d’occhio è la spesa militare. Nel 2018 la spesa mondiale destinata alla difesa raggiunge lo stratosferico importo di 1,82 trilioni di dollari. E, come scrive Alessandra Colarizi” su “Il Fatto Quotidiano” il 5 maggio 2019 “A spendere di più sono Usa e Cina. E Pechino vuole diventare una grande potenza militare entro il 2050”. “Mentre i negoziati commerciali tra Cina e Stati Uniti proseguono senza sosta, - scrive la redattrice - permane il sospetto più o meno condiviso che la rimozione delle tariffe incrociate non basterà a placare una rivalità ormai trasversale. Dalla supremazia tecnologica alla definizione di nuove “alleanze” sullo scacchiere globale. Un’ultima conferma arriva dal rapporto annuale dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), istituto internazionale indipendente specializzato in peace studies, secondo il quale, grazie alla spinta militarista di Washington e Pechino, nel 2018 la spesa mondiale destinata alla Difesa ha raggiunto la cifra astronomica di 1,82 trilioni di dollari, un 2,6% in più rispetto all’anno precedente. Si tratta della somma più elevata mai registrata a partire dal 1988, anno in cui i dati sono diventati per la prima volta disponibili.

A guidare la classifica troviamo come sempre gli Stati Uniti con 649 miliardi di dollari, un 4,6% in più su base annua – pari al 36% della spesa militare globale e quasi quanto investito complessivamente dai seguenti otto paesi messi insieme. Secondo il report, nonostante la riduzione del numero delle truppe statunitensi in zone di conflitto come l’Afghanistan, le statistiche rivelano il primo incremento americano dal 2010. Un trend destinato probabilmente a salire, considerata la richiesta del Pentagono per l’approvazione di un budget totale di 750 miliardi di dollari da investire nel 2020 per “accrescere la prontezza e la letalità” delle forze armate americane e rispondere al meglio alla competizione strategica con le potenze eurasiatiche in ascesa. Come spiega il Sipri, “l’aumento della spesa negli Stati Uniti è stato determinato dall’attuazione, dal 2017, di nuovi programmi di acquisizione di armi sotto l’amministrazione Trump“.

Sebbene con largo distacco, il secondo gradino del podio è andato alla Cina, che con 250 miliardi di dollari ha regalato alla Difesa un 5,0% in più su base annua, mettendo a segno il 24esimo aumento consecutivo. Una somma ragguardevole – sebbene ancorata all’1,9% del Pil fin dal 2013 – che supera largamente l’obiettivo ufficiale per l’anno in corso (177,61 miliardi di dollari) includendo tutte quelle voci di spesa che sfuggono al computo reso noto ogni marzo dal parlamento cinese. Anche secondo le stime governative, se comparato con le altre priorità nazionali, un aumento stimato del 7,5% del budget militare resta superiore al target di crescita economica (tra il 6 e il 6.5%). Per le autorità comuniste, la somma “è giustificata dal bisogno di salvaguardare la propria sicurezza nazionale e di portare avanti un piano di riforme militari con caratteristiche cinesi”. Massima priorità, dunque, “alla difesa della sovranità e della sicurezza territoriale” – specie nello Stretto di Taiwan e negli arcipelaghi contesi del Mar cinese – ma rigorosamente con scopi difensivi: non si prefigura “alcuna minaccia per l’ordine mondiale”. Quali che siano le reali intenzioni delle due superpotenze, secondo Nan Tian, ricercatrice del Sipri, “nel 2018 gli Stati Uniti e la Cina hanno contato per metà della spesa militare mondiale”. Complice il rallentamento della Russia, ormai fuori dalla top 5, e del Medio Oriente, in declino dell’1,9%.

Schermaglie marittime a parte, Pechino dal canto suo persegue un traguardo ben preciso: rendere la Cina una grande potenza militare entro il 2050. A tal fine, nel 2015 il presidente Xi Jinping – che è anche capo delle forze armate – si è fatto promotore di una riforma dell’esercito senza precedenti volta a snellire numericamente gli apparati militari per migliorare l’efficienza dopo decenni di lontananza dal campo di battaglia. Appena pochi giorni fa il leader ha presieduto le celebrazioni per il 70esimo anniversario della Marina – la quinta parata militare da quando ha assunto l’incarico – a cui hanno partecipato tredici paesi. L’assenza degli Stati Uniti, sommata al crescente attivismo di Washington in prossimità delle isole contese in sostegno degli alleati asiatici e delle rotte commerciali internazionali, smaschera una rivalità direttamente proporzionale all’influenza esercitata da Pechino in termini economici.

La Cina si è conquistata ben 23 menzioni nella National Security Strategy – annunciata dall’amministrazione Trump nel dicembre 2017 – che secondo l’istituto Carnegie Endowment for International Peace ricalibra per la prima volta le priorità difensive americane dall’attentato dell’11 settembre, ridefinendo il ruolo di Pechino da partner nella risoluzione dei dossier globali a competitor.

Mentre il gap nella spesa militare rimane incolmabile nel breve periodo, l’insofferenza americana sembra più che motivata. Non solo nel 2017 il gigante asiatico ha superato gli States per numero di sottomarini e navi da guerra (317 contro 283). Secondo un report speciale della Reuters – grazie alle limitazioni autoimposte da Washington e Mosca nell’ambito del trattato Inf – la Cina – che non è tra i firmatari – si è aggiudicata un semi monopolio sullo sviluppo di missili convenzionali in grado di colpire le portaerei statunitensi al largo della costa americana, le basi in Giappone o persino Guam, nell’Oceano Pacifico. “Non possiamo sconfiggere gli Stati Uniti in mare”, spiega un colonnello in pensione dell’Esercito popolare di liberazione, “ma abbiamo missili che mirano specificamente alle portaerei per impedir loro di avvicinarsi alle nostre acque territoriali in caso di conflitto” ”.


Abbiamo letto sopra documentate opinioni di ricercatori e studiosi convinti che la Cina sia ancora indietro rispetto agli Stati Uniti quanto a potenza strategica globale. E probabilmente così vanno le cose. Ma secondo un Centro Studi dell’Università australiana di Sidney già un alcuni scacchieri gli Stati Uniti hanno perso la loro egemonia. Lo scacchiere messo sotto osservazione – siamo nel mese di agosto dell’anno scorso – è quello, vastissimo, dell’area che si affaccia all’Oceano indiano e all’Oceano Pacifico. Come scrive nel suo lancio l’Agenzia “Askanews” il 19 agosto 2019, “gli Stati uniti non sono più la potenza egemone nell’area Indo-Pacifico, a fronte di una Cina sempre più assertiva ed efficiente, e per mantenere un grip sulla regione dovrebbe incrementare le capacità di difesa collettiva con i suoi alleati regionali, a partire dal Giappone. Lo sostiene uno studio diffuso dal think tank United States Studies Center (USCS), che è attivo presso l’Università di Sidney.

Secondo il rapporto, le forze Usa non sono preparate alla competizione tra potenze nella regione, per il combinato disposto di diversi fattori: il focus sui conflitti in Medio Oriente, l’austerity nei budget della difesa, la mancanza di investimenti nelle capacità militari e l’eccessiva ambizione nell’agenda di costruzione di un mondo liberale da parte degli Usa.

La Forza congiunta Usa – cioè la forza combinata dei suoi cinque servizi militari – non ha più le risorse, la struttura, la leva tecnologica o i contatti operativi per assolvere pienamente i suoi impegni globali”, si legge nel rapporto. “La sua capacità di trovare equilibri regionali di potere favorevoli – continua – che disincentivino le grandi potenze sfidanti è sempre più in dubbio”.

Il rapporto segnala che, mentre nel 1995 gli Usa e i loro alleati erano responsabili dell’80 per cento della spesa mondiale per la difesa, oggi questa quota è scesa al 52 per cento.

La Strategia di difesa nazionale Usa del 2018, in qualche modo, ha cercato di rimettere le cose nel corso giusto, riallineando la priorità strategica sulla competizione tra potenze statuali rispetto al precedente focus sul terrorismo transnazionale. In particolare, come minaccia, il documento ha individuato la Cina.

Pechino ha talmente rafforzato i suoi sistemi anti-intervento Usa, da essere in grado di utilizzare una forza limitata per imporre dei fatti compiuti prima che gli Usa possano rispondere. Questa situazione potrebbe essere “devastante” per l’equilibrio di poteri nell’Indo-Pacifico e “per la stabilità della rete di alleanze americana”. In particolare, la politica di proiezione cinese, che punta a costruire una catena insulare di difesa, in una crisi, potrebbe portare Pechino a occupare le isole Ryukyu, che sono territorio giapponese, che darebbe alle forze cinesi un enorme vantaggio, da un punto di vista militare.

L’incapacità Usa di proteggere il territorio degli alleati, potrebbe “esacerbare le crescenti preoccupazioni sulla capacità e volontà dell’America di agire come garante della sicurezza nella regione”, spiega il rapporto. E questo potrebbe “erodere la volontà degli alleati di sostenere e contribuire al mantenimento della posizione strategica americana nella regione”.

A questo scopo, il think tank suggerisce agli Usa di procedere con un’integrazione della capacità di difesa e deterrenza collettive con gli alleati regionali – a partire da Giappone e Australia – per controbilanciare una Cina sempre più capace di contendere loro una primazia regionale durata ormai più di 70 anni”.

Insomma il succo del ragionamento del Centro Studi dell’Università di Sidney è semplice: la Cina è sempre più assertiva, decisa, efficiente. Gli americani, per conservare la supremazia militare nella vasta area considerata, dovrebbero incrementare le capacità di difesa collettiva con gli alleati regionali. A cominciare da Giappone ed Australia.



1.10 La nuova frontiera della competizione militare (anche sino-americana): lo spazio


Area indubbiamente vasta quella degli oceani ma nulla a confronto delle distanze delle nuova frontiera della competizione militare in cui oltre ai russi sono impegnati, va da sé, cinesi ed americani. E non solo. Nella ricognizione di tutti i fronti aperti nella, definiamola così, “Via della Collisione” tra Pechino e Washington rimane ora da conoscere meglio quello della “guerra spaziale”.

Su “Osservatorioglobalizzazione.it” del 26 luglio 2019 in un punto sulla situazione firmato da Giuseppe Gagliano dal titolo “Lo spazio come nuova frontiera della competizione militare” emerge un quadro sempre più “affollato” di presenze ed interessato a strumenti d’attacco. Con comandi, strutture, forze dedicate ai war games stavolta non da serie televisive o cinematografiche: “La realizzazione di una Space Forces indicata da Trump nel giugno del 2018 è stata non solo la conseguenza logica del documento “Joint Vision 2020” che ha introdotto la necessità di un controllo militare onnidimensionale su terra, mare, aria e spazio per proteggere gli interessi e gli investimenti statunitensi ma è anche la conseguenza dello sviluppo di forze di proiezione spaziale analoghe a quelle indicate da Trump da parte della Cina (2016) e della Russia (2015). Ebbene, non c’è dubbio che a partire dal 2019 le istituzioni internazionali dovranno prendere in seria considerazione l’esistenza di una nuova forma di competizione militare e cioè quella spaziale, dimensione questa che sarà certamente dominata dai rapporti di forza.

D’altra parte gli Stati Uniti non solo devono salvaguardare il loro predominio nazionale ma devono anche tutelare le proprie posizioni in campo commerciale e militare dell’ambito spaziale prevenendo eventuali attacchi e consolidando la loro proiezione di potenza attraverso lo sviluppo di una superiorità militare. Al di là delle differenze di ordine strettamente giuridico tra lo spazio e il mare, è difficile negare che gli Stati Uniti siano persuasi di porre in essere, attraverso il dominio militare dello spazio, una sorta di egemonia globale analoga a quella che conseguì l’Inghilterra sugli oceani. Così come l’Inghilterra volle tutelare i propri interessi commerciali, e cioè quelli relativi alla Compagnia delle Indie, attraverso una proiezione di potenza militare sul piano navale allo stesso modo gli Usa, allo scopo di tutelare i loro rilevanti interessi commerciali, ritengono necessario istituire una sorta di ombrello militare. (…)”

Nella “guerra spaziale” ormai sono in tanti ad investire: Usa, Russia, Cina, India, Francia. Per la serie spazio pericolosamente affollato. Scrive Maurizio Stefanini il 27 dicembre 2019 in un articolo su “Linkiesta.it” dal titolo “Usa, Cina, India e Francia: è partita la nuova corsa per la conquista dello spazio”: “Da mesi vengono recuperati (e aggiornati) i programmi spaziali dell’epoca della Guerra Fredda, in soffitta da tempo. Nella nuova gara di forza il numero dei protagonisti è cresciuto e conta anche le nuove potenze asiatiche. (…)

Ma nella realtà la guerra spaziale inizia nel 1957 con il lancio dello Sputnik, che permette per la prima volta un attacco nucleare dallo Spazio. E la Forza Armata Spaziale, ora annunciata il 20 dicembre dal presidente Usa Donald Trump con la firma al National Defence Authorization Act è un altro passo in quella direzione.

È la sesta Forza Armata Usa: dopo l’Esercito, che nacque il 14 giugno 1775; la Marina, il 13 ottobre 1775; i Marines, il 10 novembre 1775; la Guardia Costiera, il 4 agosto 1790; e l’Aviazione, che fu costituita il 18 settembre del 1947, anche se come branca dell’esercito esisteva già dal 1907. Il Congresso ha garantito per ora 40 milioni di dollari, in un bilancio del Pentagono che supera i 738 miliardi di dollari, e la cifra basterà per poco più di 200 dipendenti. Ma l’obiettivo finale è di arrivare a 16.000. Primo compito: difendere i 31 satelliti del Gps, quel Global Positioning System che è ormai largamente utilizzato anche da civili non statunitensi. Ma i satelliti Usa in orbita sono 870. Come farà la Space Force a opporsi? Questo è appunto un tema ancora top secret: o forse semplicemente non è stato ancora studiato a fondo. (…)

Solo con Ronald Reagan si tornò a parlare del sistema di difesa strategica popolarmente definito Guerre Stellari: l’idea di poter arrivare a intercettare i vettori nucleari nemici, in modo da tornare a una politica offensiva imperniata sulla rappresaglia massiccia. E infatti nel 1985 fu istituito un apposito United States Space Command, poi confluito con la ristrutturazione del 2002 nello United States Strategic Command. Come è noto, la semplice minaccia fu ancora più efficace dell’arma, costringendo il sistema sovietico a una nuova corsa agli armamenti per la quale non aveva le risorse, e che infatti lo schiantò. Ma dal dissolversi dell’equilibrio bipolare del terrore in capo a alcuni anni è emersa quella nuova rete di Stati e organizzazioni canaglia variamente forniti o interessati alle armi di distruzione di massa, e espressivamente definiti “Asse del Male”. In più, è emersa la nuova sfida cinese, e con Vladimir Putin al potere anche la vecchia Russia è tornata alla carica.

La prima simulazione di guerra spaziale vera e propria nella storia fu il 13 settembre 1985, all’inizio dell’era di Guerre Spaziali: un F-15 Usa abbatté il satellite, anche questo americano, P78-1, ormai guasto. Una prova di forza, rimasta isolata, per mostrare che Reagan faceva sul serio. Ma l’11 gennaio del 2007 furono invece i cinesi a distruggere il proprio satellite meteorologico FY-1C fuori fase, colpendolo con un veicolo killer cinetico lanciato da un missile a combustibile solido. Non solo Stati Uniti, Regno Unito e Giappone protestarono contro il rischio di una «militarizzazione dello spazio», ma anche la Russia. Furono però soltanto gli americani a rispondere anche con un terzo test: quello con cui, il 28 febbraio del 2008, distrussero il loro (mal funzionante) satellite spia Usa 193 con un missile M-3 modificato, del costo di nove milioni e mezzo di dollari, lanciato dall’incrociatore Lake Erie al largo delle Hawaii.

Infine, il 27 marzo scorso, nel clima della campagna elettorale anche il primo ministro indiano Narendra Modi andò in tv a annunciare che, dopo il lancio di sonde sulla Luna e su Marte, anche il suo Paese era ormai da considerare «una superpotenza spaziale», per aver distrutto con un missile «un satellite nella parte bassa dell’atmosfera terrestre a una distanza di 300 chilometri».

Insomma, i satelliti che ruotano nel cielo stanno diventando sempre più dei bersagli. Il 18 giugno 2018 Trump annuncia una United States Space Force, e come tappa intermedia, il 29 agosto viene ricostituito all’interno dell’Aviazione quello United States Space Command autonomo che, lo abbiamo già ricordato, era già stato creato il 23 settembre 1985 come risultato del progetto reaganiano di “Guerre Spaziali”, e che all’inizio di ottobre 2002 una Us Air Force gelosissima delle proprie prerogative era infine riuscita a far rimuovere.

Una storia di decisioni e ripensamenti abbastanza simile a quella delle Forze Spaziali Russe: all’inizio forza armata autonoma sovietica dal 10 agosto 1982, poi passata alla nuova Russia il 7 maggio 1992, incorporata nelle Forze Missilistiche Strategiche nel 1997, ricostituita nel giugno 2001, dissolta nel 2011, infine ad agosto 2015 divenuta un ramo delle Forze Aerospaziali Russe, insieme all’Aeronautica Militare.

Nel 2010 anche la Francia ha istituito un Commandement de l’Espace dipendente direttamente dallo Stato Maggiore, e a sua volta, il 13 luglio Emmanuel Macron, in un discorso alle forze armate tenuto alla vigilia della festa nazionale, ha annunciato di voler creare una Armée de l’air et de l’Espace per difendere i satelliti. Prima tappa il Commandement interarmées de l’espace istituito l’8 settembre, e che in effetti è la riorganizzazione del precedente Commandement de l’Espace.

Nel gennaio del 2016 è nata anche nell’Esercito Popolare di Liberazione cinese una Forza di Supporto Strategico che si occupa di guerra spaziale, cibernetica, elettronica e dello sviluppo militare nel settore aerospaziale ed astronautico. L’ultimo vertice Nato ha annunciato che l’alleanza inizierà a occuparsi anche dello Spazio. «Lo Spazio è parte della nostra vita quotidiana. Può essere sfruttato con fini pacifici, ma anche in modo aggressivo. I satelliti possono essere bloccati, piratati o attaccati», ha detto il segretario generale Jens Stoltenberg. «Le armi anti-satellite possono rendere inutilizzabili le comunicazioni e i servizi da cui dipende la nostra società».

Immediata la risposta di Putin, che ha accusato gli Usa di voler usare lo spazio come teatro di guerra, ed ha annunciato che “per affrontare questa «minaccia» agli interessi russi bisognerà sviluppare ancora di più le forze dello spazio. Ma – conclude Stefanini - a loro volta gli Usa si erano mossi soprattutto guardando alla Cina, che secondo Mike Pence sta sviluppando sistemi laser e missili da affrontare. «Ciò che una volta fu pacifico ora è pieno di contrasti», ha detto”.


Non è un mistero che nello spazio “Usa è Cina sono in competizione per andare su Marte”, per restare al titolo di un articolo di Carlo Pelanda su “ItaliaOggi” del lontano 15 dicembre 2017 e tuttavia attuale in chiave interpretativa. In pratica quasi scenari di fantascienza quanto a proiezione e livelli distruttivi. Un futuro-non-futuro a cui è meglio non pensare. Scrive Pelanda nel suo articolo che ben si riassume nel sottotitolo (“La terra si tiene meglio sotto controllo militare dallo spazio”): “Indiscrezioni fanno ipotizzare che Stati Uniti e Cina siano in competizione per chi arriverà prima su Marte. Hanno i soldi per farlo, considerando che ambedue devono affrontare problemi rilevanti di bilancio e debito? Non è chiaro, ma il budget della Difesa statunitense ha risorse notevoli da riallocare per esoinvestimenti e la Cina ha già da tempo megastanziamenti nel settore. La volontà? L’obiettivo Marte è strumentale per il consenso. Il vero scopo è la superiorità strategica (ed esoindustriale).

Il dominio dell’orbita terrestre non lo si ottiene con mezzi che girano nell’orbita stessa né con sistemi antisatelliti basati sulla Terra o sulla Luna. Lo si può raggiungere, invece, con strumenti che possono intervenire “da dietro” cioè dallo spazio profondo, posizione di difesa/attacco migliore per prendere il controllo dell’orbita e da lì gestire il conflitto sulla superficie terrestre. Tutti i mezzi militari ora operativi e programmati, con l’eccezione delle nanoarmi e forse dei sottomarini, sarebbero annichilibili dall’orbita, modificando totalmente la guerra.

