La morte annunciata del giudice Terranova che qualcuno poteva evitare
Società | 7 febbraio 2023
Una morte annunciata. Sì una morte annunciata che probabilmente poteva essere evitata. Oltre un anno prima del suo omicidio ci fu qualcuno che avviso i carabinieri che l'onorevole Cesare Terranova sarebbe stato ucciso.
Quel qualcuno non era “uno qualsiasi”, ma al contrario era un boss di rango. Uno che la sapeva lunga e che non poteva essere ignorato come invece avvenne.
Era il 26 febbraio del 1978 quando il boss, la “tigre di Riesi”, Giuseppe Di Cristina, confidò ai carabinieri che il giudice Cesare Terranova sarebbe stato ucciso, che il suo omicidio era stato già decretato e che sarebbe stato compiuto dagli uomini di Luciano Liggio.
Tutto quello che Di Cristina aveva confidato si materializzò la mattina del 25 settembre del 1979. Quel giorno, verso le 8,30 il giudice andò verso il palazzo di Giustizia di Palermo. Era alla guida di una Fiat 131, accanto il maresciallo Lenin Mancuso. Il suo uomo di scorta che lo seguiva dal 1963.
L'auto imboccò una strada secondaria trovandola inaspettatamente chiusa da una transenna di lavori in corso. Il giudice Terranova non fece in tempo ad intuire il pericolo. In quell'istante da un angolo sbucarono alcuni killer che aprirono ripetutamente il fuoco con una carabina Winchester e delle pistole. Uomini ed auto furono crivellati di colpi. Cesare Terranova, istintivamente, ingranò la retromarcia nel disperato tentativo di sottrarsi a quella tempesta di piombo, mentre il maresciallo Mancuso, in un estremo tentativo di reazione impugnò la Beretta di ordinanza per cercare di sparare contro i sicari, ma entrambi furono raggiunti dai proiettili in varie parti del corpo.
Al giudice Terranova i killer riservarono anche il colpo di grazia, sparandogli a bruciapelo alla nuca.
La sua fedele guardia del corpo, Lenin Mancuso, morì dopo alcune ore di agonia in ospedale.
Cesare Terranova era nato a Petralia Sottana il 15 agosto del 1921. In magistratura entro subito dopo la seconda guerra mondiale, nel 1946. Nel 1958 cominciò a lavorare nell'ufficio istruzione del palazzo di Giustizia di Palermo. Fu lui che condusse le indagini contro la cosca di Corleone nei primi anni sessanta. Fu grazie alle sue indagini che Luciano Liggio (Leggio per l'anagrafe) venne condannato all'ergastolo per l'omicidio del vecchio capomafia di Corleone, Michele Navarra. Sentenza che venne emessa dai giudici di Bari il 23 dicembre del 1970. Liggio riuscì a sfuggire all'arresto per quattro anni. Venne poi ammanettato a Milano nel 1974. Una condanna che il boss di Corleone non perdonò a Terranova.
Quest'ultimo, come alcuni anni dopo Paolo Borsellino, fu anche procuratore a Marsala. Dall'agosto del 1971 si occupò del rapimento e dell'uccisione di tre bambine ad opera del cosiddetto ”mostro di Marsala”.
Fu deputato nazionale, con il Partito Comunista, dal 1972 al 1979. Fu segretario della commissione parlamentare antimafia e contribuì, insieme a Pio La Torre, ad elaborare la relazione di minoranza in cui si criticavano le conclusioni della maggioranza Dc, nella quale era sottaciuti o sottovalutati i collegamenti fra mafia e politica e venivano pesantemente accusati i Dc Giovanni Gioia, Vito Ciancimino e Salvo Lima di avere rapporti con la mafia.
La storia gliene darà atto.
Un loro compagno di partito e loro amico, Nino Mannino, anche lui deputato del Partito Comunista, e purtroppo recentemente scomparso, ha fatto dono al Centro studi Pio La Torre, del quale è stato anche presidente, di una copia di quella “relazione di minoranza” tanto profetica quanto illuminante.
Sull'uccisione di Cesare Terranova e Lenin Mancuso si è celebrato un primo processo a Reggio Calabria con un solo imputato: Luciano Liggio. Era accusato di essere il mandante sulla base della testimonianza di Giovanna Giaconia (la vedova di Terranova), la quale riferì l'odio provato da Liggio nei confronti del marito e del capitano dei carabinieri Alfio Pettinato il quale aveva raccolto le “confidenze” del boss di Riesi Giuseppe Di Cristina.