Cosa collocare nello spazio profondo? Esohabitat predisposti per presenze umane prolungate che facciano da portaerei per mezzi di ingaggio rapido. Il primo passo per la tecnologia di tali esohabitat corrisponde a quella di un’astronave che porti umani verso Marte. Si potrà anche andare su questo scomodo pianeta per motivi di bandiera e scienza, ma l’obiettivo è costruire la capacità di insediamenti nello spazio profondo.

Non è certo che Cina e America tentino questa strada, non solo per un problema di risorse e di distanza tecnologica dalla fattibilità, ma anche per uno di sostenibilità dell’impegno. E’ molto difficile, infatti, organizzare un’esoeconomia che trasformi in giro d’affari a rapido ritorno gli investimenti spaziali, pur notevoli, le innovazioni tecnologiche poi trasferibili al mercato civile terrestre. Pertanto sarebbe benvenuta una concorrenza tra potenze che sostiene le spese per tali esoprogrammi, così permettendo alle innovazioni derivate di maturare il loro potenziale economico.

E sarebbe importante per la specie: in un evento di estinzione sulla Terra i sopravvissuti non andrebbero su un pianeta ostile difficile da terraformare, ma su (mega)esohabitat già predisposti e scalabili. Immorale dover sperare in una competizione strategica per la futura salvazione? Fino a che non si trova il modo di far girare un’esoeconomia civile, la leva militare è l’unica a poter dare all’umanità un accesso allo spazio profondo. Scenario remoto? No, lo si decide in questi anni”.


Su spazio e guerre stellari per aggiornare l’analisi riportiamo infine un articolo di Fabio van Loon del 21 gennaio 2020 sulla rivista di analisi politica, economica e geopolitica “Atlantico” dal titolo “Lo spazio nuovo teatro della competizione geopolitica: come gli Usa rispondono alle sfide di Mosca e Pechino”.

Le più grandi minacce alla sicurezza internazionale vanno dai conflitti mediorientali alle tensioni nel Pacifico, ma in pochi sembrano parlare dello spazio.

Oggi più che mai, le grandi potenze percepiscono lo spazio come il nuovo teatro della competizione geopolitica. È proprio la rinvigorita competizione spaziale che sta evidenziando le gravi vulnerabilità di interi apparati militari e civili. Oggi, nelle sale del Pentagono, si parla infatti del controllo militare delle risorse strategiche spaziali, una priorità non solo per Washington, ma anche per Mosca e Pechino, che hanno accelerato notevolmente gli investimenti nelle tecnologie astro-militari. Un tentativo più che dichiarato di sfidare la percepita egemonia tecnologica statunitense.

Nella nuova corsa spaziale, le tre potenze si schierano in un classico gioco a somma zero, la supremazia di una traducendosi in una tangibile subordinazione delle altre. A riguardo, per gli Stati Uniti, come per Mosca e Pechino, la difesa dei satelliti e lo sviluppo di capacità strategiche-offensive, dai sistemi di cyberjamming ai programmi missilistici anti-satellitari sta diventando una priorità. La difesa delle proprie posizioni spaziali rimane infatti una questione esistenziale, in quanto un attacco ai satelliti militari comporterebbe danni sproporzionati ed inestimabili alla capacità di coordinare le forze sulla terra. Detta semplicemente, più moderno è il corpo militare nazionale e più dipende dai segnali satellitari per qualsiasi operazione, dal contrattacco alle logistiche di base. Difatti, nel 2017, il comandante della 1st US Space Brigade, il colonnello Richard Zellmann stimò che “l’esercito americano dipende dai segnali satellitari per circa il 70 per cento del suo apparato operativo”. Insomma, i satelliti svolgono un ruolo cruciale per le operazioni militari, che secondo uno studio della Heritage Foundation, “conferiscono vantaggi ineguagliati agli Stati Uniti dalla prima guerra del golfo, Operation Desert Storm”. Considerando l’indiscussa preminenza spaziale di Washington, non sorprende che la Russia e la Cina stiano investendo pesantemente nelle loro capacità astronautiche-militari.

Nondimeno, la sicurezza nazionale nello spazio non è solo un obiettivo militare. È, infatti, una cruciale necessità per la società civile. Parte integrante del quotidiano, gli Stati Uniti e l’Europa dipendono dai segnali GPS e GNSS per il loro intero sistema finanziario, la navigazione e le telecomunicazioni, giusto per citare alcuni settori. I satelliti, peraltro, ci permettono di prelevare contanti, telefonare, o di usare servizi come Google Maps. In fondo, per quanto gli Stati Uniti e l’intero Occidente dipendano dai satelliti per le più fondamentali operazioni militari e civili, è giunta l’ora di aggiustare il tiro per un nuovo calcolo geopolitico, quello della protratta competizione cosmica.

Gli strateghi militari russi e cinesi non stanno di certo perdendo tempo. Ad oggi, Mosca e Pechino hanno un programma spaziale completamente militarizzato. Secondo uno studio recente della Defense Intelligence Agency (DIA), stanno consolidando la loro visione astro-militare nello sviluppo di varie nuove tecnologie cyber-spaziali, dal jamming satellitare, alle armi anti-satellitari, terrestri ed orbitali.

La Cina ruppe il silenzio nel 2007, lanciando nello spazio il primo missile anti-satellitare (ASAT) della storia. Ad oggi, lo Space Dream della Cina è descritto dalla US – Cina Economic and Security Review Commission come “una serie di piani mirati non solo all’esplorazione spaziale, ma alla dominazione industriale dello spazio nell’area che comprende l’orbita lunare della terra”. Tuttavia, secondo uno studio del medesimo ente, l’ambizione astro-militare cinese si basa sull’idea che lo spazio sia “una cruciale vulnerabilità militare ed economica per gli Stati Uniti”. Lo studio conclude che la Cina sta sviluppando “armi capaci di colpire quasi ogni tipo di risorsa spaziale degli Stati Uniti”. La Russia mostra simili ambizioni, con il test a marzo del 2018 di una nuova arma ad ascesa diretta, il PL-19. In fase di elaborazione, il PL – 19 è stato definito come “uno dei vari sistemi anti-satellitari sviluppati dal Cremlino per colpire gli obiettivi nell’orbita terrestre bassa (LEO)”.

Verosimilmente, la nuova postura offensiva russo-cinese segnala una netta percezione dello spazio come teatro militare, una visione evolutasi in una strategia revisionista mirata allo sviluppo di un’aggressiva posizione militare-spaziale, a scapito del diritto spaziale internazionale. Minacciando i principi fondanti della giurisprudenza spaziale, come il diritto alla pacifica esplorazione e il principio di non-appropriazione dei corpi celesti, le ambizioni russo-cinesi stanno accelerando il ritorno alla competizione tra grandi potenze, e grosso modo al realismo difensivo della Guerra Fredda. Dati questi sviluppi, gli strateghi statunitensi sono sempre più convinti che la sicurezza spaziale sia quindi un gioco a somma zero. Considerando il costo del compiacimento geopolitico, tale valutazione non sembra infondata. (…)


1.11 Pechino: i cattivi non siamo mai noi, sono gli altri


In un quadro sempre più militarizzato in terra, nei mari e nei cieli lasciano quanto meno perplessi le dichiarazioni sempre difensivistiche a cui i vertici cinesi ricorrono per giustificare le loro linee strategiche. Sempre difensive, mai offensive. Come se non parlassero i numeri, come negare l’evidenza. “Il nuovo Libro Bianco della Difesa cinese” in “www.analisidifesa.it” del 7 agosto 2019 a firma di Fabio De Felice fornisce uno spaccato di questo posizionamento che sconfina in certi capitoli in dichiarazioni discutibili anche se i cinesi non mancano mai di sottolineare che il loro esercito da ben 70 anni non ha mai dato inizio ad un conflitto. Insomma, i cinesi sono sempre “buoni”, i “cattivi” sono sempre gli altri.

Il 24 luglio scorso è stato presentato, dal Consiglio di Stato Cinese, il nuovo Libro Bianco della Difesa, pubblicato con il titolo “China’s National Defence in the New Era”. Il documento, per la prima volta pubblicato anche in lingua inglese, sembra infatti essere rivolto principalmente verso la platea internazionale.

Il chiaro scopo, infatti, è rappresentato dal voler spiegare il ruolo della Difesa nell’organizzazione statale cinese e come questa sia il risultato della volontà nazionale di dotarsi di una Difesa all’altezza dei possibili impegni operativi, potenziata rispetto al passato e dotata di Forze Armate all’avanguardia. (…)

Quello che è infatti il fulcro attorno a cui ruota l’intero documento è il ruolo della Cina nella pace e stabilità del mondo. Partendo infatti dall’assunto di base che la People’s Republic of China (PRC) non ha mai iniziato una guerra o un conflitto negli ultimi settanta anni, sottolinea quanto il Paese sia coinvolto nel creare e sostenere ogni favorevole condizione tesa allo sviluppo globale attraverso il mantenimento della pace stessa.

Un’azione continua che si fonda su cinque principi di coesistenza pacifica: il rispetto dei diritti dei popoli; la non interferenza con gli affari interni degli Stati; la risoluzione dei conflitti internazionali attraverso il dialogo tra eguali e la negoziazione; la promozione di accordi di partnership non militare ed infine il contrasto alle aggressioni e le espansioni.

Uno scenario quindi che contrappone una Cina pacifica, stabile e promotrice di sviluppo, a degli Stati Uniti che manifestano, oggi più che mai, il loro spirito egemone, la facilità nell’esercitare pressione politica e l’inclinazione all’unilateralismo dei rapporti. Quest’ultimi infatti, con questo loro atteggiamento, si ritengono promotori di instabilità e spingono ad una corsa al riarmo, non solo quantitativa, ma anche qualitativa, con lo sviluppo incessante di tecnologie belliche in ogni dimensione.

La Nato stessa viene citata esplicitamente come veicolo di tali risultati, tanto da costringere la Russia ad adottare significative azioni di risposta altrettanto pericolose per la stabilità regionale e mondiale.

Da questo scenario particolarmente preoccupante viene invece isolato il Pacifico, ritenuto stabile ed in equilibrio, grazie alla fattiva azione dei suoi Paesi, “membri di una comunità with a shared destiny”.

Anche in questo scenario però non viene lesinata una “stoccata” agli Stati Uniti, rei di minare la sicurezza regionale fornendo supporto militare e tecnologico alla Corea del Sud e di rinforzare le sue alleanze con Giappone ed Australia. Curiosamente, nella rappresentazione di questo teatro, non viene invece fatto nessun genere di accenno alla Corea del Nord, limitandosi semplicemente a riportare la penisola coreana come una possibile area di incertezza o frizione.

Gli unici rischi alla stabilità e sicurezza cinese vengono invece individuati nella minaccia portata dai separatisti, la cui attività viene ritenuta in aumento. Oltre alla scontata Taiwan, accusata come di consueto di rifiutarsi di riconoscere il principio “one country, two systems”, vengono riportati come elementi che possono rappresentare una minaccia alla sicurezza nazionale e alla stabilità sociale del Paese anche i separatisti per l’indipendenza del Tibet e per la creazione del East Turkistan (gli Uighuri del Sinkiang). (…)

L’ultima Revolution in Military Affair (RMA) ufficialmente riconosciuta – prosegue De Felice - è stata quella che ha segnato la nascita dell’era nucleare. L’applicazione delle intelligenze artificiali, l’informazione quantica, la gestione di immensi database di dati e reti, tutto racchiuso sotto il termine Information Technology (IT) ha cambiato significativamente il modo di condurre le operazioni militari e di sviluppare i nuovi sistemi d’arma, tanto da rappresentare appunto una rivoluzione.

Nel bel mezzo di questa dichiarata rivoluzione, viene però più volte riportato che le Forze Armate Cinesi hanno ancora molto margine di miglioramento per arrivare a competere con le migliori potenze militari mondiali. Sembra però che tali affermazioni siano più un messaggio per far “adagiare sugli allori” i possibili antagonisti cinesi più che un assunto di base, dato che nella versione cinese del documento tale concetto viene molto stemperato e ridotto. (…)

La National Defence Policy cinese viene riportata nel documento, basata su nove obiettivi o lines of operations principali, tutti considerati difensivi per natura:

  • Deterrenza e resistenza ad un aggressione

  • Salvaguardia della sicurezza politica nazionale, della sicurezza del popolo e della stabilità sociale

  • Opposizione e contenimento dell’indipendenza di Taiwan

  • Smantellamento dei movimenti separatisti (Tibet e East Turkistan)

  • Salvaguardia della sovranità nazionale, della sua unità, integrità e sicurezza

  • Salvaguardia dei diritti ed interessi marittimi cinesi

  • Salvaguardia degli interessi relativi alla sicurezza nello spazio, nello spettro elettromagnetico e nel cyberspace

  • Salvaguardia degli interessi economici mondiali

  • Supporto allo sviluppo sostenibile del Paese.

Una difesa attiva a 360 gradi contro ogni possibile genere di minaccia, in ogni dominio, sia in modalità self-defence che come risposta post-strike.

Nel perseguimento di tale policy vengono inoltre identificate alcune condizioni intermedie da raggiungere, quali obiettivi a termine: la completa meccanizzazione del proprio esercito che si completerà nel 2020; la modernizzazione della dottrina, i Comandi, l’addestramento del personale, e lo sviluppo dei sistemi d’arma e gli equipaggiamenti da completare entro il 2035; il tutto orientato a portare le Forze Armate cinesi nel club delle migliori al mondo entro il 2050. (…)

La seconda parte del documento è invece molto simile ai paritetici documenti occidentali. Vengono elencate le esercitazioni internazionali svolte nell’ultimo quadriennio, le iniziative di cooperazione con gli altri Paesi e le attività dual use svolte a supporto della popolazione e della Comunità Internazionale e dell’ONU.

Viene inoltre dedicato ampio spazio, anche con l’ausilio di grafici, nel mostrare le spese statali dedicate alla Difesa che, a conferma di quanto avvenuto nelle ultime tre decadi, si mantiene ben al di sotto del 2% del PIL.

Dato non rassicurante per il resto del mondo – conclude il focus di “AnalisiDifesa” - tenendo in considerazione il mirabolante incremento del PIL cinese negli ultimi dieci anni, che si è tradotto comunque in un significativo incremento anche delle spese militari connesse. (…)”.


Nelle stesse settimane – siamo, lo ribadiamo, nell’estate dell’anno scorso - a riprova di un attivismo tutt’altro che difensivistico filtra la notizia di un accordo segreto tra Cina e Cambogia per allestire una base navale di Pechino nel vicino paese indocinese (Erminia Voccia “La base navale della Cina in Cambogia” , www.ilmattino.it, 29 agosto 2019):

Un accordo segreto tra Cina e Cambogia per l'utilizzo di una base militare navale della Repubblica Popolare nel Paese del Sudest asiatico. Lo svela un'inchiesta del Wall Street Journal che trova conferma nelle dichiarazioni di un ufficiale statunitense ben informato sentito da Voice of America. Il generale di brigata statunitense Joel B. Vowell, di stanza nell'Indo-Pacifico, ha parlato dell'esistenza di un accordo nascosto tra Cina e Cambogia per la costruzione di una base militare navale cinese nella provincia cambogiana di Preah Sihanouk, a Ream, affacciata sul Golfo della Thailandia. 
La base sarebbe la prima della Cina in Asia e la seconda dopo quella a Gibuti [nel Corno d’Africa, n.d.a.]. Un avamposto militare rilevante in un'area di forte interesse americano dove cresce la competizione con la Cina, in espansione nel Sudest asiatico e intenzionata a non perdere terreno nella lotta con gli Stati Uniti per togliere loro il primato globale in campo militare. In base all'accordo segreto, la Cina otterrebbe il diritto di utilizzare la base per i prossimi 30 anni, i lavori dovrebbero terminare per il 2020. Ma il premier cambogiano Hun Sen nega i report, mentre il Dipartimento di Stato Usa esprime preoccupazione per i sempre più stretti legami militari tra Cina e Cambogia. (…) La Cambogia viene vista come il principale alleato della Cina in questo momento. In generale, i dieci Stati della
Association of Southeast Asian Nations si trovano in una posizione non semplice perché al centro tra Stati Uniti e Cina. Ma la Cambogia fa abbastanza per difendere gli interessi cinesi, ha assunto infatti un atteggiamento neutrale nelle dispute che riguardano l'attivismo di Pechino nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale, dove si riflettono le rivendicazioni di Filippine, Vietnam e Malesia. È questo il modo di ricambiare i miliardi di dollari spesi dai cinesi in Cambogia”.



1.12 Una costosissima guerra di spie


Gli Stati Uniti rispondono colpo su colpo, non solo sul piano della spesa in armamenti ma anche su quello, non meno essenziale, del rafforzamento dell’intelligence. A cui destinano un budget colossale. In buona parte assorbito dalla nuova frontiera, o se non nuova comunque recente, della cyberwar e del contrasto all’hackeraggio organizzato, riconducibile a forze armate avversarie. Con incrementi di spesa di incredibile portata. Come scrive sul “Sole 24 Ore” del 7 aprile 2019 il corrispondente da New York Riccardo Barlaam, “le minacce alla sicurezza nazionale nell’America di Trump vengono da Cina e Russia. Il presidente in questa nuova guerra fredda, al già accresciuto budget per la Difesa, ha incrementato la richiesta di finanziamenti per l'intelligence. Spesa che nell'anno fiscale 2020, che comincia in ottobre, potrebbe salire alla astronomica cifra di 86 miliardi di dollari: oltre 7 miliardi di dollari al mese, più di 230 milioni di dollari al giorno, con un incremento del 6%, per lo spionaggio.

Il direttore della National Intelligence Dan Coats, l'ufficio governativo che raggruppa sotto il suo ombrello le attività di Cia, Fbi e Nsa, ha appena rivelato la sua proposta di budget. A cui va aggiunta la quota di spesa del Pentagono per l’intelligence militare. Il budget presentato da Coats al Congresso comprende diversi capitoli di spesa. Si va dai satelliti spia alle armi cibernetiche, fino al nutrito network internazionale di spie e informatori da pagare in giro per il mondo che fanno capo alla Cia.

Non sono stati rilasciati dettagli né da parte dell'Amministrazione né tantomeno dal Congresso sul cosiddetto “black budget”, tutto il capitolo di spese di intelligence secretate che non figurano nei bilanci pubblici.
La spesa degli Stati Uniti per lo spionaggio nel biennio 2011-2012, in piena tempesta finanziaria, ha avuto il massimo declino in concomitanza del rientro del contingente americano dall'Iraq e della conseguente riduzione delle necessità di intelligence. Con la presidenza Trump nel 2016 le cose sono mutate.

E il budget per le spie americane è cresciuto a partire dal 2018 assieme ai nuovi investimenti dell'Amministrazione per la Difesa, ai massimi da decenni. Uno dei capitoli di spesa che, assieme alla drastica riduzione delle entrate fiscali seguita al taglio delle imposte societarie, ha contribuito maggiormente all'incremento record del deficit federale degli Stati Uniti d'America che nell'anno fiscale 2018, concluso il 30 settembre, ha raggiunto i massimi, toccando i 779 miliardi di dollari. Con un balzo del 17% in soli dodici mesi.

Degli 86 miliardi di spesa totale per lo spionaggio messi nel bilancio preventivo dal direttore della National Intelligence, 63 miliardi riguardano i programmi gestiti da Cia, Fbi, Nsa e tutte le altre attività di intelligence dell'amministrazione. I restanti 23 miliardi invece riguardano i programmi di spesa del Pentagono, a supporto delle missioni militari e delle unità tattiche.
I dettagli dei programmi di spesa ovviamente non ci sono, né è possibile conoscerli. Tuttavia l'aumento di fondi destinati allo spionaggio americano riflette i costi crescenti per le attività di controterrorismo e contro le minacce cibernetiche che arrivano dalle altre nazioni: la sfida con la Cina – leggi le accuse a Huawei per il controllo delle reti 5G - e la Russia nella
cyberwar.

Fonti vicine all'intelligence Usa spiegano che le minacce che arrivano dalla cyberwar da Cina e Russia – che hanno reparti dell'esercito dedicati all'attività di hackeraggio – sono sempre più complesse e costose. Attività che impegnano l'intelligence Usa più che la lotta al terrorismo degli ultimi anni post 11 settembre. Le attività di spionaggio americano si stanno concentrando su questa “competizione” per il primato nella cyberwar, una sfida che richiede sempre più risorse economiche, conoscenze e profili operativi super specializzati.
Come tutte le proposte di
budget, i finanziamenti all'intelligence Usa per l'anno fiscale 2020 dovranno essere approvati dal Congresso. La spesa per lo spionaggio è tipicamente un capitolo “non partisan” come succede ad altre parti del bilancio federale. Gran parte dei legislatori americani, repubblicani ma anche democratici, sostiene gli sforzi dell'amministrazione contro l'aumento dell'influenza di Russia e Cina via guerra elettronica. (…)”.


Quanto all’altro contendente, ci aiuta a capire qualcosa della impenetrabile intelligence cinese la brava Giulia Pompili, giornalista esperta di questioni asiatiche de “Il Foglio”, in un articolo pubblicato sul suo quotidiano il 12 gennaio 2020 con il titolo “Abbiamo studiato per anni la Cia. E’ il momento di studiare la Cina”.

Tra i vari livelli della competizione tra America e Cina l’aspetto dello spionaggio – avverte la Pompili - è di sicuro quello più evocativo dal punto di vista narrativo. Ma non solo: l’accusa di spiare per una potenza straniera è anche molto scivolosa, perché è la più vaga, arbitraria, e perfino funzionale per la costruzione di un sistema “da Guerra Fredda”. Dunque bisogna maneggiarla con cautela, e avere gli strumenti giusti. Peter Mattis, vicedirettore della Commissione sulla Cina del governo americano, e Matt Brazil, ex diplomatico e fellow alla Jamestown Foundation, hanno appena pubblicato per il “Naval Institute Press” “Chinese Espionage: An Intelligence Primer”, il primo ritratto quasi enciclopedico dello spionaggio cinese fatto di nomi e cognomi e diviso per periodi storici. (…) Secondo Brazil e Mattis, uno degli aspetti più interessanti dell’odierna capacità di Pechino di raccogliere intelligence è quella di saper integrare le risorse umane – i tradizionali agenti operativi – con le capacità cyber. E per la Cina non è solo una questione di informazioni strategiche: “I servizi cinesi cercano opportunità che gli derivano da dettagli personali compromettenti, sessuali o meno, di soggetti che destano interesse; ma non si limitano a reclutare esclusivamente cittadini cinesi. Esiste inoltre un interesse significativo nell’acquisizione non solo di segreti di stato, ma anche di tecnologia straniera e di proprietà intellettuale che abbia valore per l’economia e la Difesa cinese. Quest’ultimo settore include sia la tecnologia con duplice applicazione (civile e militare, n.d.a.) sia dati sensibili che aiutino i pianificatori cinesi a raggiungere gli obiettivi prefissati”. (…)

Secondo Mattis e Brazil, la cosa più importante da tenere a mente quando si tratta con lo spionaggio cinese è che agli occhi di uno straniero potrebbe sembrare molto diversa dalla tradizionale “empirica e positivista intelligence occidentale”. Lo spionaggio cinese è infatti visto attraverso la lente del pregiudizio politico, “il che implica che gli stranieri siano visti nella peggior luce possibile”. In realtà, spiegano gli autori, il Partito comunista ha dimostrato in passato molta flessibilità e versatilità, uno dei motivi che hanno reso la Cina una potenza mondiale indiscussa nella raccolta d’informazioni”.



1.13 Intelligenza Artificiale, il vantaggio competitivo della Cina sugli Usa. La “cortina di silicio”


Nel braccio di ferro tra Usa e Cina la tecnologia, come abbiamo visto, riveste un ruolo decisivo. Ma c’è un segmento della ricerca che è più decisivo di altri. E sul quale ormai in tanti concordano sul “sorpasso” della potenza asiatica: l’Intelligenza Artificiale (AI). Spiega Matteo Cavallito in “valori.it” del 14 ottobre 2019: “Tra Cina e USA è guerra tecnologica. E Pechino sta vincendo sull’AI”. Perché? Semplice. Perché Pechino può far leva su di un grande vantaggio: la libertà assoluta nella raccolta di dati.

Come argomenta l’esperto, “tra Cina e Stati Uniti sarebbe ormai in corso una vera e propria «guerra fredda tecnologica», un nuovo conflitto non meno rilevante rispetto alla competizione economica e militare. Ma anche uno scontro asimmetrico in cui Pechino, almeno per ora, sembra avere a disposizione un vantaggio significativo sul fronte dell’AI, l’intelligenza artificiale. «Gli avanzamenti tecnologici cinesi sono impressionanti» spiega Martin Ji, Senior Portfolio Analyst di ClearBridge Investments, una società affiliata all’asset manager Legg Mason. Ma quel che più conta è che «la Cina appare sempre più in grado di sviluppare prodotti e soluzioni domestiche»:

Un fattore da non sottovalutare in caso di ulteriore recrudescenza della guerra commerciale tra i due giganti in fuga sul gruppo degli attardati inseguitori europei (la riflessione è nostra). La corsa parallela all’innovazione, insomma, come la vecchia sfida spaziale tra USA e URSS, strategia decisiva nello scontro fisiologico tra superpotenze. Dalla fu cortina di ferro alla futura «cortina di silicio», per citare ancora Ji, il passo potrebbe essere davvero breve. (…)

Proprio i missili di ultima generazione sono stati mostrati per la prima volta al pubblico nella recentissima parata celebrativa per il settantesimo compleanno della Repubblica Popolare. Uno show quasi provocatorio dell’inarrestabile progresso cinese, per usare le parole dello stesso presidente Xi Jinping; un’occasione per mostrare al mondo il nuovo volto della potenza militare di Pechino. Secondo il “South China Morning Post”, quasi la metà dei mezzi militari in piazza era costituita da assoluti inediti. La retorica presidenziale sarà pure caricata nei toni, ma i dati reali, dicono gli analisti americani, fanno già scattare l’allarme sul rischio sorpasso. «La Cina sta colmando il divario tecnologico con gli Stati Uniti» ha scritto di recente il Council on Foreign Relations, storico think tank americano molto influente, si dice, nei corridoi di Washington. Pechino, si sottolinea, non è ancora in grado di pareggiare la capacità tecnica complessiva degli USA, ma nonostante questo il Paese «sarà presto una delle potenze leader in alcune tecnologie come intelligenza artificiale, robotica, stoccaggio di energia, reti 5G, sistemi informativi quantistici e biotecnologia». (…)

Nella classifica globale per capitalizzazione totale, le startup statunitensi superano ancora le omologhe del Dragone, ma la crescita dei finanziamenti rivolti a queste ultime è la più elevata del Pianeta. E non bastasse il venture capital privato (154 miliardi di dollari raccolti dalle startup cinesi nel 2017, nuovo record storico) ci si mette anche lo Stato. Sempre nel 2017 la spesa del governo in ricerca e sviluppo sfiorava i 280 miliardi di dollari, il 70% in più rispetto a cinque anni prima.

Al centro dell’attenzione c’è il settore dell’intelligenza artificiale, il comparto guida dell’Hi-Tech del futuro prossimo su cui la Cina sembra avere da tempo un basilare vantaggio competitivo. Il fatto è che questo tipo di tecnologia può essere pensato come un motore estremamente potente che migliora le proprie prestazioni nutrendosi di enormi quantità di carburante. La benzina, in questo caso, è costituita dai dati e la capacità di raccolta di questi ultimi diventa decisiva. Negli ultimi anni sistemi di monitoraggio della popolazione sperimentati su larga scala hanno consentito alla Cina di accumulare una quantità impressionante di informazioni destinata a crescere, presumibilmente in modo esponenziale nei prossimi anni. E quindi…il sorpasso di Pechino, in questo segmento, sembrerebbe dunque inevitabile.

È in questo quadro che l’analista di ClearBridge Investments immagina un futuro da guerra fredda in campo tecnologico. Due nazioni contrapposte che si sfidano creando «due sfere di dominio tecnologico separate e parallele». La lotta è già cominciata, il caso Huawei è storia nota. Solo che qui – conclude Cavallito - si va oltre, in una corsa accelerata verso l’innovazione da alimentare a colpi di miliardi. Centinaia di miliardi. (…)”.


E’ interessante riportare sul tema della competizione Usa-Cina sull’Intelligenza Artificiale una lettura “terza”. Molto vicina al terzo incomodo ossia la Russia. La recuperiamo dalla pagina “Ricerca” del sito “Sputnik Italia”, data 18 dicembre 2019. Un articolo documentato, supportato da dati e cifre, dal titolo “USA contro Cina: chi vincerà la gara per l’intelligenza artificiale”. “Secondo il rapporto sull'indice d'intelligenza artificiale dell'Università di Stanford, la Cina ha superato l'Europa nel numero di articoli scientifici sull'intelligenza artificiale nel 2019. Tuttavia – si puntualizza nell’articolo - in termini di valore scientifico, il lavoro americano continua a dominare il settore: il suo indice di citazione è superiore del 50% a quello dei lavori cinesi.

Allo stesso tempo, le start up cinesi di IA sono finanziate meglio di quelle americane. Il rapporto rileva che 486 nuove società cinesi hanno ottenuto 16,6 miliardi di dollari d'investimenti tra luglio 2018 e luglio 2019, il 200% in più rispetto agli Stati Uniti.

La maggior parte degli investimenti in IA in Cina viene fatta dallo Stato. Negli Stati Uniti il capitale viene dal mondo degli affari. Lo Stato sostiene solo progetti che sviluppano applicazioni militari.

Fino a ora gli Stati Uniti hanno mantenuto la leadership mondiale nelle tecnologie d'intelligenza artificiale, in particolare nelle piattaforme scientifiche e di ricerca di base. (…)

L'intelligenza artificiale, come l'elettricità nel ventesimo secolo, è una tecnologia che cambierà completamente il modo in cui viviamo, quindi sono molti gli stati che hanno stanziato moltissime risorse per ottenere una posizione di vantaggio in questo settore.

Le varie intelligenze artificiali rivoluzioneranno molti aspetti della nostra vita, a partire di quelli industriali con l’ottimizzazione della produzione fino alla guida automatica delle nostre automobili, come ad esempio la Tesla. Inoltre, la leadership nell'IA è direttamente correlata alla sicurezza nazionale.

La Cina ha deciso di diventare il leader mondiale nel campo dell'intelligenza artificiale entro il 2030, l'industria dovrebbe arrivare a un valore di 150 miliardi di dollari.

La pubblicazione di questo programma ha suscitato grande preoccupazione a Washington. Gli Stati Uniti non vogliono perdere la propria posizione di leader in un business così promettente. Pertanto, cercano di frenare lo sviluppo tecnologico della Cina con il pretesto della sicurezza nazionale. Il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha inserito nella lista nera le società tecnologiche cinesi Huawei, SenseTime, Megvii, Hikvision e Dahua.

Tenendo conto che “l’ecosistema” delle IA si basa principalmente su tecnologie statunitensi, gli USA ritengono di poter controllare queste tecnologie e bloccare l'accesso ai loro rivali geopolitici. D’altra parte però la conoscenza scientifica è un prodotto del lavoro collettivo di ricercatori provenienti da diversi paesi e nessun paese può sviluppare tecnologie così complesse da solo.

Gli Stati Uniti non sono diventati leader tecnologici esclusivamente con le proprie risorse. La ricerca tecnologica nella Silicon Valley è stata finanziata, tra gli altri, anche da investitori cinesi. Le più grandi società tecnologiche cinesi, come Baidu, Alibaba e Huawei, hanno creato laboratori di ricerca sul suolo americano. Tuttavia, la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina ha influenzato negativamente la situazione. Le compagnie cinesi stanno cercando di spostarsi in giurisdizioni più favorevoli. Baidu ha annunciato che parte della divisione R&S di Apollo si sta trasferendo dagli Stati uniti alla Cina. Huawei ha inoltre annunciato il trasferimento del suo centro di ricerca dagli Stati Uniti al Canada. Inoltre, il gigante asiatico non ha risparmiato spese per attirare scienziati di talento da tutto il mondo. Sempre più specialisti di alto livello di Intel, Microsoft e Google si trasferiscono nel paese asiatico”.



1.14 Il Mare Cinese Meridionale? “Mare nostrum”


Continuiamo nella ricognizione dei teatri, sia fisico-geografici che virtuali-tecnologici, che compongono il mosaico dello scontro tra Washington e Pechino nell’agitato 2019. Tra i primi, collocandosi a ridosso del territorio continentale sacro a Pechino, un posto di “pericolosa centralità” assume il Mar Cinese Meridionale. Come rileva Gianluca Pastori il 19 novembre 2019 su “L’Indro” in un articolo intitolato “Gli Usa, la Cina e il Mar Cinese Meridionale”: “Gli ammonimenti di Pechino a Washington perché non continui a ‘flettere i muscoli’ nel Mar Cinese Meridionale (ammonimenti giunti a margine del recente l’incontro a Bangkok dei ministri della Difesa dell’ASEAN) rappresentano l’ennesima puntata del confronto in atto fra le due capitali per il controllo politico e militare di una regione destinata, in futuro, a vedere crescere la sua già notevole importanza. Ormai da tempo, la Repubblica Popolare Cinese sta portando avanti una aggressiva strategia di rivendicazioni territoriali volta a consolidare la sua posizione in quello che considera, di fatto, il ‘giardino di casa’. Questa strategia – che si esprime anche nella militarizzazione delle aree contese – è fonte di tensione con vari Paesi della regione (Brunei, Indonesia, Malaysia, Filippine, Taiwan e Vietnam) e preoccupa gli Stati Uniti sia per il suo impatto sulla posizione della RPC, sia per le possibili ricadute sulla sicurezza dei loro alleati regionali, primo fra tutti Taiwan, Giappone e Corea del Sud. Negli scorsi giorni, l’attività navale cinese e il transito di una nuova portaerei attraverso lo stretto di Taiwan hanno aggiunto allo scenario un ulteriore elemento di tensione, con il governo di Taipei che ha subito denunciato la mossa di Pechino come ‘provocatoria’”.

Ma accanto alle rivendicazioni territoriali ed alla geopolitica, come se i motivi di tensione non bastassero, fa capolino anche lo sfruttamento di giacimenti di idrocarburi individuati nell’ultimo decennio. Infatti – spiega Pastori – “le tensioni nel Mar Cinese Meridionale non sono cosa recente. Esse sono tuttavia aumentate negli anni a causa della crescita economica delle aree costiere cinesi e, con maggiore forza, di quella delle ambizioni politiche del Paese. La scoperta, nella regione, di riserve energetiche accertate e probabili che la Energy Information Agency statunitense quantifica in 190 trilioni di metri cubi di gas naturale e 11 miliardi di barili di petrolio (ma lo US Geological Survey ha stimato nel 2012 che ci potrebbero essere altri 160 trilioni di piedi cubi di gas naturale e 12 miliardi di barili di petrolio non scoperti nel Mar Cinese Meridionale) ha accentuato la competizione fra i Paesi rivieraschi per il loro accaparramento; ciò anche alla luce delle imponenti necessità energetiche della regione, della sua attuale, pesante dipendenza dall’estero e di quelle che sono le proiezioni di crescita della domanda negli anni a venire. Il grado crescente di militarizzazione della regione e il potenziamento delle capacità aeronavali di pressoché tutti i Paesi rivieraschi sono indicatori significativi di questo stato di cose e rappresentano – per alcuni osservatori – un fattore di criticità a sé, date anche le difficoltà con cui si sono sinora scontrati tutti i tentativi di risolvere per via pacifica i contenziosi aperti.

Su questo sfondo, la politica di Washington si è tradizionalmente ispirata a una sorta di ‘masterly inactivity’, fondata su una schiacciante superiorità militare e sull’ampiezza dell’impegno diplomatico. Il comando Usa per l’Asia-Pacifico (USINDOPACOM) ha attualmente ai suoi ordini oltre 2.000 aeroplani, 200 navi e sottomarini e più di 370.000 soldati, marinai, marines, aviatori, personale civile del Dipartimento della Difesa e appaltatori distribuiti in un ampio reticolo di basi, le cui principali si trovano in Giappone (sotto il comando del COMUSJAPAN), Corea del Sud (sotto il comando delle USFK) e nel territorio statunitense di Guam, oltre alla significativa presenza, nell’Oceano Indiano, della base di Diego Garcia. Sul piano politico-diplomatico, gli USA hanno in corso trattati di alleanza con Giappone, Corea del Sud, Filippine, Tailandia e Australia, integrati da strette relazioni di sicurezza con Nuova Zelanda e Singapore e da relazioni in evoluzione con altri Paesi della regione come India, Vietnam, Malesia e Indonesia. Gli Stati Uniti hanno, infine, un solido rapporto non ufficiale con Taiwan (che implica anche, da parte statunitense, la cessione all’alleato di importanti stock di armamenti) oltre che, in una prospettiva più ampia, con Afghanistan e Pakistan. (…)”.


Naturalmente gli americani non restano a guardare. “sicurezzainternazionale.luiss.it” il 14 dicembre 2019 riprende una dichiarazione dell’ammiraglio in capo della Flotta del Pacifico statunitense (“Comandante della Marina USA ammonisce la Cina”):

Le attività della Cina nel Mar Cinese Meridionale hanno lo scopo di intimidire le altre Nazioni della regione, secondo quanto ha affermato il comandante della flotta del Pacifico della Marina statunitense.

L’ammiraglio John Aquilino ha affermato che le azioni della Cina, compresa la costruzione di isole artificiali nelle acque contese, servono a proiettare la capacità militare di Pechino sul territorio. Durante un briefing nella capitale thailandese, Bangkok, il comandante ha affermato che oltre a installare sistemi missilistici antiaerei e anti-nave e attrezzature di disturbo radar, la Cina avrebbe recentemente armato alcune delle isole artificiali con bombardieri. Il militare USA ha poi aggiunto che era chiaro che tali installazioni “hanno assolutamente uno scopo militare, quello di mostrare agli alleati e alle nazioni della regione la propria forza militare”. Circa 3 miliardi di dollari passano ogni anno attraverso il Mar Cinese Meridionale sotto forma di scambi commerciali, ha affermato Aquilino.

L’ammiraglio ha quindi invitato la Cina a “rispettare i diritti di tutti, conformemente al diritto internazionale, come riconosciuto da tutte le Nazioni della regione”, e a rispettare il fatto che altri Paesi possano avanzare le proprio richieste nel Mar Cinese Meridionale. Aquilino ha poi affermato che il ruolo degli Stati Uniti è quello di “proteggere le nazioni e la regione” in stretta collaborazione con i suoi alleati “che condividono gli stessi valori”. “Non c’è dubbio che gli Stati Uniti abbiano dichiarato di essere in concorrenza con la Repubblica popolare cinese. Abbiamo profondi disaccordi ideologici”, ha dichiarato, aggiungendo però che tale competizione non equivale ad un conflitto. “Gli Stati Uniti coopereranno dove possono e competeranno dove devono”, ha concluso.

Il Mar Cinese Meridionale è un ulteriore elemento di tensione tra Cina e Stati Uniti, nonché un’area contesa tra gli Stati del Sud-Est asiatico. Cina e Taiwan la rivendicano in toto, mentre Vietnam, Filippine, Malesia e Brunei solo parzialmente. Le rotte presenti generano scambi commerciali di enorme valore e sono ricche di giacimenti minerari. Se Pechino continua a ribadire la sua sovranità sulle acque per motivazioni storiche, Washington presidia la zona con il passaggio di navi militari per garantire la libertà di navigazione e per difendere i propri interessi commerciali. In tale contesto, la Cina ammonisce spesso gli Stati Uniti e i loro alleati per le operazioni navali che svolgono nell’area, e a sua volta viene accusata di dispiegare navi da guerra, armare avamposti e speronare le navi da pesca”.   