Liggio venne assolto per “insufficienza di prove”.
Successivamente, e precisamente nell'interrogatorio del 25 luglio 1984 al giudice Giovanni Falcone, il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta affermò: “Per quanto concerne gli omicidi di Boris Giuliano, di Cesare Terranova, di Piersanti Mattarella so per certo, per averlo appreso da Salvatore Inzerillo, che trattasi di omicidi decisi dalla Commissione di Palermo, all'insaputa dello stesso Inzerillo e di Stefano Bontate ed anche di Rosario Riccobono”.
Sulla base di questa accusa il giudice istruttore di Reggio Calabria, Vincenzo Macrì, avviò un'indagine sui membri della Commissione di Cosa nostra (Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Francesco Madonia ed Antonino Geraci) come ulteriori mandanti, ma vennero tutti prosciolti in istruttoria nel 1990.
Il procedimento venne riaperto nel 1997 a seguito delle dichiarazioni dei pentiti Gaspare Mutolo e Francesco Di Carlo, i quali indicarono Luciano Liggio come mandante (che nel frattempo era deceduto in carcere a Nuoro) e come esecutori materiali Giuseppe Giacomo Gambino, Vincenzo Puccio, Giuseppe Madonia e Leoluca Bagarella. Il Gip di Reggio Calabria annullò il precedente proscioglimento degli esponenti della cupola palermitana e dispose anche il rinvio a giudizio nei confronti di Giuseppe Farinella. Nel 2000 la Corte di Assise calabrese dichiarò gli imputati colpevoli e li condannò all'ergastolo. Sentenza diventata definitiva nel 2004. Ebbero quindi giustizia a distanza di un quarto di secolo. Ebbero anche giustizia le parole della vedova Giovanna Giaconia che oltre vent'anni prima aveva indicato il nome del mandante e del perché il marito venne ucciso.
Un omicidio annunciato che probabilmente si poteva evitare. La signora Giaconia indicò in Liggio il mandante dell'omicidio del marito per l'odio che aveva nei confronti del magistrato che lo aveva indagato e indicato come capomafia e assassino. La vedova fece anche il nome del capitano dei carabinieri Alfio Pettinato, l'ufficiale che aveva raccolto le prima confidenze sulla volontà di Liggio di uccidere il marito.
Alfio Pettinato era il comandante della compagnia dei carabinieri al quale apparteneva Riesi, grosso centro del Nisseno. Ad accogliere in caserma Giuseppe Di Cristina, per la rituale firma di chi è sottoposto alla sorveglianza speciale nel febbraio del 1978, c'era il brigadiere Pietro De Salvo. Il sottufficiale capì subito che c'era qualcosa di strano. Aveva intuito vedendo Di Cristina che quel giorno non ostentava la solita sicurezza ma, anzi era in evidente stato di preoccupazione. Il sottufficiale scambiò qualche parola con la ”tigre di Riesi” ed avvertì subito il suo superiore.
Il capitano Alfio Pettinato si sedette di fronte a Di Cristina e lo invitò ad esternare ciò che aveva in mente. Il boss non fu breve anzi. Cominciò con il dire: ”L'onorevole Cesare Terranova potrà presto essere assassinato ad opera della fazione di Liggio. Tale esecuzione consentirebbe al Liggio di rafforzare la prepotenza su quei gruppi mafiosi (Badalamenti-Di Cristina) che gli avevano rimproverato, prima le illecite attività svolte nel campo del sequestro di persona e poi l'uccisione del tenente colonnello Giuseppe Russo avvenuta ad opera di Riina e Provenzano”.
Di Cristina proseguì indicando all'ufficiale dei carabinieri su chi Liggio poteva contare. Fece i nomi e anche i cognomi. Un lungo elenco che negli anni successivi avrebbero contribuito a lastricare la Sicilia di sangue.
Prima di congedarlo il capitano Pettinato guardò fisso negli occhi il boss di Riesi e gli chiese: “Signor Di Cristina ma lei peccati non ne ha?”, e il boss con un mezzo sorriso: “Peccati? Certo e qualcuno anche mortale”.
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