1.15 Una contrapposizione globale


Una contrapposizione non solo geografico-territoriale, non riguardante solo il controllo dei mari o del cielo. Il dato di fatto è che la contrapposizione sino-americana è globale, su più livelli che ora si sovrappongono ora si incrociano. Cina e Usa così, sempre più ostili sul fronte tecnologico, continuano a studiare le rispettive mosse come in una immensa partita a scacchi. Appunto perché - con il solo …fastidio della Russia in tre settori: a) “militare”; b) nel campo degli armamenti (costruzione, possesso e vendita); c) energetico (giacimenti di idrocarburi, disponibilità, esportazione) – sono consapevoli di essere i due padroni dello scacchiere geopolitico mondiale. Lo rileva con acume Marco Santarelli, esperto in network analysis, critical infrastructures, big data e future energies, in un articolo del 28 novembre 2019 su www.agendadigitale.eu (“Usa e Cina opposti su difesa, intelligence e 5G: ma non è solo una questione tecnologica”). Secondo Santarelli “in Cina c’è il miglior fattore tecnologico, umano e organizzativo. Tutto insieme. Il presidente Usa Trump l’ha capito, teme questa supremazia e sta cercando di mostrare i muscoli ma limitando i danni. Uno scenario complesso con sullo sfondo la supremazia tecnologica, ma non solo. (…)

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Trump ha fatto sapere che “del ban commerciale nei confronti di Huawei se ne parlerà fra tre mesi, e che per tale motivo ha concesso una deroga fino al 19 febbraio 2020”. Insomma, come dire vi temiamo ma intanto troviamo accordi e capiamo cosa state facendo. Non a caso i componenti della stanza ovale americana stanno buttando un occhio decisivo, anche se molti pensano di no, verso quell’economia della conoscenza che genera una corsa all’innovazione, in cui lo spionaggio economico costituisce per gli stati uno strumento per superare il divario tecnologico a costi inferiori.

Sotto il profilo storico Trump sa benissimo che il suo vero rivale da questo punto di vista è proprio la Cina e per questo motivo esperti e analisti dell’intelligence stanno studiando in maniera chirurgica gli atti del XIX Congresso del Partito Comunista Cinese già dal 2017. In quell’occasione il Presidente Xi Jinping annunciò che tra il 2020 e il 2035 si sarebbero raccolti i frutti del piano di ammodernamento industriale definito “Made in China 2025”.

Ultimamente lo stesso Presidente cinese ha dichiarato che dal 2035 fino al 2050 la Cina avrà un ruolo decisivo nelle innovazioni tecnologiche. Fa il paio con queste riflessioni il Libro Bianco sulla Difesa 2018, “China’s National Defence in the New Era”, che ripete che la Cina aderisce ad uno sviluppo coordinato di crescita industriale, di difesa nazionale e di sviluppo economico. Qui viene sottolineata la massima competizione in campo tecnologico e militare del paese. Trump, con i suoi esponenti, sta circoscrivendo questi contorni con un “monitoraggio costante” che non solo deve prevedere un maggior controllo di software o hardware ma anche un vademecum di quelle attività sociali della Cina stessa in cui l’unione di intenti militari e civili si stanno unendo in uno strumento che sta generando una supremazia del continente del drago nel campo tecnologico e della percezione della sicurezza.

Trump, diciamolo una volta per tutte, ha capito che ha di fronte un continente come la Cina che è l’unico paese al mondo che sta sviluppando in maniera forte ed indipendente il concetto secondo cui condivisione e protezione sono un topic che unisce termini come business, aziende e dati in una spirale di coinvolgimento tra pubblico e privato. Non per nulla Xi Jinping ha sottolineato la necessità di promuovere gli sforzi in direzione di una completa riunificazione del paese, dice il presidente, per “sostenere i principi di “riunificazione pacifica” e mantenere prosperità e stabilità durature a Hong Kong e Macao, promuovendo lo sviluppo pacifico delle relazioni attraverso lo Stretto (di Taiwan) per unire tutte le figlie ed i figli cinesi e continuare a tendere verso la completa riunificazione della madre patria”. (…)

Il governo USA ha capito che la Cina sta facendo “digerire” in maniera proattiva e collaborativa i controlli e il monitoraggio costante delle persone (e le loro “cose”) senza che le stesse non siano troppo contrarie. (…)

L’intelligence americana sta capendo che la Cina sta finalizzando dei parallelismi, cosa unica per la storia della Cina stessa, tra business social intelligence, private social intelligence e big data social intelligence. Mentre la maggior parte dei paesi mette al centro del proprio concetto di “rischio” la parola Cyber, la Cina mette “social”, cioè la percezione che il rischio non arrivi da esterni, ma dalla prevenzione degli attacchi dall’interno.

Sembra dire che più siamo uniti e compatti dentro, minori saranno i problemi di intrusione. Trump percepisce che la Cina ha per prima capito che la minaccia ibrida, quindi derivante dal mix dei rischi (infrastrutturali, web, sociali), deriva da debolezze interne. La Cina ha capito che coinvolgendo di più le persone, passando anche da disordini temporanei, avrà più facilità nella gestione dei dati e potrà fare degli esperimenti a cielo aperto”.



1.16 Hong Kong, la spina nel fianco della Cina


Uno dei nodi di maggiore frizione tra Pechino e Washington è stato negli ultimi anni, è e continuerà ad essere nei prossimi Hong Kong. L’ex colonia britannica è la porta di interessi finanziari miliardari occidentali, in primis americani, in Asia. In teoria il principale ponte, o uno dei principali, con la Cina. Quello che nelle intenzioni doveva convertire, traslare, congiungere colossali flussi finanziari da dollari/euro in yuan e viceversa. Sappiamo quanto questa illusione stia svanendo mese dopo mese sotto i colpi della repressione delle autorità inferti a manifestazioni che nella città invocano il rispetto delle libertà pattuite, sia politico-amministrative che economico-finanziarie. Manifestanti che si battono contro l’omologazione di Pechino, sbilanciata verso l’appiattimento della formula “Un paese due sistemi” nella mera “Un paese un sistema”.

Lo scorso novembre il Congresso americano vara lo “Hong Kong Human Rights”, una legge a difesa dei diritti umani nella ex colonia britannica. Sia chiaro, il provvedimento non costituisce un atto di evangelico e disinteressato afflato d’amore verso Hong Kong. Assomma su di sé strumentalità ed ingerenza. Una ghiotta occasione per provocare il rivale cinese. Mantenendo alto il livello della tensione polemica. E, beninteso, difendendo al contempo gli ingenti interessi finanziari americani. La lettura di azioni e reazioni che seguono la facciamo attraverso un contributo di Guido Santevecchi, corrispondente da Pechino del “Corriere della Sera” nella newsletter del “Corriere” “America-Cina” del 28 novembre 2019 dal titolo “La risposta di Pechino a Trump. Ma cosa accadrà in concreto?”.

Il ministero degli Esteri di Pechino ha reagito da copione alla firma di Trump sotto la legge varata dal Congresso a difesa dei diritti umani a Hong Kong. “Svela sinistre intenzioni e la natura egemonica degli Stati Uniti. Intimiamo agli Usa di non agire arbitrariamente, altrimenti la Cina dovrà fermamente contrattaccare”.

Il contrattacco verrebbe portato sul fronte della guerra commerciale? – si chiede Santevecchi – Improbabile. Xi Jinping è ansioso di siglare la “fase uno” del negoziato, visti i dati dell’economia cinese in drastico rallentamento a causa dei dazi americani. A Pechino pensano (si illudono?) che Trump abbia annunciato la firma sulla legge del Congresso con poco entusiasmo, si aggrappano alla premessa “Debbo stare con il popolo di Hong Kong, ma sto anche con Xi Jinping che rispetto”.

In concreto lo “Hong Kong Human Rights and Democracy Act”, la legge del Congresso ratificata dalla Casa Bianca, impone all’Amministrazione di rivedere almeno ogni anno lo status preferenziale concesso a Hong Kong dal punto di vista economico-finanziario. Se l’Amministrazione dovesse rilevare che Hong Kong è sottomessa alla legge di Pechino, che è stata omologata al sistema cinese, dovrebbe trattare il territorio come il resto della Cina: a cominciare dai dazi. Però, la Casa Bianca avrebbe potuto fare questa scelta punitiva e “umanitaria” anche senza una legge del Congresso. E sembra improbabile, visti gli interessi finanziari degli Stati Uniti a Hong Kong (1.300 aziende Usa, comprese quasi tutte le società finanziarie; 85 mila lavoratori americani; l’interscambio vale 67,3 miliardi di dollari e gli Usa vantano un surplus di 33,8 miliardi). Più probabile che il presidente continui a utilizzare la questione Hong Kong come mezzo di pressione commerciale su Pechino, con ambiguità”.



1.17 Il “Muro di Berlino” digitale tra Usa e Cina


Tra le due superpotenze se non in qualche città – come è successo in passato a Berlino, Nicosia, Gerusalemme – sul terreno tecnologico-virtuale senza confini si è costruito mese dopo mese un “Muro di Berlino digitale”. Sempre più alto, sempre più allungato, sempre più impenetrabile. “Come è nato il “Muro di Berlino digitale” tra Usa e Cina (e come abbatterlo)” si chiede Gianluca Mercuri su “America-Cina” del 28 novembre 2019. L’immagina è evocativa e la definizione quanto mai azzeccata a trenta anni dal magico 1989, anno della caduta della infame barriera divisoria nella capitale tedesca. “Abbiamo celebrato i 30 anni della caduta del Muro di Berlino, ma non parliamo abbastanza del “Muro di Berlino digitale” che sta segnando la nostra epoca, scrive Thomas Friedman sul New York Times. La sua è un’analisi profonda del modo in cui il mondo si sta dividendo in due zone tecnologiche e commerciali, una a guida americana e una a guida cinese. Il primo a teorizzare la “Cortina di ferro economica” è stato un anno fa Hank Paulson. Per 40 anni, ha spiegato l’ex segretario al Tesoro Usa, tra i due giganti c’è stata integrazione in 4 aspetti: beni, capitali, tecnologia e persone. A lungo si è ritenuto che questo potesse mitigare la competizione militare. E’ successo il contrario. Per due ragioni:

1.l’America non tollera più le (sleali) restrizioni cinesi sul suo import e il furto sistematico di proprietà intellettuale

2.la Cina è ora una superpotenza tech, e i suoi prodotti hanno implicazioni militari ed economiche che giocattoli, scarpe e magliette non avevano.

Il Muro di Berlino digitale è nato, in parte, quando la Cina ha sigillato la sua Rete separandola dall’internet globale, “surgelando” Google, Facebook e Twitter per censurare notizie e dibattiti.

Ma il mattone più grosso l’hanno posto gli Usa il 17 maggio 2019, inserendo Huawei nella loro blacklist, e impedendo così al secondo produttore mondiale di smartphone di comprare parti da Google, Qualcomm, Intel, Micron e Microsoft, se non con una licenza speciale. Per i cinesi è stato “un terremoto che ci ha svegliato tutti”, ha detto un supermanager di Pechino a Friedman. “Da allora pensiamo il mondo in modo diverso. Per essere sicuri dobbiamo contare solo sulle nostre tecnologie. Non ci troveremo mai più nelle condizioni di dover dipendere dall’America per componenti chiave”.

Un altro mattone sul muro è stato la stretta Usa ai visti per gli studenti cinesi, passati da 5 anni a uno in campi sensibili come aviazione, robotica e manifattura avanzata. Unito alla “dura retorica sui migranti”, ha detto il presidente del Mit Rafael Reif, il messaggio che mandiamo è che “l’America chiude la porta e non è più un magnete per gli individui più creativi del pianeta”.

Naturalmente ci sono anche i mattoni cinesi: l’aggressività militare, la repressione degli Uiguri, la morsa su Hong Kong, la tendenza a prendere dalla globalizzazione solo i benefit.

Il parere di Friedman è che certamente serve cautela sullo spionaggio, ma tutti i paesi si spiano e non tutti i cinesi sono spioni. “Credo ancora che vincano i sistemi aperti, che colgono per primi i segnali di cambiamento e sono arricchiti dai flussi globali di talento, idee e capitali”. La Cina “è nostro concorrente e partner economico, fonte di talento e capitali, rivale geopolitico, collaboratore e violatore seriale di regole. Non è nostro nemico né nostro amico”. Serve una pausa che fermi l’escalation. E serve, agli Stati Uniti, la rete di alleanze più ampia possibile, dall’Europa al Pacifico, in modo che a costruire le regole del 21° secolo ci sia “il mondo contro la Cina”, e non due mondi, o peggio un’America isolata. Perché il vero effetto dirompente della strategia di Trump – conclude Mercuri - è che è passato dall’”America First” all’”America Alone”.



Ulteriori contributi

Concludiamo il primo capitolo che ha ricostruito attriti ed eventi fino a tutto il 2019 con la semplice segnalazione per ragioni di spazio di una serie di ulteriori contributi di “Limes” sul tema “Scontro Usa – Cina”:

Dario Fabbri “L’America trionfante vuole lo scalpo della Cina”, numero 11/2018;

Cina e Usa stanno divorziando senza mai essersi sposati”, numero 11/2018;

Mu Chunshan “Gli Stati Uniti non possono fermare la nostra ascesa”, numero 11/2018;

Francesco Sisci “Perché i cinesi non capiscono gli americani”, numero 8/2019.

E, dal numero monografico “America contro tutti”, numero 12, 2019:

Andrej Kortunov “Nello scontro Usa-Cina a perdere sarà la Russia”;

Giorgio Cuscito “Il senso della Cina per l’impero americano”;

Walter C. Clemens Jr. “Perché noi americani non dobbiamo preoccuparci della strana coppia sino-russa”;

Francesco Sisci “La Cina paralizzata rischia l’implosione”;

Giorgio Cuscito “Hong Kong, Xinjiang e Huawei: i punti deboli della Cina nel 2019”.






CAPITOLO SECONDO

2020. E venne l’era del coronavirus



2.1 Cinesi e americani nel Medio Oriente


Il 2020 sembra un anno come gli altri. Di crisi economica e di segnali di ripresa. Comincia col botto dell’eliminazione mirata con droni a Bagdad da parte degli americani il 3 gennaio del generale iraniano Quasem Soleimani, potente responsabile della unità militare delle Guardie della Rivoluzione incaricata dell’”esportazione” dell’ideologia khomeinista fuori dalla Repubblica islamica. Rischia di essere la scintilla che farà deflagrare il conflitto tra Usa e Iran e nell’intera regione mediorientale ma la reazione di Teheran è più dimostrativa che altro. E a questo avvenimento si ricollega, con una chiave di lettura originale – nella quale sembra quasi si stabilisca una connessione tra Medio ed Estremo Oriente – una analisi di Paolo Salom sulla newsletter “America-Cina” del 9 gennaio intitolata “Mentre il mondo guarda al Medio Oriente, un intervento militare cinese contro Taiwan non è più fantapolitica”. “Con gli occhi tutti puntati sul Medio Oriente, più a Est c’è chi comincia a preoccuparsi seriamente – scrive Salom – A Taiwan, l’”isola ribelle”, dove sabato si tengono le elezioni parlamentari, analisti e osservatori alzano lo sguardo oltre lo Stretto che li separa dalla Cina continentale. L’idea, avanzata da Enoch Wu, ex ufficiale delle forze speciali ora candidato a entrare in Parlamento riportata dal Financial Times, è che a Pechino il vertice politico-militare sia sempre più propenso a risolvere la questione della separazione forzata tra le due sponde con la maniere forti. Ovvero: con un’invasione che, dice Wu, “è stata provata e riprovata negli ultimi mesi”.

Più lontano, negli Stati Uniti, paese garante dell’indipendenza se non formale di fatto di Taiwan da 70 anni a questa parte (da quando, nel 1949, l’esercito sconfitto di Chiang Kai-shek si rifugiò nell’isola), si respira più scetticismo. Ma le giravolte trumpiane, con colpi a sorpresa, portano a non escludere alcuna opzione geopolitica. Dunque, se la rivolta a Hong Kong, con la dura repressione ordinata a Pechino, ha certamente allontanato una possibile riunificazione pacifica sulla base del principio “Un paese due sistemi”, ormai scricchiolante nell’ex colonia britannica, l’ipotesi di un intervento militare contro Taiwan non è più nel regno della fantapolitica. Soprattutto – e qui la Storia è buona maestra – quando occhi e menti di chi conta nel mondo sono tutti puntati altrove”.

Non è stato così. Per fortuna. Almeno finora. Anche perché la Cina comincia ad avere altre gatte da pelare. Terrorizzanti e immobilizzanti. Come ad esempio una epidemia d’un virus sconosciuto. Ma di questo parleremo a lungo più avanti. Intanto, visto che abbiamo appena letto di Medio Oriente, restiamo nell’area per una interessante analisi sul ruolo attuale e futuro di Usa e Cina in questo scacchiere nevralgico in perenne agitazione. Anche da quelle parti sale inesorabilmente tra le due superpotenze così lontane geograficamente la soglia della competizione che si approssima sempre più allo scontro. A tracciarla, con mano sapiente, William F. Weshsler, del “Rafik Hariri Center and Middle East Programs – Atlantic Council” su www.ispionline.it del 29 gennaio 2020. Titolo: “Mediterraneo: quattro scenari per Usa e Cina”.

Secondo Weshsler “il Medio Oriente è un'area del mondo sostanzialmente instabile. Minacce alla stabilità regionale sono emerse regolarmente sia dalle controversie tra i governi sia dalle forze interne agli stati membri. È altamente probabile che l’instabilità continuerà per i prossimi decenni. In prospettiva, tuttavia, la stabilità della regione sarà sempre più minacciata da dinamiche relativamente nuove, in gran parte esterne. La più importante tra queste sarà l'interazione di tre transizioni, ad oggi in corso o incompiute: l'ascesa dell'influenza regionale cinese, la prospettiva di ridimensionamento regionale degli Stati Uniti e il mutevole approccio strategico globale tra i due contendenti Stati Uniti e Cina.

Le relazioni della Cina con le nazioni del Medio Oriente e del Nord Africa sono state relativamente poche fino ad epoche relativamente recenti allorquando la crescita economica di Pechino si è proiettata a livello globale. Nel 2015, la Cina è diventata ufficialmente il più grande importatore globale di petrolio greggio, con quasi la metà della sua fornitura proveniente dal Medio Oriente. E in tutta la regione, la Cina è diventata la più grande fonte di investimenti esteri per un valore di oltre 123 miliardi i dollari. Con il crescere del commercio e degli investimenti, il governo di Pechino ha aumentato in modo significativo la sua attenzione strategica per la regione, in campo sia economico che politico e militare.

Praticamente tutti gli accordi strategici che la Cina ha concluso con i paesi della regione sono stati firmati nel corso dell'ultimo decennio, con l’eccezione dell’accordo con l’Egitto che risale al 1999. In questo periodo, la Cina ha stabilito partnership strategiche globali con Algeria, Egitto, Iran, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, nonché partnership strategiche con Gibuti, Iraq, Giordania, Kuwait, Marocco, Oman, Qatar e Turchia. Finora i diplomatici cinesi sono stati in grado di gestire abilmente le tensioni regionali tanto da acquistare petrolio dai due “nemici” Arabia Saudita - il principale fornitore di petrolio della Cina -  e Iran di cui la Cina è il principale acquirente di petrolio.

Anche le relazioni militari cinesi in tutta la regione, sebbene ancora poco numerose rispetto alle tradizionali potenze esterne, stanno aumentando. La Marina cinese ha iniziato a visitare i porti della penisola arabica nell'ambito di missioni internazionali antipirateria e nel 2017 ha aperto la sua prima base militare d'oltremare nella regione di Gibuti. Proprio lo scorso dicembre, la Cina, la Russia e l'Iran hanno iniziato un’esercitazione militare congiunta di quattro giorni che, a sua volta, ha seguito le esercitazioni navali di tre settimane tra Cina e Arabia Saudita svoltesi il mese prima.

Nel campo della sicurezza oramai non è raro trovare contractors cinesi privati che lavorano in Medio Oriente, regione dove maggiori sono stati gli aumenti di acquisti di armamenti cinesi, in particolare droni e sistemi missilistici balistici. La Cina vende tali armi senza apporre condizioni o limitazioni come quelle praticate dai paesi occidentali, specie nel campo del rispetto dei diritti umani. Ma la Cina sta anche vendendo attivamente tecnologie commerciali “double use” nella regione, in settori come la sicurezza informatica, i droni disarmati, l'infrastruttura wireless di prossima generazione, la navigazione satellitare e l'energia nucleare. Forse ancora più significativamente, negli anni a venire, è possibile che la Cina comincerà a esportare i sistemi basati sulla tecnologia che sta perfezionando relativa al controllo della popolazione.

Gli obiettivi strategici cinesi per la regione seguono l’"Arab Policy Paper" del 2016, rilasciato in coincidenza con il primo viaggio presidenziale di Xi Jinping in Medio Oriente. L'obiettivo strategico è di incoraggiare la stabilità della regione. Il suo strumento preferito è lo sviluppo economico. Pechino è molto attenta a insistere pubblicamente sul fatto che non stia cercando di soppiantare gli Stati Uniti nel ruolo che hanno nella regione, e nel breve termine questo è senza dubbio vero. Tuttavia, data la realtà geostrategica per cui l'accesso all'energia continuerà a rappresentare un interesse vitale per la Cina specialmente quello che passa attraverso i diversi chokepoints marittimi, dovremo aspettarci che, a lungo termine, la Cina costruirà sempre più una presenza militare regionale in grado di proteggere i suoi interessi in Medio Oriente.

Contemporaneamente, la politica degli Stati Uniti nei confronti del Medio Oriente sta vivendo una radicale transizione. Fino a tempi relativamente recenti, il ruolo regionale degli Stati Uniti era una delle componenti più coerenti della politica estera Usa, sostenuta su base bipartisan nelle diverse amministrazioni. Gli Stati Uniti hanno generalmente limitato il loro ruolo a quello di un classico potere di status quo, cercando in gran parte di preservare un equilibrio intrinsecamente fragile. Ma nei primi due decenni del ventunesimo secolo, i presidenti americani hanno deciso di ribaltare questa tradizione.  Ci sono voluti molti decenni per costruire una Pax Americana in Medio Oriente. Ci è voluto molto meno tempo per metterla a rischio. Nonostante la presenza militare Usa relativamente stabile nella regione, i leader locali stanno comprensibilmente iniziando a chiedersi se gli Stati Uniti possano ritirarsi del tutto dalla regione come hanno fatto in precedenza inglesi, francesi e ottomani. I partner statunitensi tradizionali non cercano questo risultato, ma si stanno attivando per evitarlo o comunque per cercare interlocutori alternativi.

E infine, la terza grande transizione che ha conseguenze per il Medio Oriente è il mutevole rapporto tra Stati Uniti e Cina. Come recentemente sostenuto da Fareed Zakaria su Foreign Affairs, vi è nell’amministrazione americana "un nuovo consenso” che ritiene che la Cina sia ora una minaccia vitale per gli Stati Uniti, sia economicamente che strategicamente, e che la politica statunitense nei confronti della Cina abbia fallito. Questo consenso ha spostato la posizione dell’opinione pubblica verso un'ostilità quasi istintiva: secondo un recente sondaggio, il 60% degli americani ha ora una visione sfavorevole della Repubblica popolare, un record da quando il Pew Research Center ha iniziato a porre la domanda nel 2005. [Sull’argomento torneremo con un aggiornamento in uno dei prossimi paragrafi, n.d.a.]

Date queste tre transizioni in corso, mentre guardiamo al futuro possiamo immaginare quattro diversi scenari per il Medio Oriente.

Il primo scenario è che gli Stati Uniti restino l'unica grande potenza operativa in Medio Oriente, come in passato. È ancora possibile che il prossimo presidente degli Usa invertirà il corso stabilito dai suoi immediati predecessori e riaffermerà l'impegno americano nella regione. Ma è profondamente poco plausibile che Cina e Russia facciano un passo indietro dalla regione. Questo è quindi il risultato meno probabile.

Il secondo scenario è che il Medio Oriente diventi un teatro regionale in un grande scontro globale di potere tra Stati Uniti e Cina. Un simile scontro rispecchierebbe la competizione tra Usa e Unione Sovietica in molte parti del mondo durante la Guerra Fredda. I paesi della regione sarebbero tenuti a scegliere le parti e gli effetti di tale scenario minaccerebbero di sopraffare tutte le altre sfide che si ritrovano a affrontare oggi nella regione. Questo è il risultato peggiore possibile e dovrebbe essere evitato a tutti i costi, se possibile.

Il terzo scenario è che gli Stati Uniti si ritirino completamente dalla regione. Questo sarebbe un risultato chiaramente negativo per tutti gli attori coinvolti, anche per la Cina, a causa del ruolo svolto dagli Usa come fornitore di sicurezza per la regione stessa. Non è difficile immaginare le implicazioni di un simile futuro. Le risorse energetiche della regione sarebbero ancora più insicure. L'Iran sarebbe ancora più aggressivo e la Turchia sarebbe più revanscista. L'influenza in gran parte malevola della Russia crescerebbe. La Cina accelererebbe senza dubbio i piani per la sua presenza navale. Altri attori statali e non statali regionali non si sentirebbero vincolati a promuovere i propri obiettivi ed entrerebbero in conflitto tra di loro. I gruppi terroristici jihadisti salafiti crescerebbero e il potenziale di proliferazione nucleare aumenterebbe. Gli interessi della sicurezza nazionale degli Stati Uniti sarebbero minacciati e l'economia globale sarebbe più vulnerabile agli shock legati all'energia.

Il quarto scenario è che il Medio Oriente diventi in gran parte un'area di cooperazione per la Cina e gli Stati Uniti, che coordinano le loro attività in base al reciproco interesse per l'energia, la stabilità e la prosperità economica. I due paesi avrebbero ancora forti differenze, sia a livello globale che a livello regionale, ma collaborerebbero consapevolmente per sviluppare meccanismi specifici per gestire tali differenze nel contesto del Medio Oriente. Per raggiungere quest'ultimo risultato, il più positivo, la Cina e gli Stati Uniti dovrebbero ora iniziare a discutere apertamente le loro aree di comunanza e divergenza e cercare di migliorare la loro comprensione reciproca, sia ufficialmente tra i governi sia informalmente.

Sfortunatamente, oggi la maggior parte degli esperti americani in Medio Oriente – conclude Wechsler - sanno poco della Cina, e allo stesso modo i relativamente pochi studiosi cinesi nella regione troppo spesso non sono esperti di interessi e politiche regionali statunitensi. Poiché la tendenza naturale è purtroppo verso scenari più negativi, è fondamentale che tali dialoghi inizino sul serio, il più presto possibile”.



2.2 La pandemia targata Cina


Prime avvisaglie a gennaio. Da febbraio in poi l’emergenza sanitaria da coronavirus dilaga. Dal focolaio Cina settimana dopo settimana avanza inesorabile ed omicida in Asia, in Europa, nelle Americhe, negli altri continenti. Il nemico invisibile annienta tutte le sicurezze e le umane consuetudini e, lungi dal frenare la rotta di collisione tra Washington e Pechino, introduce nella diatriba, come in una tempesta perfetta, un colossale “cigno nero”. Ideale per ogni genere di accuse e controaccuse. Il clima si fa talmente rovente tra la superpotenza americana e la superpotenza asiatica da ufficializzare, quasi come in una dichiarazione di guerra, la “Seconda Guerra Fredda”. E la regina di tutte le ragioni di contrasto diventa ben presto l’epidemia di coronavirus, tanto stravolgente e tanto mortale per gli individui e per le economie di tutti i paesi. Tutta colpa della Cina se non addirittura dalla Cina deliberatamente architettata, tuona Washington. Lo scontro su Covid-19 copre tutti gli altri motivi del contendere tra americani e cinesi. Ma naturalmente non li annulla, semmai li esaspera.

Gli osservatori debbono ora riscrivere le loro analisi sullo scontro Usa-Cina. Ricompendiarle, aggiornarle alla luce degli stravolgimenti globali provocati dal virus. Una riscrittura con migliaia di opinioni diverse ma con un unico punto fermo: Covid-19 ha contribuito in modo feroce ad innalzare la tensione tra Pechino e Washington. Tra generalizzati disorientamenti, confusione, caotiche strategie di risposta che richiederanno nel tentativo di arginare la diffusione della pandemia settimane di aggiustamenti e chiusure di intere nazioni e confinamenti in casa di miliardi di persone e morti a decine di migliaia al giorno.


Appare così quanto mai calzante il titolo di un articolo di Wu Xiangning su “wwwlimesonline” del 14 aprile 2014: “L’incertezza è l’unica certezza della Cina”. “Tentativo di insabbiamento o errore di valutazione? – ci si chiede – La gestione dell’epidemia di coronavirus da parte di Pechino mette in discussione la stessa struttura di governo. I costi economici della crisi sono esorbitanti. (…) Fin dall’inizio dell’epidemia di coronavirus, l’opinione pubblica cinese non ha mai smesso di chiedersi come sia stato possibile che la crisi abbia raggiunto le attuali proporzioni, rivolgendo la propria rabbia soprattutto verso i quadri del Partito comunista (Pcc). Fino a ora, la popolazione non ha ricevuto spiegazioni soddisfacenti. Il licenziamento di oltre 200 burocrati ha permesso di allentare la tensione sociale, ma non è abbastanza. Oggi, nel bel mezzo della lotta contro il coronavirus, non è tempo di giocare allo scaricabarile, ma al momento opportuno (…) si dovrà fare i conti con la rabbia popolare”. (…)”.

Il Covid-19 allarga lo Stretto di Taiwan” osserva sullo stesso numero della rivista di geopolitica Arthur S. Ding rilevando che “la divergenza nella gestione della pandemia è solo l’ultima manifestazione dello scontro tra Pechino e Taipei. Le intimidazioni della Cina non smorzano l’indipendentismo di Formosa e il suo flirt con l’America”.

Alle prime valutazioni essenzialmente di politica sanitaria, o malapolitica sanitaria, man mano che si sigillano le attività lavorative nel pianeta seguono, sempre più affinate, le analisi economiche e finanziarie che calcolano la portata dell’immane disastro in corso. E’ presto chiaro che, per evidenza di cose, vittima sacrificale della pandemia sarà la globalizzazione. Con quali effetti? Ne scrive, sempre nella stessa data e sulla stessa testata, Fabrizio Maronta (“Hai detto globalizzazione? Alti costi e incerti effetti del “divorzio” fra Usa e Cina”. Perché, come scrive l’analista, è ineccepibile che “la storia della seconda globalizzazione, quella di cui noi contemporanei siamo protagonisti e testimoni, è in gran parte storia di un doppio, convergente movimento.

In primo luogo, la definitiva affermazione del modello capitalistico statunitense, cui il rovinoso crollo del blocco sovietico a economia pianificata toglie l’unico, residuo antemurale.

Insieme – specie dagli anni Novanta in poi, grazie alle premesse poste a fine anni Settanta da Deng Xiaoping e Nixon l’adozione su enorme scala di tale modello da parte delle economie asiatiche, Cina su tutte, che ne fanno il motore della loro modernizzazione e riconversione.

Il trait d’union di questa epocale trasformazione è dato dalla stretta relazione funzionale venutasi a creare tra capitalismo statunitense e «socialismo con caratteristiche cinesi». Un legame così schematizzabile. L’America, grazie all’esorbitante privilegio connesso alla detenzione della massima moneta di riserva, struttura un crescente deficit commerciale con l’Impero del Centro, cui i vantaggi competitivi – manodopera economica e abbondante, bassi standard ambientali, dirigismo – consentono di produrre quantità immani di beni a costi ipercompetitivi. Questi ultimi sostengono il potere d’acquisto di una classe media statunitense (motore dell’economia e del consenso nazionali) sempre più penalizzata dalla stasi dei redditi e dalla medesima concorrenza estera, fatale conseguenza del posto centrale occupato dal free trade nella filosofia economica nazionale.

Gli ingenti attivi commerciali sono usati da Pechino per (…) sostenere i massicci investimenti interni (forieri di bolle speculative, come quella immobiliare) necessari a incrementare la capacità produttiva (…)”. Conclusione a cui perviene l’analisi: “Il mondo è sempre più esposto con Pechino, ma non viceversa. La crisi in corso palesa la vulnerabilità dell’economia globale agli shock interni del dragone. Con limiti dello sganciamento americano dal colosso cinese. E con rischi per la centralità del dollaro”.



2.3 Le conseguenze strategiche di Covid-19


Dopo le valutazioni di ordine sanitario, commerciale, finanziario, economico inevitabile che con il coronavirus che dalla Cina si espande in tutto il mondo – dalla Sud Corea all’Italia, dall’Europa agli Stati Uniti – si provi a tracciare le conseguenze di ordine strategico. Tra le numerose opinioni ecco quella di Andrea Gilli e Ilaria Latorre, entrambi analisti del “Nato Defense College” di Roma (per quanto esprimano opinioni a titolo personale e che non impegnano la struttura di appartenenza) su “www.affarinternazionali.it” del 15 aprile 2020, con il titolo “Quali le conseguenze strategiche del coronavirus?”, sesto articolo di una serie che lo IAI, Istituto Affari Internazionali, dedica ad una riflessione sul tema “Covid-19 e insicurezza internazionale”:

C’è chi ritiene che per via del Covid-19, l’ordine mondiale sarà destinato a rivoluzionarsi. Per alcuni è la fine della globalizzazione. Per altri ancora, la crisi accelererà ulteriormente l’ascesa della Cina o il declino dell’Unione europea.

In questo nostro articolo vogliamo focalizzarci su alcuni aspetti meno roboanti, ma pur sempre collegati alla crisi – la crescita delle minacce cibernetiche, la readiness delle Forze armate e le necessità finanziarie delle start-up e che, se non affrontati, possono avere importanti ripercussioni strategiche nel breve e medio termine.

Studenti, lavoratori e più in generale tutti i cittadini spendono sempre più tempo su Internet per compensare l’impossibilità di muoversi. Più stiamo su Internet e più trasferiamo dati via piattaforme digitali. Però, man mano che il ricorso all’home office aumenta, più aumentano le conversazioni riservate che avvengono in via digitale o la condivisione online di documenti sensibili. In altri termini, i rischi cibernetici aumentano. Anche perché, maggiore è il tempo passato su Internet, maggiore sono le possibilità di sfruttare zero-day vulnerabilities o altre imperfezioni a livello di hardware o software. (…)

Un altro ambito che desta attenzione riguarda la capacità di azione e reazione delle Forze armate. È un tema delicato, ben esemplificato negli Stati Uniti dalla situazione della portaerei USS Theodore Roosvelt, che si è trovata con una parte significativa del proprio equipaggio contagiato dal Covid-19 e quindi impossibilitata ad operare. Già a inizio marzo avevamo visto delle avvisaglie quando l’esercitazione multinazionale a guida americana, Defender 2020, è stata fortemente ridimensionata.

È dunque fondamentale capire quanto la crisi aggredisca le nostre capacità di deterrenza e come si possa gestire questa (nuova) situazione. Da una parte, alcuni ritengono che le pandemie saranno sempre più ricorrenti in futuro. Dall’altra, nemici e avversari hanno capito fin troppo come poter indebolire l’Italia, l’Europa, la Nato e più in generale l’Occidente: basta un virus sconosciuto scovato in qualche parte sperduta in giro per il mondo.

Non bisogna però solo prepararsi a questa (futura) evenienza, ma è anche necessario affrontare immediatamente il presente, a partire dall’addestramento, l’esercitazione e la formazione – essenziali tanto per rodare la macchina da guerra che per creare spirito di corpo, a livello nazionale e multinazionale. Una parziale soluzione consiste nel ricorrere con maggiore insistenza a sistemi autonomi o senza pilota. Ciò ci porta all’ultima considerazione.

Prima che scoppiasse la crisi, la “buzzword” nel mondo della difesa era innovazione e disruption”, ovviamente prevalentemente tramite le start-up. La parola d’ordine adesso è resilienza: per gli esseri umani, significa ventilatori polmonari e ossigeno; per le start-up significa avere accesso a un altro tipo di ossigeno, ovvero le risorse finanziarie di cui queste hanno estremamente bisogno.

Il discorso si può espandere alla filiera produttiva in campo militare, dove alcune anche piccole o medie imprese possono sviluppare componenti essenziali e non sostituibili per caccia da combattimento o sottomarini d’attacco. Ciò che conta è che, per via della recessione, molte aziende centrali per la nostra sicurezza di oggi o di domani possono venire a trovarsi in estrema difficoltà finanziaria o economica.

In conclusione, non è necessario che il Covid-19 porti a un cambiamento dell’ordine mondiale, all’ascesa della Cina o alla fine della globalizzazione: per indebolire la nostra sicurezza e, più in generale, la sicurezza collettiva, basta molto di meno”.



2.4 Il bisonte ferito. La “rabbia virale”


Il re è nudo. Il Covid-19 “svela la grande debolezza del primato geopolitico statunitense: la profonda, inedita dipendenza dalla manifattura cinese. In prospettiva il declouping accelererà. Ma nell’immediato Washington ha le mani legate. E Pechino passa all’incasso” nota Jacob L. Shapiro (“La Cina presenta agli Usa il conto della deglobalizzazione” in www.limesonline, 15 aprile 2020. E rileva quasi sconfortato: “Stati Uniti e Cina sono i due pilastri dell’economia globale. Insieme assommano il 40 per cento del Pil mondiale. Eppure, la minaccia unica e planetaria posta dal coronavirus non ha avvicinato i due paesi. Anzi, li ha ulteriormente allontanati. In questo momento le relazioni bilaterali sono ai minimi dagli anni della guerra in Vietnam, quando Pechino inviò centinaia di migliaia di soldati nel Vietnam del Nord per supportare i vietcong. Il mondo già ne soffre ma è molto probabile che abbia a soffrirne ancora di più. (…)”.


Ma c’è di più. Non solo relazioni bilaterali ai minimi. Il 19 aprile Trump lancia un vero e proprio avvertimento: con la Cina ci saranno conseguenze. “ “Con la Cina abbiamo avuto buone relazioni finché non hanno fatto questo”. Lo ha detto il presidente Usa Donald Trump riferendosi a quelli che ritiene siano stati i ritardi e le reticenze cinesi nelle informazioni sul coronavirus. La questione è “se è stato un errore, qualcosa di cui hanno perso il controllo, o se l’hanno fatto deliberatamente”. E in questo caso “ci saranno conseguenze”. “Possibili conseguenze se deliberatamente la Cina non ha informato”. (Televideo Rai, 19 aprile 2020).

Mentre il direttore del laboratorio dei virus pericolosi si difende (“Impossibile che il virus sia partito dalla nostra struttura, nessuno di noi si è ammalato”) si profila all’orizzonte un conseguenziale, enorme terreno di scontro: i rimborsi che enti pubblici e privati imprenditori chiederanno a Pechino per i danni subiti dal coronavirus. Negli Stati Uniti in questo nuovo, scivolosissimo motivo di contesa fa da battistrada lo stato del Missouri che promuove una class action contro il gigante asiatico.


La “rabbia virale” degli Stati Uniti monta. E’ ”l’America al bivio nello scontro con la Cina” come efficacemente viene sintetizzata, quasi con un doppio slogan, dal mensile “Limes”, numero 3, del 2020.

Una “rabbia virale” che non è costruita a tavolino alla Casa Bianca o al Pentagono o nel Quartier Generale della Cia. E’ invece spontanea, diffusa, viene dal basso, dalla gente. Bipartisan. Come spiega con dovizia di dati e percentuali il corrispondente del “Corriere della Sera” da Washington Giuseppe Sarcina il 22 aprile (“Agli americani (di destra e di sinistra) non piacciono più i cinesi”): “Negli Usa i cinesi non piacciono più. Il Pew Research Center, importante centro di ricerca con sede a Washington, ha pubblicato ieri uno studio su ciò che gli americani pensano dei cinesi. Il sondaggio è stato condotto nello scorso mese di marzo e quindi registra la reazione ai sospetti diffusi dall’amministrazione Trump: Pechino avrebbe comunicato in ritardo le informazioni sul contagio.

Negli ultimi anni l’opinione pubblica degli Stati Uniti ha guardato con scetticismo crescente al grande Paese asiatico. I sentimenti, però, erano tutto sommato bilanciati. Ancora nel 2017, primo anno di Donald Trump alla Casa Bianca, il 47 per cento degli interpellati dal “Pew” sosteneva di avere un giudizio “sfavorevole”; ma i “favorevoli” erano pur sempre il 44 per cento. Da lì in poi la forbice si è divaricata. Segno che la campagna dei dazi e poi la guerra commerciale hanno lasciato il segno.

Il Covid-19 ha esasperato questa tendenza. Oggi il 66 per cento non apprezza la Cina, contro il 26 per cento dei bendisposti. Ma il dato forse più interessante è che questa sfiducia sia sostanzialmente bipartisan. Il 72 per cento dei cittadini che si dichiarano repubblicani esprime parere negativo, mentre tra i democratici la quota si attesta al 62 per cento, comunque la larga maggioranza.

I giovani tra i 18 e i 29 anni sono i più divisi: 53 per cento pro e 43 per cento contro. I più schierati gli ultrasettantacinquenni: 71% e 21%. Queste cifre, probabilmente, spiegano l’ondata anticinese che sta montando negli Stati Uniti e che si riflette negli umori all’interno sia del governo che del Congresso.

Trump finora ha sempre distinto tra i rapporti con la Cina e quelli suoi, “eccellenti”, con Xi Jinping. La ricerca, però, mostra come sia crollata anche la reputazione del presidente cinese. Prima del coronavirus il 50% del campione non si fidava; ora è il 71%”.


Del resto gli Stati Uniti si leccano ferite dolorosissime. E, come da noi, a pagare sono soprattutto le fasce più giovani dei lavoratori. Lo scrive sulla stessa newletter “America-Cina” del 22 aprile Massimo Gaggi in un pezzo intitolato “Millennials, la generazione perduta due volte”: “Il 52% degli americani di età inferiore ai 45 anni che erano nel mercato del lavoro all’inizio del 2020, a causa del blocco dell’economia prodotto dal coronavirus, sono rimasti disoccupati, sono stati messi in aspettativa dalle loro aziende o hanno dovuto accettare una significativa riduzione dell’orario e del salario. Quelli dell’indagine di Data for progress, un istituto di ricerca della sinistra Usa, sono numeri spaventosi. Ma, dal punto di vista dei rischi per la tenuta sociale, è altrettanto allarmante un altro dato: questi fenomeni di perdita o precarizzazione del lavoro toccano molto meno gli americani di età più avanzata, solo il 26 per cento degli ultra 40/50enni. E’ l’ennesima conferma, forse la più drammatica, del colpo economico durissimo che la pandemia sta infliggendo ai giovani e, in modo particolare, alla generazione dei millennials: i trenta-quarantenni usciti da scuole e università ai tempi della Grande recessione del 2008 che, dopo quel primo choc e un decennio passato a tentare un lento, faticoso recupero, ora vengono investiti in pieno da un’altra tempesta”. (…).



2.5 Pechino: molti nemici molto onore? Pare proprio di no


Anche in piena esplosione pandemica nel Mar Cinese Meridionale non mancano i motivi per mostrare i muscoli. E non riguardano solo Pechino e Washington ma anche altri paesi dell’area che seguono con allarmata diffidenza l’eccesso di attivismo dei cinesi. Come riferisce Guido Olimpio in una breve corrispondenza dal titolo “Pechino-Washington: il duello nel Pacifico si allarga” del 22 aprile sulla newsletter del “Corriere della Sera” “America-Cina”: “A Oriente continua il duello a distanza. La nave d’assalto anfibio Us America e l’incrociatore lanciamissili Bunker Hill sono entrati nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale. Una manovra coincisa con le mosse da parte della Cina che ha inviato una unità per seguire le ricerche sottomarine da parte di una nave della Malaysia. Sviluppi di un Risiko reale dove sono coinvolti anche australiani, filippini e vietnamiti, tra i più preoccupati per le spinte cinesi. Pechino è in lite con gli Stati della regione, ha rivendicazioni territoriali, respinge quelle degli altri, militarizza gli atolli, porta avanti la propria strategia di allargamento. Lo scontro più duro – in questa fase – è con Hanoi: un pattugliatore ha affondato un peschereccio viet. E il Pentagono risponde con il proprio dispositivo fatto di basi e flotta, pur menomato dall’assenza di due portaerei. Washington, insieme agli alleati, accusa i rivali di aver sfruttato l’emergenza virus – con i governi troppo impegnati ad affrontare la crisi – per mettere a segno dei punti”.

L’epidemia ha contagiato in modo profondo le relazioni tra le due superpotenze come scrive lo stesso giornalista che negli infuocati e “virati” giorni di aprile segue passo passo le esibizioni di forza di americani e cinesi.

Andersen Air Force Base, Guam. Un elicottero delle forze speciali, due droni, alcuni bombardieri strategici B 52, un rifornitore. Tutti insieme nel cosiddetto “passo dell’elefante”. La foto diffusa dalle fonti ufficiali Usa è l’ennesimo segnale alla Cina sulla scacchiera del Pacifico. Ieri avevamo parlato del duello in mare, con Pechino che ha schierato la sua portaerei e la Navy una portaelicotteri. Intanto la Marina ha annunciato che la portaerei Truman resterà al largo della costa Est americana nonostante abbia fatto due turni operativi ed abbia bisogno di manutenzioni. In questo modo evita il contagio e garantisce capacità d’azione”. (“Duello nel Pacifico, il “passo dell’elefante alla base americana” in “America-Cina”, 14 aprile 2020).

Ormai sembrano chiare le priorità del Pentagono, vanno verso una direzione precisa: il Pacifico. E vi segnalo, sul tema, due notizie. La prima: il repubblicano McThornberry, membro autorevole della Commissione difesa della Camera Usa, proporrà di stanziare quasi 6 miliardi di dollari per creare un fondo destinato a contrastare l’azione della Cina. E stiamo parlando solo del 2021. Cifre importanti con l’obiettivo di rafforzare il dispositivo militare nel momento di grande tensione tra le due super potenze. E’ evidente che nessuno si aspetta un miglioramento. La seconda: gli Usa sospettano che Pechino abbia condotto un test ridotto e sotterraneo nel sito nucleare di Lop Nur, ma non hanno fornito prove chiare della loro accusa. Prudenti gli scienziati statunitensi che, da un lato, analizzano le mosse cinesi e, dall’altro, sono consapevoli dell’effetto virus. L’epidemia ha contagiato in modo serio le relazioni tra i due paesi. La lotta prosegue a colpi di rivelazioni, indiscrezioni, fughe di notizie”. (“La sfida nel Pacifico: soldi e sospetti” in “America-Cina”, 16 aprile 2020).

L’attività navale di Pechino nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale provoca altre reazioni. L’ultima arriva dalla Malaysia: siamo decisi a proteggere i nostri diritti. I rivali di Pechino – come Usa e Vietnam – seguono interessati”. (“Da tenere d’occhio” in “America-Cina”, 23 aprile 2020”).


Un inquietante “crescendo rossiniano”. Ma qui lo spartito musicale alla fine sarebbe il fragore delle armi. Colpisce che la “rabbia virale” non è solo di marca statunitense ma si allarga ad un numero crescente di paesi. A partire, ovviamente, dai vicini di casa della Cina che mal ne sopportano l’invadenza. “Con il pretesto della crisi sanitaria, Tokyo offre 2,2 miliardi di dollari di sussidi alle proprie imprese per spingerle a lasciare la Repubblica Popolare. La mossa comprova la rivalità con Pechino e le ambizioni nipponiche nel Sud-Est asiatico. Pensare che aprile doveva essere il mese della prima visita di Xi Jinping in Giappone da presidente della Repubblica Popolare Cinese. [Visita annullata causa pandemia, n.d.a.] (Giorgio Criscito “Il Giappone approfitta del virus per sganciarsi da Pechino” in www.limesonline.it, 23 aprile 2020).

E’ un dato di fatto che il quadro si deteriora a tal punto – e non solo nei rapporti bilaterali Usa-Cina ma anche in un più ampio contesto di rapporti multilaterali tra Cina e mezzo mondo – che il 30 aprile Edoardo Toffoletto su “it.businessinsider.com” in un approfondimento dal titoloScenari post-coronavirus: l’accelerazione della disgregazione dell’ordine mondiale e i segni del ritrarsi della potenza Usa” può scrivere: (…) Il dramma è in effetti tale che l’editoriale del Financial Times del 23 aprile invita a far diventare il Covid-19 questione di sicurezza internazionale da delegare non già solo al sapere tecnico dell’Oms, ma al Consiglio di sicurezza dell’Onu, sotto l’egida del quale dovrebbe formarsi una commissione internazionale di esperti inclusi cinesi e americani – per determinare la natura del virus con una missione al suo focolaio originario a Wuhan. La cosa sarà difficile, essendo il rapporto tra Cina e l’Occidente ai minimi storici, ma una possibile apertura cinese ad una tale forma di indagine internazionale sul proprio suolo può essere certo la chiave per ristabilire una dinamica di cooperazione, anziché fomentare complottismi nati dall’angoscia dell’ignoranza, più che dalla malafede.

Al contempo, proprio a Wuhan, ci garantisce il Financial Times, la Cina ha quartieri militari strategici che – in una tale spedizione internazionale – potrebbero diventare facile preda di spionaggio. (…) Il grado di “colpa” dei cinesi in merito alla fuga del virus o alla sua espansione planetaria rimarrà per sempre un segreto, che forse uno storico dei servizi segreti potrà chiarire tra cento anni. 

(…) Infatti, la pandemia potrebbe accelerare in seno alla potenza americana la questione del decoupling, cioè il loro sganciamento dall’economia cinese, che secondo gli accordi del suo ingresso al Wto [l’Organizzazione mondiale del Commercio, n.d.a.] ha sempre investito sul debito americano. Ma soprattutto, sempre in quel tacito accordo, è stato il luogo principale delle delocalizzazioni dei colossi tecnologici e industriali americani, nonché Occidentali. La sempre maggiore dipendenza degli Usa dalla filiera dell’industria strategica da un paese, la Cina, che appare sempre più un rivale geopolitico fa sorgere anche all’establishment più liberal qualche dubbio sui rischi dello spionaggio industriale cinese.

In ogni caso, nessun paese, scrive Haas [politologo americano, n.d.a.] “può gioire oggi della posizione che avevano gli Stati Uniti nel 1945”, e continua affermando che “nessun paese, neanche la Cina…ha al contempo il desiderio e la capacità di riempire il vuoto creato dagli Stati Uniti”. Se ne è parlato tanto del vuoto geopolitico e istituzionale lasciato dagli Usa e segnatamente a partire dall’amministrazione di Trump, benché già a partire da Obama la proiezione estera in termini globali cominciasse a ritrarsi, anche se pochi vorrebbero ammetterselo a se stessi, perché Obama sarebbe il buono e Trump il cattivo. (…)”.


Il fatto che questo orribile 2020 sia negli Usa un anno elettorale complica il quadro. Trump – con i suoi limiti sconcertanti, a volte macchiettistici, nella gestione dell’emergenza coronavirus che si è trasformata in America in una spaventosa mattanza – ha buon gioco nell’additare Pechino come l’origine di tutti i mali. E a presentarsi come un aspirante vendicatore. Anna Lombardi ne scrive su “La Repubblica” il 30 aprile in un articolo intitolato “Trump attacca la Cina: Farà di tutto per non farmi rieleggere”: «La Cina farà il possibile per non farmi rieleggere». Donald Trump crolla nei sondaggi, giù di 10 punti dal gradimento di dicembre e sotto di sei rispetto al suo avversario Joe Biden, per colpa della gestione confusa e contraddittoria della lotta contro il coronavirus. (…) Il Dragone, dice, «punta su Biden per allentare la pressione commerciale della mia amministrazione e per altri motivi economici». E cercherà dunque di influenzare le elezioni con ogni mezzo. E pazienza se, in realtà, il presidente non specifica quali mezzi potrebbe mettere in gioco l’avversario orientale. Per il presidente, la Cina «usa costantemente le relazioni pubbliche per presentarsi come innocente».

Non basta. President Trump afferma pure che la Cina avrebbe dovuto fare di più per comunicare al mondo cosa stava succedendo a Wuhan: «Stiamo cercando di capire cosa è successo. Poi decideremo come rispondere». Aggiungendo di poter «fare molto» per impedire a Pechino di sfuggire «alle sue responsabilità nella gestione disastrosa del Covid 19». Quello di ieri è uno dei più duri attacchi finora lanciati dalla Casa Bianca. E arriva proprio mentre Biden inizia una campagna di spot dove accusa il presidente di essere stato debole con la Cina a inizio emergenza, per paura di non portare a casa il trattato commerciale che tanto gli stava a cuore.

La reazione cinese non si è fatta attendere. “Pechino” ha fatto sapere stamattina il portavoce del Ministero degli Esteri Geng Shuang, attraverso il Global Times “non ha nessun interesse ad interferire nelle presidenziali statunitensi”. Auspicando, anzi, che “gli Stati Uniti non vogliano coinvolgerci nella corsa alla Casa Bianca: è una questione interna. Vogliamo restarne fuori”.



2.6 Ombre cinesi


Certo, l’essere stata la “patria” del coronavirus mette in difficoltà la Repubblica Popolare. Le richieste di verità montano settimana dopo settimana inasprendo i rapporti di tanti stati ed istituzioni se non di tutti nei confronti del presidente Xi Jinping e del suo establishment. Sapevano? Non sapevano? Hanno mentito? Hanno ritardato informazioni? Stampa e agenzie di intelligence scavano e torneranno a scavare nei mesi a venire su quanto accaduto nei laboratori e nei palazzi del potere cinesi nel tempo in cui il coronavirus ha cominciato la sua azione di gustatore. Su “Business Insider Italia” Bill Bostock già il 15 aprile mette assieme parecchie tessere del mosaico (“Coronavirus: i sei giorni in cui la Cina ha mentito al mondo”). Ecco cosa emerge:

  • La Cina sapeva che il nuovo coronavirus si sarebbe diffuso tra gli umani e sarebbe diventato una pandemia, ma non lo ha detto al mondo per sei giorni.

  • In un’incriminante trascrizione di una chiamata del 14 gennaio, ottenuta dall’Associated Press Ma Xiaowei, capo della National Health Commission, ha avvertito i massimi funzionari che il virus poteva trasmettersi tra gli umani e che stava arrivando una pandemia.

  • Ma nei sei giorni successivi la Cina ha dichiarato pubblicamente che tutto andava bene, e ha detto che “non c’erano prove” della trasmissione da uomo a uomo.

  • L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha fatto affidamento su tale consulenza per orientare la politica e la consulenza su cui altri paesi si sono basati.

  • Il presidente Xi Jinping alla fine ha avvertito della gravità del virus il 20 gennaio, lo stesso giorno in cui un importante epidemiologo cinese ha ammesso la trasmissione da uomo a uomo.

  • Il rapporto sembra corroborare le critiche rivolte all’OMS dal presidente Donald Trump, che ha accusato l’organismo di non aver verificato sufficientemente i dati della Cina.

Per sei giorni a metà gennaio, la Cina ha saputo che il nuovo coronavirus sarebbe diventato una pandemia mortale, sebbene dicesse al mondo che non c’era nulla da temere, secondo un nuovo rapporto dell’Associated Press (AP).

Prepararsi e rispondere a una pandemia”, ha detto Ma Xiaowei, capo della National Health Commission, ai leader provinciali in una telefonata confidenziale il 14 gennaio, una trascrizione della quale è stata ottenuta dall’AP.

La trasmissione da uomo a uomo è possibile”, ha detto Ma, che ha fatto la chiamata per comunicare ordini diretti da parte del presidente Xi Jinping, secondo l’AP.

Ma nei sei giorni seguenti, le autorità sanitarie cinesi – mette nero su bianco Bostock - hanno sostenuto pubblicamente che il virus rappresentava un basso rischio per l’uomo.

La Commissione per la salute di Wuhan ha annunciato il 14 gennaio – lo stesso giorno della chiamata di Ma – che “non erano state trovate prove della trasmissione da uomo a uomo.”

Poco dopo, Li Qun, capo del centro di emergenza del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC), ha dichiarato alla televisione di stato che il rischio era “basso”, ha riferito l’AP.

E, all’epoca, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha preso la Cina in parola, offrendo lo stesso consiglio ai paesi di tutto il mondo. L’OMS fa affidamento sul fatto che i paesi stessi forniscono all’organizzazione i propri dati.

Le indagini condotte dalle autorità cinesi non hanno trovato prove chiare della trasmissione da uomo a uomo”, ha twittato l’OMS il 14 gennaio.

L’OMS non ha risposto immediatamente alla richiesta di commento di Business Insider.

All’epoca, i paesi dell’Asia meridionale avevano aspettato – e ascoltato – le indicazioni dell’OMS su come prepararsi per il coronavirus, che si era già diffuso in Tailandia.

I governi di tutto il mondo stavano anche prendendo in considerazione le misure preventive da attuare e avevano gli occhi incollati alla risposta della Cina. E per sei giorni, il governo cinese ha sostenuto che non c’era da fare nulla.

Solo il 20 gennaio Xi ha finalmente avvertito le persone di praticare il distanziamento sociale ed evitare i viaggi. Lo stesso giorno, l’epidemiologo cinese Zhong Nanshan ha riferito alla TV di stato che il virus si stava effettivamente trasmettendo da uomo a uomo.

Nei sei giorni precedenti, circa 3.000 persone – incalza Bostock - hanno contratto il coronavirus in Cina, secondo le stime dell’AP. Questo periodo ha segnato anche il passaggio al capodanno lunare, la più grande vacanza in Cina, quando milioni di persone in tutto il paese tornarono a casa in treno e si organizzano per vedersi con le loro famiglie.

Se, il 14 gennaio, le autorità cinesi avessero detto alle persone di rimanere a casa quando possibile, applicare il distanziamento sociale, indossare mascherine e astenersi dal viaggiare, allora ci sarebbe il 66% di casi in meno, secondo un documento del 13 marzo redatto da scienziati dell’Università di Southampton nel Regno Unito. Il documento non è stato ancora sottoposto a revisione paritaria.

Se avessero preso provvedimenti sei giorni prima, ci sarebbero stati molti meno pazienti e le strutture mediche sarebbero state sufficienti”, ha detto all’AP Zuo-Feng Zhang, un epidemiologo dell’Università della California a Los Angeles. “Avremmo potuto evitare il collasso del sistema medico di Wuhan.”

Il 14 gennaio, la Cina aveva riportato 224 casi di coronavirus, ma gli esperti prevedono che il numero fosse sostanzialmente più alto.

Il 17 gennaio, Wuhan aveva riportato ufficialmente 50 casi, ma quel numero era probabilmente 35 volte superiore, secondo la modellazione retrospettiva dell’Imperial College di Londra.

Il primo caso di coronavirus al di fuori della Cina – riportato il 13 gennaio in Thailandia – è stato ciò che ha spinto il governo a prendere provvedimenti interni per fermare l’epidemia il 14 gennaio, ha riferito l’AP.

Quel caso aveva spaventato i funzionari cinesi, ma apparentemente non era ancora abbastanza per allertare l’OMS.

Già dal 6 dicembre, i medici di Wuhan avevano iniziato a sollevare preoccupazioni sul fatto che le persone potessero contrarre il virus da altri umani. Il più famoso di questi è stato Li Wenliang, che aveva iniziato a condividere dati preoccupanti con altri colleghi medici.

Li è stato messo a tacere dalla polizia di Wuhan e costretto a firmare una confessione cui ammetteva di aver mentito. In seguito è morto di coronavirus, provocando una raffica di proteste online contro la censura dello stato.

Mentre le autorità di Wuhan mettevano a tacere gli avvertimenti di Li, l’autorità sanitaria cinese si stava mobilitando silenziosamente.

Il 15 gennaio, su istruzioni di Ma, il CDC cinese ha avviato la risposta di “livello uno”, il livello più estremo di risposta del governo interno.

Nella settimana successiva, funzionari cinesi CDC sono stati inviati in tutto il paese per formare operatori sanitari, raccogliere fondi, raccogliere tutti i dati disponibili sul virus e supervisionare i test di laboratorio, secondo l’AP. Agli aeroporti della provincia di Hubei, dove si trova Wuhan, è stato detto di controllare le temperature delle persone.

Ma al di fuori di questa bolla, il miliardo di residenti cinesi e il resto del mondo hanno vissuto le loro vite normalmente, ignari del disastro incombente.

Il presidente Donald Trump ha ripetutamente accusato l’OMS di aver commesso gravi errori nella crisi del coronavirus e di aver verificato in modo insufficiente la risposta della Cina.

Trump martedì ha ritirato 400 milioni di dollari in finanziamenti annuali per l’OMS, affermando che l’organizzazione “ha preso senza batter ciglio le garanzie della Cina come oro colato … e ha difeso le azioni del governo cinese, lodando persino la Cina per la sua cosiddetta trasparenza”, ha detto.

In effetti, i funzionari dell’OMS hanno costantemente elogiato le azioni della Cina nell’affrontare la crisi.

Il 29 gennaio, il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus ha dichiarato che la Cina “ha effettivamente contribuito a prevenire la diffusione del coronavirus in altri paesi”.

Lo stesso giorno Michael Ryan, direttore esecutivo dell’OMS Health Emergencies Program, ha dichiarato: “La Cina sta facendo le cose giuste. Non abbiamo visto nessuna evidente mancanza di trasparenza”.

Durante tutta la crisi le autorità cinesi hanno cercato di censurare le informazioni sul coronavirus mettendo a tacere giornalisti, medici e contenuti su Internet critici nei confronti dello stato.

L’11 marzo l’OMS ha dichiarato che il coronavirus è una pandemia. (…)”.



2.7 Il futuro dell’Unione Europea tra le due superpotenze antagoniste


In tutto questo disordine mondiale, tra tanti riposizionamenti, nervosismi, caccia (interessata) alle responsabilità dell’epidemia che fine farà l’Unione Europea? Al solito, balbettante e lenta nell’entrare in partita nel contrasto al morbo, ha poi recuperato con misure di consistente impatto finanziario. Purtroppo non sempre immediate come urgente disponibilità di liquidità ma comunque una svolta rispetto alla bloccante “tirchieria” frugal-rigorista imposta da una parte degli stati membri che non si sono ancora resi conto dell’esistenza di due mondi diversi, uno “pre” e l’altro “post” coronavirus.

Negli scenari economico-strategici mondiali del dopoepidemia il barometro per il futuro sembra indicare, malgrado tutto, freccia in alto per la Cina, in basso od orizzontale per bene che vada per gli Usa, risolutamente in basso per l’”incompiuta” UE. Ma non tutti sono d’accordo. E ci pare di particolare interesse, in questo senso, la tesi controcorrente di Marta Dassù, ex sottosegretaria agli Esteri, saggista e studiosa di politica internazionale, pubblicata su “La Repubblica” il 15 maggio 2020 (“E gli europei non sono morti. A sorpresa potrebbero ripartire meglio di Usa e Cina”). Prevede la Dassù: “La sorpresa geopolitica del mondo post Covid potrebbe essere l’Europa. E’ una conclusione controintuitiva, vista la lentezza con cui l’UE ha reagito alla pandemia e gli usuali contrasti tra Paesi forti e Paesi deboli, o fra sistemi efficienti e sistemi fragili.

Ma è uno scenario che può essere argomentato, anzitutto mettendo in discussione lo scenario alternativo: la previsione secondo cui Covid-19 rafforzerà la Cina e indebolirà fatalmente l’America. Avremo dei vincitori e dei vinti, che poi si contenderanno l’Europa in una sorta di nuova guerra fredda del secolo (già in corso). In realtà, la Cina è più debole di quanto si tenda a pensare. E’ vero che ha un vantaggio iniziale, quale paese che è uscito prima dal lockdown, rilanciando l’economia. Ma è vero anche che la sua immagine internazionale ha subito un duro colpo: la Cina è il paese che ha determinato il problema ma lo ha a lungo nascosto, con un vizio di origine che ha poi tentato di bilanciare con la politica degli aiuti sanitari. Difficile, per il resto del mondo, potersi fidare di un paese così. E peseranno le conseguenze della “de-globalizzazione”, per una Cina ancora largamente dipendente dalle esportazioni (più del 20% del Pil) e da catene globali del valore di cui abbiamo scoperto di colpo la vulnerabilità. In breve: non esistono le condizioni per considerare la Cina uno dei grandi vincenti del mondo post Covid (ma sarebbe più corretto scrivere del mondo “con” il Covid, il virus non sparirà purtroppo di colpo).

Anche gli Stati Uniti sono in difficoltà, lo sono già; hanno gestito in ritardo e male quella che era una tragedia annunciata e ne stanno subendo gli effetti economici. La ripresa dei mercati non riesce a nascondere il brusco crollo congiunto dell’offerta e della domanda, indicato da un numero di disoccupati che non ricorda la Recessione dello scorso decennio ma la Depressione del secolo passato. E’ una America che tende di nuovo all’isolazionismo e che ha per la prima volta rinunciato ad esercitare la sua leadership di fronte a una grave emergenza globale. Tuttavia, ed è un punto dirimente di scenario, l’economia americana è meno dipendente di quella cinese dagli scambi internazionali e potrà fare leva su due strumenti essenziali – la forza del dollaro, la vitalità del business – per riprendersi gradualmente.

Più che vincitori e vinti, abbiamo insomma di fronte due perdenti “relativi”, a breve termine; per ora è il virus ad avere prevalso. A medio termine, l’America – argomenta Marta Dassù – ha più probabilità di vincere la (lunga) battaglia per la ripresa economica. Intanto il sistema internazionale è privo di guida: è il mondo di nessuno, il G-0.

Nel mondo di nessuno, il futuro dell’Unione Europea è aperto. Se si disgregherà di fronte alla pandemia e al suo contagio economico, sarà anche più esposta ai tentativi di influenza delle potenze autoritarie: la Cina tenterà di salvare ciò che resta dei suoi progetti geopolitici (la Belt and Road Initiative) e gli investimenti rivolti al trasferimento di tecnologia (i suoi investimenti diretti in Europa sono diminuiti nettamente nel 2019); la Russia userà una carta nazionalistica per bilanciare la crisi innescata dalla doppia batosta di Covid e dal crollo del prezzo del petrolio, con la perdita netta di consenso per Putin. In questo scenario, da declino aggiornato dell’Impero romano, terrebbe solo la Germania, anche grazie alla capacità dimostrata di gestire la crisi sanitaria; ma sarebbe una Germania ridimensionata, priva dell’eurozona, e sovraesposta verso l’Eurasia.

Esiste tuttavia – è questa la tesi della saggista lombarda - la possibilità opposta e cioè che l’Unione Europea “tenga” e anzi dimostri la sua utilità, con l’ombrello aperto della Bce e con il pacchetto di misure approvate per sostenere la ripresa delle economie nazionali.

Lo scenario di un relativo rafforzamento dell’Unione Europea richiede almeno due condizioni che non sono affatto scontate. La prima è che la risposta al virus non aumenti in modo drammatico le divergenze (politiche ed economiche) che già esistono fra gli Stati nazionali; si tratta di un rischio molto concreto, visto lo scarto di efficienza fra i sistemi, e che finirebbe per frantumare il mercato interno. Seconda condizione è che la gestione della crisi non si risolva in un moto di solidarietà estemporanea ma spinga l’eurozona a ripensare strutturalmente una parte del suo (cattivo) funzionamento: tornare allo stato ante Covid, in una situazione asimmetrica di alto indebitamento, sarebbe una fonte di perenne frizione.

A queste due condizioni, per ora non soddisfatte, l’Unione Europea potrebbe dimostrarsi la sorpresa del mondo post Covid. Anche perché in uno scenario di “de-globalizzazione” parziale, il suo vantaggio comparato – l’integrazione regionale – conterà di più. E a quel punto l’Europa, che riesce a malapena a gestire una crisi alla volta, sarà anche nella condizione – conclude Marta Dassù - di riprendere in mano il suo destino geopolitico. La vera sfida di oggi, con il Covid e dopo, è la tenuta delle società democratiche: obiettivo che continua a legarci all’Atlantico e non all’Eurasia”.


The International Spectator”, The quartely journal of the Istituto Affari Internazionali, ha dedicato il volume 55 numero 1 del mese di marzo 2020 al tema “Asia’s evolving security dinamics and implications for Europe”. Segnaliamo quattro saggi sui temi delle alleanze e dei rapporti di forze nell’indo-pacifico, sulla politica e le partnership della Cina dell’Amministra zione Xi e, per restare all’argomento di questo paragrafo, sul ruolo dell’Unione Europea e dei paesi europei nel “Far East”:

Buck-passing, Chain-ganging and Alliances in the Indo-Asia-Pacific” di Mason Richey, Hankuk University of Foreign Studies, Seoul;

Alignment Cooperation and Regional Security Architecture in the Indo-Pacific” di Elena Atanassova-Cornelis, University of Antwerp;

Alliance Forging or Partnership Building? China under the Xi Administration” di Zhong Zhenming e Yang Yanqi, Tongji University, Shanghai;

Rising to the Challenge: Europe’s Security Policy in East Asia amid US-China Rivalry” di Nicola Casarini, Istituto Affari internazionale (IAI) Roma.



2.8 Negoziati per la limitazione delle armi nucleari. Sì ma a tre e non a due


Una novità nelle tensioni tra Stati Uniti e Cina e, non meno, tra Stati Uniti e Russia è costituita dalla mossa di Trump di ritirare gli Stati Uniti dal trattato “Open Skies” sui sorvoli aerei. Di fatto si tratta di uno strappo con Mosca e (tanto per confermare quanta considerazione il presidente abbia dei suoi alleati…) con i partner europei della Nato. Però coinvolge la Cina. In quanto in parallelo al ritiro l’inquilino della Casa Bianca dichiara di volere un accordo sul controllo degli armamenti fra le tre superpotenze.

Donald Trump vuole aprire negoziati a tre per la limitazione delle armi nucleari, coinvolgendo la Cina insieme alla Russia – scrive il corrispondente da New York Federico Rampini (“Armi, Trump abbandona “Cieli aperti”. Ma apre a negoziati a tre con Russia e Cina”, www.repubblica.it, 21 maggio 2020) - Sarebbe la prima volta da dieci anni che si torna a negoziare un tetto agli arsenali nucleari fra le due superpotenze; e la prima volta in assoluto che una simile trattativa coinvolge la Cina. Nel frattempo gli Stati Uniti abbandoneranno il trattato Open Skies ("cieli aperti"), uno dei più importanti accordi bilaterali di controllo degli armamenti ancora in vigore con la Russia. "Ho buone relazioni con Mosca, ma non rispetta il trattato", ha detto Donald Trump.
La logica dietro queste mosse è duplice. Da un lato, è da tempo che il Pentagono e l'
intelligence degli Stati Uniti, spesso con l'assenso della Nato, denunciano violazioni dei trattati da parte della Russia. D'altro lato la logica degli accordi bilaterali risale a un'epoca in cui gli arsenali americano e sovietico (poi russo) avevano una superiorità soverchiante su quelli di tutte le altre potenze. I vecchi accordi non coinvolgono né vincolano la Cina, che da anni procede nel suo riarmo con aumenti annui a due cifre percentuali nella spesa militare. In molti teatri geostrategici è ormai la Cina la rivale degli Stati Uniti.

Il trattato Open Skies venne firmato nel 1992, appartiene alla generazione degli accordi post-guerra fredda e post-sovietici. La sua finalità era di ridurre i rischi di incomprensioni, malintesi ed errori di calcolo che potrebbero portare a una guerra. Il trattato consente ai firmatari di operare con breve preavviso dei voli di ricognizione, usando apparecchi non armati ma con sensori e apparecchiature elettroniche sofisticate, onde raccogliere informazioni sulle attività militari della controparte. L'idea è che un certo livello di trasparenza può evitare incidenti dovuti a informazioni errate o errori di interpretazione sulle mosse dell'altro. E' un idea che già era stata adottata in alcuni capitoli del disgelo durante la guerra fredda Usa-Urss: un po' di spionaggio può preservare la pace; essere all'oscuro di ciò che fa l'avversario può alimentare paranoia e scatenare delle reazioni pericolose.
Ma Washington da anni denuncia le violazioni di Open Skies da parte della Russia: non avrebbe consentito il sorvolo di alcuni impianti nucleari, né delle zone dove effettuava manovre militari. (…).
I partner europei della Nato sono sempre stati favorevoli all'accordo Open Skies, considerandolo come un pezzo dell'infrastruttura di sicurezza che riduce i rischi di conflitto sul Vecchio continente. L'annuncio della Casa Bianca – non ha dubbi Rampini - andrà ad aggiungersi ad un contenzioso fra l'Amministrazione Trump e gli alleati, in una fase di crisi nelle relazioni transatlantiche. Il gesto di Washington s'inserisce anche in un progressivo allontanamento degli Stati Uniti dagli accordi multilaterali: Trump cominciò nel 2017 con la denuncia degli accordi di Parigi sul cambiamento climatico, per finire con la recente minaccia di ritiro dall'Organizzazione mondiale della sanità.
Nel frattempo anche l'Organizzazione mondiale del commercio è nella paralisi; l'accordo a cinque sul nucleare iraniano è stato abbandonato dagli Stati Uniti. Perciò è un segnale in controtendenza l'annuncio del negoziato a tre per raggiungere un nuovo accordo sulle armi nucleari. Trump in precedenza aveva deciso di ritirarsi dal trattato sulle forze nucleari di raggio intermedio. Inoltre ha presentato le sue condizioni per il rinnovo dell'ultimo patto sulla limitazione delle armi nucleari, il New Start, che limita gli arsenali americano e russo a 1.550 missili con ogive atomiche per ciascuno. L'ambasciatore Jim Gilmore, che rappresenta gli Stati Uniti presso l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) aveva posto il tema della "reciprocità" con la Russia. Il vero "elefante nella stanza" – conclude Rampini - è la Cina con il suo rapido ammodernamento delle capacità militari. Ora Trump tenta di coinvolgerla, in una fase in cui i rapporti tra Washington e Pechino si sono deteriorati su tutti i fronti, comprese le tensioni militari su Taiwan”.



2.9 Il futuro di Hong Kong sta scritto in una legge votata a Pechino

Hong Kong per Pechino è un infettante bubbone da estirpare. Con l’allentarsi della morsa dell’epidemia a Hong Kong – dove peraltro il contagio è stato contrastato con misure più efficaci che altrove – riprendono a fine maggio le manifestazioni di protesta contro le mire centralistico-liberticide di Pechino. Ne scrive il 27 maggio su www.affarinternazionali.it Francesca Ghiretti, ricercatrice per l’area Asia dello IAI (Istituto Affari Internazionali) in un contributo intitolato “Timori per la fine di Hong Kong”.

Quando Zhang Yesui, portavoce dell’Assemblea nazionale del Popolo, ha confermato le voci che vedevano la redazione di una legge per la sicurezza nazionale per Hong Kong annoverata tra le questioni che sarebbero state affrontante durante l’Assemblea nazionale del Popolo, sono riemersi i timori della fine di Hong Kong per come la conosciamo.

La sua redazione e approvazione sarebbe di competenza del governo di Hong Kong, ma venerdì scorso Pechino, stanca dei numerosi fallimenti del governo locale e della lunga attesa, ha deciso di occuparsene direttamente. Se la cosa ha turbato i cittadini di Hong Kong, non ha di certo turbato il governo locale: prevedibilmente, Carrie Lam, la governatrice di Hong Kong, ha espresso il proprio supporto per l’iniziativa.

Quali sono i dettagli della legge e perché i cittadini di Hong Kong si oppongono alla sua approvazione? Hong Kong possiede una mini-costituzione, la Hong Kong Basic Law, all’interno della quale si trova l’articolo 23 che prevede l’illegalità di azioni che presentano un pericolo per la sicurezza nazionale. Nel 2003, il governo di Hong Kong ha introdotto un disegno di legge sulla sicurezza nazionale per meglio delineare e implementare l’articolo 23.

Tuttavia, in seguito a proteste e critiche nei confronti di contenuti che limitavano eccessivamente le libertà della popolazione, la legge è stata ritirata. Da allora la questione non è mai stata risollevata né realmente risolta, dato che Pechino ha continuato ad aspettarsi l’introduzione di tale legge.

Le proteste tuttavia sono riprese nel 2019 con la presentazione di un disegno di legge per permettere l’estradizione di individui da Hong Kong alla Cina continentale. Nonostante il disegno di legge sia stato ritirato, le proteste sono continuate a difesa dell’autonomia di Hong Kong contro le interferenze di Pechino. Quindi, la legge su cui sta lavorando adesso Pechino nasce da queste premesse e dall’articolo 23.

In cosa consiste questa nuova legge? La bozza dell’articolo 4 autorizza “organi del governo del popolo centrale rilevanti per la protezione della sicurezza nazionale” di stabilire succursali a Hong Kong e svolgervi attività la cui natura rimane poco chiara.

Saranno solo attività di controllo o anche di applicazione della legge? L’articolo 6 delinea invece la parte operazionale e recita: “è autorizzato a redigere leggi sull’istituzione e il miglioramento dei sistemi giuridici e dei meccanismi di applicazione per la salvaguardia della sicurezza nazionale (di Hong Kong) al fine di prevenire, arrestare e punire efficacemente qualsiasi condotta che metta seriamente in pericolo la sicurezza nazionale, come il separatismo [o secessione], sovversione del potere statale o organizzazione e svolgimento di attività terroristiche, nonché attività di forze straniere e d’oltremare che interferiscono negli affari di Hong Kong”.

Il testo della bozza potrebbe cambiare prima dell’approvazione del voto giovedì e prima della finale approvazione. Come d’abitudine, la scelta delle parole lascia ampio spazio all’interpretazione e permette a Pechino di sostenere che non vi sarà alcun cambiamento nelle libertà dei cittadini o nell’indipendenza giudiziaria di Hong Kong.

In poche parole, tuttavia, l’approvazione della legge da parte dell’Assemblea nazionale del Popolo – piega Ghiretti - segna la fine dell’accordo conosciuto come “Un paese, due sistemi”, che ha permesso a Hong Kong di far parte della Cina, al contrario di Taiwan, che ritiene appieno la propria indipendenza, ma nel frattempo mantenere la propria autonomia.

Vi sono diverse spiegazioni del perché Pechino abbia scelto proprio questa assemblea per muoversi a riguardo. In primis, l’inclusione della legge nell’agenda dell’Assemblea sembra essere atta a lanciare un segnale al mondo e alla propria popolazione che la Cina è un Paese forte, stabile e determinato. Allo stesso tempo è probabile che Pechino abbia visto nella pandemia un’occasione unica per poter passare la tanto agognata legge, dato che il Covid-19 tiene i più lontani da assembramenti nelle strade. In ogni caso, ci sono buone probabilità che questo sia, almeno marginalmente, un test nei confronti della comunità internazionale.

La legge è stata votata giovedì 28 maggio, passando con 2878 voti a favore, 1 contrario e 6 astenuti. Nonostante vi siano minori ostacoli sia di natura legale, politica e sociale, si prevede che la legge entrerà in vigore tra la fine di agosto e l’inizio di settembre di quest’anno. Questa così repentina decisione, destinata a cambiare radicalmente la natura di Hong Kong, ha naturalmente scatenato proteste e numerose reazioni da parte della comunità internazionale. Gli Stati Uniti, che si trovano già nel pieno di un’intensa lotta di narrative con la Cina e che l’anno scorso hanno passato una legge per la protezione di Hong Kong, hanno minacciato serie ripercussioni. Il 27 maggio, un giorno prima del voto ufficiale, il Segretario di Stato Mike Pompeo ha dichiarato che Hong Kong non è più autonoma. Il Regno Unito, ex potere coloniale a Hong Kong, che ha restituito Hong Kong alla Cina nel 1997 con la firma della Dichiarazione congiunta sino-americana, contenente le condizioni dello status particolare di Hong Kong, ha espresso il proprio dissenso e ha visto l’apertura di un più intenso dibattitto interno sul da farsi in quanto firmatario di tale accordo. 201 parlamentari e 23 Paesi hanno espresso il proprio dissenso nei confronti dell’azione in quanto viola la Dichiarazione congiunta sino-britannica. Anche l’Unione Europea ha dichiarato il proprio sostegno per la condizione autonoma di Hong Kong.

Considerando che l’esercito cinese si è detto pronto a proteggere la sicurezza dell’isola e dell’unità nazionale, se si arriverà a uno scontro tra i cittadini di Hong Kong e le forza armate, come reagirà la comunità internazionale? Se delle ripercussioni da parte degli Stati Uniti per lo meno di natura commerciali sono quasi un dato di fatto, rimane poco chiara la risposta europea. Persino all’interno dell’ex potere coloniale, il Regno Unito, il dibattito sulle prossime mosse rimane aperto. Per quanto riguarda il continente, cresce lo scetticismo riguardo il desiderio dei Paesi europei di rischiare la propria relazione – economica – con la Cina per Hong Kong, segnando ancora una volta una divisione nell’ex mondo libero sull’approccio da adottare.

La futura gestione della questione Hong Kong sarà banco di prova non solo per la Cina e per gli Stati Uniti, ma anche per l’Unione Europea e i suoi Stati, nonché per la già altalenante alleanza atlantica”.



2.10

Il resto è cronaca dei nostri giorni


Niente di nuovo sul fronte orientale”. Nelle ultime settimane verrebbe da parafrasare, riadattandola, l’espressione che dà il titolo ad un evocativo quanto noto romanzo di Erich Maria Remarque. O forse no. Vediamo di riportare, come in un diario, in una cronologia senza commento, una serie di notizie che giungono fino all’altro ieri. Una sorta di “aggiornamento” in diretta sul braccio di ferro in corso.


Donald Trump, si sa. Fra tweet o dichiarazioni pubbliche, non perde mai occasione per accusare la Cina di tutti i crimini e prometterle i peggiori castighi. È un atteggiamento in perfetta sintonia con le attese di quel 66 per cento di elettori americani che hanno un'opinione negativa della fabbrica del mondo, tanto che il candidato democratico, Joe Biden, impiega altrettanto ardore nello scagliarsi contro Pechino. (…)” (Bernard Guetta “La guerra fredda tra Usa e Cina, da che parte sta l’UE”, “La Repubblica”, 29 maggio 2020).


La Space Force creata da Trump ha accelerato la trasformazione. E da più parti ci sono appelli a un trattato che limiti la corsa ad armare il cosmo”. (…)”. (Giampaolo Cadalanu “Le Gerre Stellari sono realtà: così Usa, Russia e Cina stanno militarizzando lo spazio”, “La Repubblica”, 30 maggio 2020).


La nuova Guerra Fredda incomincia dai semi di soia. Mentre l’America brucia, la Cina la colpisce dove fa più male: nel portafogli. La decisione di Pechino, sussurrata da fonti ben informate a Bloomberg, di bloccare le importazioni di miliardi di dollari di semi di soia e maiali — due dei (pochi) beni che la Cina compra dagli Usa”. (…)”. (Francesco Guerrera “Sfilare all’Occidente le redini dell’economia. Ecco l’azzardo di XI”, “La Repubblica”, 1 giugno 2020).


Probabilmente una novità – di cui non si avvertiva affatto il bisogno – va segnalata. Ne scrive Paolo Salom (“Quella strada sull’Himalaya che riaccende le tensioni tra Cina e India” in America-Cina”, newsletter del “Corriere della Sera”, 2 giugno 2020).

Alta tensione sul tetto del mondo. Sembra un gioco di parole. Ma non lo è: sulle cime dell’Himalaya, perennemente innevate, là dove passa un confine artificiale e mai riconosciuto nel Kashmir controllato da Cina e India, si fronteggiano i soldati dei due Paesi più popolosi della Terra. Squadre alpine che pattugliano le vette magnifiche dove dovrebbero regnare soltanto le aquile e che invece sono dei potenziali campi di battaglia. Spesso i soldati indiani e cinesi, incontrandosi sullo spartiacque si scambiano insulti e qualche volta pietre. Ma in queste ultime settimane qualcosa sembra essere cambiato e non in meglio. I militari cinesi hanno alzato tende e spostato materiale e armi nella valle di Galwan, nel Ladakh, in un’area considerata da New Delhi sotto il proprio controllo. Questo dopo che gli indiani hanno costruito una strada che porta a una base militare elevata risalente al 2008 e da poco riattivata.

Un’azione dunque dai rischi potenziali gravissimi: non si tratta di una incursione dimostrativa, come dicono nella capitale dell’Unione indiana, ma di una azione di “ampio respiro” dalle conseguenze imprevedibili. Già le truppe dei due Paesi si sono scambiate colpi di avvertimento in più occasioni ma la situazione potrebbe facilmente degenerare.

Pechino ha visto la costruzione della strada come un atto ostile perché potrebbe servire per spostare truppe e materiali velocemente in caso di conflitto. E accusa New Delhi di aver infranto lo status quo. L’india, governata dai nazionalisti indù del premier Modi, è molto attiva nel Kashmir e qualcuno immagina una possibile campagna per “riprendere” tutta la regione del Kashmir, non solo la parte pachistana ma anche quella cinese”.


E neppure di quest’altra notizia si avvertiva il bisogno. “L’annuncio compare sul Global Times, giornale che viene pubblicato in mandarino e in inglese e rappresenta la voce ufficiale del governo cinese: un articolo dettagliato che illustra «l’eccezionale scoperta» scientifica che permetterà, secondo una squadra di ricercatori dell’Accademia delle scienze di Pechino, guidata dall’ingegnere meccanico Fan Xuejun, di sviluppare un tipo di motore (scramjet) capace di gestire il volo dei missili ipersonici senza l’utilizzo di un vettore.

La corsa agli armamenti da parte delle tre maggiori Potenze nucleari (Stati Uniti, Russia e Cina) va avanti da diversi anni, in particolare nel settore dei missili ipersonici, ovvero armi capaci di superare i Mach 5 (cinque volte la velocità del suono) trasformandosi in «comete» impossibili da fermare e dunque in grado di colpire obiettivi dall’altro capo del pianeta in pochi minuti. Finora il problema principale, in questo campo, era la tecnologia capace di costruire un motore in grado di attivarsi oltre il muro del suono e sfruttare l’aria come comburente.

Ecco perché era necessario utilizzare un missile balistico come vettore per il missile ipersonico che poi doveva sfruttare l’inerzia (glide) per attivarsi e raggiungere l’obiettivo. La tecnologia cinese, spiega ora il Global Times, è un passo in avanti senza precedenti: perché permetterebbe alla nuova arma di superare il «vecchio» missile ipersonico DF-17 (questo il nome dell’arma al momento in linea) quanto a manovrabilità e precisione.

Senz’altro darebbe un vantaggio (sulla carta) alla Repubblica Popolare su Stati Uniti e Russia, ancora legati alla tecnologia glide. Ma soprattutto non ancora arrivati alla definizione di un sistema di difesa capace di fermare questi proiettili micidiali. Effetto annuncio, quello cinese, o traguardo concreto raggiunto? Purtroppo parliamo di un settore in cui questa distinzione è davvero minima”. (Paolo Salom “ “L’eccezionale scoperta” cinese nella corsa agli armamenti” “America-Cina”, 8 giugno 2020).


Stati Uniti e Cina sono su un piano inclinato che se non raddrizzato sfocerà in guerra. Gli apparati strategici dei due imperi stanno responsabilmente studiando tale eventualità e prendendo relative misure, per natura segrete.

Su questo sfondo conviene interpretare la tempesta che scuote l’America. Eccitata dall’assassinio di George Floyd, ma innescata dalla strage da coronavirus e dalla conseguente recessione, perciò destinata a spargere sale sulle ferite aperte dalla faglia razziale che da sempre divide la nazione, la crisi in pieno corso svela quanto rischiosa sarebbe per gli Usa l’avventura bellica.

La prima priorità per qualsiasi paese debba affrontare una guerra è la coesione del fronte interno. Se poi il soggetto in questione è l’America, vale doppio. La sua più cocente sconfitta, in Vietnam, nacque dal crescente rifiuto dell’opinione pubblica, compresa parte delle sue Forze armate, di sostenere i costi non solo umani di quel conflitto. Per mandare la tua gente a morire devi sapergli spiegare perché. E convincerla.

Il secondo postulato è la chiara distribuzione del potere e della responsabilità. Negli Stati Uniti l’equilibrio dei poteri, specie fra governo centrale e Stati federati, non è deciso una volta per tutte. È sempre oggetto di competizione. Di frizione fra centro ed entità federate. Lo stato di guerra dovrebbe automaticamente annullarle: ci si raduna attorno alla bandiera, si obbedisce al comandante in capo. Nella disastrosa risposta all’epidemia e sull’onda del caso Floyd, che i più scalmanati vorrebbero prodromo di guerra civile, si sta però prefigurando il contrario.

Il terzo precetto è il funzionamento della catena di comando, dal presidente fino all’ultimo sergente. Non è solo questione di disciplina, ma di convinzione. Un soldato che ritiene ingiusto o folle l’ordine ricevuto, lo esegue malamente, se non lo rifiuta. Vale anche per i poliziotti. Nella reazione alle proteste, sia pacifiche che teppistiche, la catena appare inceppata. E’ quanto scrive nel suo editoriale su “Limes” dell’8 giugno – intitolato “Trump, il patriottismo e la tentazione di una guerra” - il direttore della rivista Lucio Caracciolo. Non inducono certo all’ottimismo le conclusione alle quali perviene: “L’impero americano è fondato sulla strapotenza militare: la disputa fra il comandante in capo e le sue truppe – nata dalla reazione di Trump alle proteste contro l’assassinio di George Floyd – è il peggiore degli scenari possibili.
Per sanarla potrebbe essere utile un conflitto, non necessariamente contro la Cina”.


Limes” dedica un numero monografico - il 5/2020 intitolato “La Russia non è la Cina” (giugno 2020) - al ruolo di Mosca nel triangolo strategico con Pechino e Washington. La tesi sostenuta è che “la Federazione Russa non ha la taglia per scalare la vetta del potere planetario. Ma può decidere la partita fra Stati Uniti e Cina.

La «relazione d’alleanza» – definizione di Vladimir Putin – tra Russia e Cina è prodotta dalla comune avversione per Washington. Strana coppia priva di senso sul piano strategico, dunque fragile. 

La diplomazia sanitaria durante l’emergenza coronavirus ha palesato il disegno cinese di sfidare gli Stati Uniti in Europa, incrementando il timore di Mosca di restare ingabbiata in un improbabile asse con Pechino.

Un eventuale disallineamento sino-russo si rivela oggi un’opportunità strategica sia per gli Usa che per la Russia. Consentirebbe a Washington di difendere meglio l’Europa, cuore dell’impero americano, e a Mosca (potenza anzitutto europea) di reintegrarsi in quel sistema da cui si espulse con la rivoluzione bolscevica del 1917. Ne trarrebbe beneficio anche l’Italia, uno dei paesi meno russofobi del Vecchio Continente”.


Torniamo in Asia. “L’equilibrio del terrore via Twitter. Spinta da una nuova generazione di politici e diplomatici - a loro agio sui social come Mao e i suoi lo erano con i Tatzebao (i manifesti a grandi caratteri della Rivoluzione culturale) - la Cina si è gettata nella mischia e risponde colpo su colpo alle accuse e alle insinuazioni che da Trump in giù vengono diffuse nell’universo digitale sull’origine del coronavirus o la situazione a Hong Kong.

A partire dal capo dei portavoce del ministero egli Esteri di Pechino, l’ormai celebre signora Hua Chunying, fino agli ambasciatori dispersi nelle capitali straniere, larena preferita per la «battaglia delle idee» è proprio il network dei messaggini (che peraltro, all’interno della Repubblica Popolare, è bloccato). Dunque, come si diceva un tempo: à la guerre comme à la guerre. Trump scrive che la Cina non deve usare l’esercito per reprimere la rivolta nell’ex colonia britannica? Ecco la risposta (rigorosamente in lingua inglese): «L’America guardi in casa propria: come pensava Trump di fermare la lotta antirazzista? Con i soldati!».

Semplicemente raggelante, invece, il commento di Hua Chunying in persona a un tweet di Morgan Ortagus, portavoce del Dipartimento di Stato, sul mancato rispetto delle libertà da parte del Partito comunista cinese a Hong Kong: «Non riesco a respirare (I can’t breathe)», suggerendo lo stato ancora critico della questione razziale nell’America di oggi. Colpo su colpo: è questa la nuova filosofia che guida la proiezione internazionale del Celeste Impero, una novità epocale nella seppur millenaria storia di una civiltà che si è sempre considerata il centro del mondo (tanto che il nome Cina, in mandarino, Zhongguo, significa proprio il Paese di Mezzo).

Artefice di questa inedita (per i canoni orientali) offensiva è proprio Hua Chunying, battagliera dirigente dell’ufficio che sovrintende alla comunicazione di Pechino con l’estero. E tuttavia, scrive il New York Times raccontando il nuovo approccio pugnace, i cinesi - come avrebbero fatto anche i russi - potrebbero avvalersi non solo della loro intelligenza diplomatica e linguistica nel contrastare quello che loro vedono come un attacco continuo alla sempre maggiore presenza di Pechino sulla scena internazionale. Dietro il concerto di tweet e retweet, ha ipotizzato il quotidiano americano analizzando temi e account, potrebbe nascondersi qualcosa di diverso, o di più: un tentativo di influenzare l’opinione pubblica «nemica» per mezzo di account falsi o azioni riconducibili a una struttura statale capace di moltiplicare l’effetto digitale per mezzo di bot. Insomma: imbrogliando con l’uso della tecnologia”. (…)” (Paolo Salom “Cina-Usa: l’offensiva si sposta su Twitter per influenzare l’opinione pubblica «nemica»”, “Corriere della Sera, 10 giugno 2020).


11 giugno 2020. “Pacifico: Washington avvisa Pechino”, titolo di una corrispondenza di Guido Olimpio su “America-Cina”:

I movimenti delle flotte ribadiscono le priorità strategiche. Due «Strike Group», il primo guidato dalla portaerei Reagan e il secondo dalla Nimitz, sono partiti per una missione nel Pacifico.

Dimostrazione di forza dopo i problemi avuti a causa del virus, con la Roosevelt costretta a fermarsi in porto. Il Pentagono ha poi annunciato i pattugliamenti da parte dei grandi droni da ricognizione Global Hawks, basati in Giappone, e dei bombardieri B1 schierati a Guam. Velivoli che estendono, nei rispettivi campi, l’ombrello di protezione.

Washington avvisa Pechino, mostrando la bandiera insieme con i sistemi militari. La Cina ha usato toni bellicosi verso Taiwan e, a sua volta, ha moltiplicato le mosse delle sue navi suscitando i timori di Australia, Filippine, Vietnam. Hanoi, peraltro, ha ricevuto di recente una nuova unità fornita dagli Usa, una collaborazione sempre più stretta favorita dalla necessità di fare fronte comune davanti alla spinta cinese.

Interessante anche il cambio di passo di Manila: il presidente filippino Duterte aveva annunciato limiti importanti alla cooperazione con la Difesa statunitense, ma ora ha ripensato il tutto”.


Ancora 11 giugno. Paolo Salom “Himalaya: triangolo pericoloso” nello stesso numero di “America-Cina”: 

Il 2 giugno vi abbiamo riportato le tensioni crescenti sul Tetto del mondo, con i soldati di India e Cina, nel Ladakh himalayano, pronti ad aprire le ostilità per questioni di confine: un lago dai colori cangianti a seconda delle stagioni, un passo, qualche roccia innevata in più al di qua o al di là dello spartiacque.

Per fortuna il rischio di una guerra alpina tra le due potenze nucleari, peraltro i due Paesi più popolosi (insieme fanno un terzo del totale mondiale), sembra scemato: Pechino e New Delhi hanno aperto un canale di comunicazione scegliendo di parlarsi invece di spararsi.

Ma l’Himalaya è un luogo immenso e i confini tra i due giganti corrono per oltre 5 mila chilometri, 3.488 dei quali sono contestati dall’uno o dall’altro. Talvolta per interposto alleato. Come accade ora - spento un focolaio se ne accende subito un altro - tra Nepal e India. Che hanno iniziato un pericoloso litigio sulla sovranità di uno spicchio di territorio, controllato dagli indiani, a ovest di quelli che dovrebbero essere i limiti territoriali riconosciuti da Kathmandu.

L’area (circa 300 chilometri quadrati tra picchi e passi di Lipulekh, Limpiyadhura e Kalapan) fu conquistata dalle truppe coloniali britanniche nel diciannovesimo secolo. Ma un trattato, 60 anni fa, chiuse la questione tra i due Paesi ormai indipendenti in maniera pacifica, tanto che tutti i residenti hanno la cittadinanza indiana e, in particolare, hanno sempre pagato le tasse a New Delhi.

Oggi il trattato viene denunciato come iniquo dal Parlamento nepalese che ha deciso di ratificare una nuova mappa del Paese con le aeree in questione «trasferite» sotto la propria sovranità. La protesta del governo del Subcontinente non si è fatta attendere.

Il Nepal, di fronte al trattato sventolato dai vicini infuriati e alle ragioni di 60 anni di sovranità indiscussa, ha risposto di non aver sollevato prima la questione a causa dell’insurrezione maoista in atto. E di averlo fatto ora che il Paese è «finalmente stabile». Quel che invece si sussurra tra gli addetti ai lavori indiani è più tortuoso ma probabilmente vicino alla realtà: dietro la mossa nepalese, in sostanza, ci sarebbe Pechino, sempre più presente a Kathmandu con investimenti, progetti e intese bilaterali che ne fanno di fatto un alleato «strategico»”.

Da segnalare le due conclusioni a cui approda Salom: “La querelle con New Delhi? Un messaggio per dire: siete troppi amici di Washington, troppo vicini a un nostro avversario. Da tutto questo si possono ricavare due possibili ragionamenti.

Primo: il mondo sta tornando verso una sorta di bipolarismo, con la Cina al posto dell’ex Unione Sovietica.

Secondo: la spinta a influenzare le dinamiche oltre i propri confini sta trasformando la Cina in un avversario diretto dell’Occidente. Ma l’equilibrio strategico è molto meno stabile che in passato. E questo è un problema”.


(…) La Banca mondiale ha sottolineato nei giorni scorsi che una crisi globale come l’attuale, nella quale più del 90% dei Paesi affronta una recessione, non si verificava dal 1871. Serve che un’economia prenda la guida della ripresa: difficile immaginare che possa essere qualcuna diversa da quella degli Stati Uniti.

Al di là della pandemia, al di là delle rivolte sociali, l’economia americana rimane di gran lunga la più importante del mondo e il dollaro è sempre la valuta dominante. Una ripresa globale non può avvenire senza che gli Stati Uniti siano trainanti. (…)”. (Danilo Taino “Le previsioni di Jerome e l’economia mondiale”, “America-Cina”, 11 giugno 2020).



2.11 Conclusioni

La rivalità sino-americana si internazionalizza. L’invadenza cinese fatta di una determinazione senza pari picchia oggi picchia domani dà sempre più fastidio non solo ai “gendarmi” (o ex gendarmi) del mondo ossia agli Stati Uniti ma anche a piccole, medie e grandi potenze regionali asiatiche. Aumentando in modo esponenziale i motivi di conflitto in cui è facile avventurarsi o scivolare quasi senza accorgersene. Dalle rabbie confinarie o territoriali alla rabbia virale l’elenco dei motivi di ricorso alle armi si allunga in un mondo sempre più instabile e sofferente (“Ci aspettiamo carestie di proporzioni bibliche per via della pandemia” ammoniva ad aprile David Beasly, direttore del WFP, l’Agenzia dell’Onu per la sicurezza alimentare).

Dalla imperiale “Nuova Via della Seta” cinese nel giro di appena qualche anno ci si sta incamminando in una spirale terrificante: la “Nuova Via della Guerra”. Costruita giorno dopo giorno con tasselli sempre più avvelenati. Per quanto tempo ancora reggerà la composizione diplomatica dei contrasti? Per quanto tempo ancora reggerà la pace?



Ringraziamenti


Sono stati riportati contributi tratti dai quotidiani Libero, Il Fatto Quotidiano, ItaliaOggi, Il Mattino, Il Sole 24Ore, Il Foglio, Corriere della Sera, La Repubblica (cartacei e/o versioni on line); da Televideo Rai; dall’Agenzia di stampa “Askanews”; dalle riviste Il Politico, Limes, European Council on Foreign Relations, Atlantico, Foreign Affairs, The International Spectator (IAI); dai siti www.insideover.com, www.europaatlantico.it, www.formiche.it, www.money.it, www.startmag.it, www.osservatorioglobalizzazione.it, www.linkiesta.it, www.analisidifesa.it, www.valori.it, www.lindro.it, www.sicurezzainternazionale.luiss.it, www.agendadigitale.eu, newsletter “America-Cina” (“Corriere della Sera”), www.affarinternazionali.it (IAI), www.ispionline.it, www.limesonline.it, www.businessinsideritalia.it.

A testate giornalistiche e siti un vivo ringraziamento per l’indispensabile apporto.

 di Pino Scorciapino

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