La fine del lavoro e la difficile ripresa dell'economia

Economia | 10 aprile 2020
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Come cambierà il mondo del lavoro a causa della recessione economica globale innescata dalle misure di lockdown finalizzate al contenimento della pandemia di SARS-Cov-2 ? Due importanti report statistici, pubblicati in questi giorni, consentono di cominciare a misurare, su scala nazionale ed internazionale, gli effetti devastanti dello tsunami in arrivo.


Giorno 7 aprile l'Istat ha pubblicato, in coda alla nota congiunturale mensile, una prima analisi degli effetti della pandemia sull'economia italiana. Al 7 aprile risultavano sospese le attività di 2,2 milioni di imprese (il 49% del totale, il 65% nel caso delle imprese esportatrici), con un’occupazione di 7,4 milioni di addetti (44,3%) di cui 4,9 milioni di dipendenti (il 42,1%).


Il lockdown delle attività produttive ha amplificato le preoccupazioni e i disagi derivanti dall’emergenza sanitaria, generando un crollo della fiducia di consumatori e imprese. L'istituto nazionale di statistica propone due scenari, il primo più ottimistico, in cui la chiusura delle attività riguarderebbe solo i mesi di marzo e aprile; l’altro, lo scenario pessimistico, in cui la chiusura si estenderebbe fino a giugno. Nel primo caso la riduzione dei consumi sarebbe pari al 4,1% su base annua mentre nel secondo al 9,9%. La riduzione dei consumi determinerebbe una contrazione del valore aggiunto dell’1,9% nel primo scenario e del 4,5% nel secondo. In termini occupazionali, la caduta del valore aggiunto coinvolgerebbe 385 mila occupati (di cui 46 mila non regolari) per un ammontare di circa 9 miliardi di euro di retribuzioni. I comparti dell’alloggio e ristorazione (-11,3%) e del commercio, trasporti e logistica (-2,7%) subirebbero le contrazioni più forti mentre le conseguenze sui settori che producono beni d’investimento e sulle costruzioni sarebbero meno incisive (meno di un punto percentuale).


Nel secondo scenario, caratterizzato dall’estensione delle misure restrittive anche ai mesi di maggio e giugno, la riduzione dei consumi sarebbe del 9,9%, con una contrazione complessiva del valore aggiunto pari al 4,5%. La contrazione della domanda turistica contribuirebbe alla riduzione per 0,9 punti percentuali, quella per altri servizi e quella per beni entrambe per poco meno di 1,8 punti. In questo secondo scenario sarebbero poco meno di 900 mila gli occupati coinvolti, di cui 103 mila non regolari, per un totale di 20,8 miliardi di retribuzioni. Anche in questo caso, le contrazioni più marcate del valore aggiunto si riferirebbero alle attività di alloggio e ristorazione (-23,9%) e commercio, trasporti e logistica (-6,9%). Fra i settori coinvolti nel lockdown, quelli riferiti ai servizi commerciali e alla “socializzazione” contribuirebbero maggiormente alla caduta complessiva del valore aggiunto. Nello scenario di chiusura prolungata a tutto il secondo trimestre, l’effetto generato dalla contrazione dei consumi di questi due comparti rappresenterebbe circa tre quarti di quello complessivo, interessando potenzialmente 608 mila occupati, di cui 72 mila non regolari. In particolare, sarebbero fortemente colpiti i settori della cultura (-16,4%) e dell’intrattenimento (-12,7%), oltre al commercio al dettaglio (-6,7%).


Uscendo dal linguaggio statistico siamo di fronte a dati che, nella migliore delle ipotesi, delineano uno scenario in cui circa 385.000 donne ed uomini perderanno il lavoro, mentre nell’ipotesi peggiore il numero di nuovi disoccupati salirebbe a 900.000 unità.


Quello che si prospetta è un vero proprio disastro sociale che colpirà soprattutto i settori del terziario, in particolare le attività dell'alloggio e della ristorazione, del turismo, dell'intrattenimento, a cui vanno aggiunti i numeri difficilmente prevedibili che deriveranno dalla contrazione delle attività di liberi professionisti e partite IVA. La distribuzione geografica delle aree che saranno colpite dalla recessione ci mostra come mentre il costo umano e sanitario della pandemia è stato finora prevalentemente a carico di quello che una volta veniva definito il “triangolo industriale” (una delle locomotive della manifattura e dell'industria innovativa a livello europeo), le conseguenze economiche saranno devastanti per la parte economicamente più debole del paese. Da una prima lettura dei numeri dell’ISTAT appare plausibile prevedere che saranno maggiormente colpiti i territori che vivono principalmente di terziario e di economia legata ai flussi turistici rappresentati dalla Romagna e dal Meridione. Nel sud Italia Puglia, Sicilia e Campania sembrano essere le regioni più esposte, proprio perché vedevano i propri sistemi turistici in fase di crescita significativa. A questa analisi va aggiunto un dato, che l'Istat mette tra parentesi, e che grida la drammaticità della situazione: i lavoratori irregolari che perderanno ogni sostentamento saranno 46.000 mila, secondo la stima più ottimistica; secondo la stima pessimistica saranno invece ben 103.000. La gran parte di questi lavoratori e lavoratrici vivono nel Mezzogiorno.


Ancor più drammatici sono i dati, anch’essi datati 07 Aprile, a livello globale pubblicati dall'ILO (International Labour Organization) agenzia dell'ONU che si occupa di promuovere il lavoro dignitoso e produttivo. L'ILO calcola in 2,7 miliardi il numero dei lavoratori attualmente coinvolti dal lockdown in tutto il mondo, cioè l'81% della forza lavoro mondiale. Il lavoro, insomma è fermo in tutto il mondo e nel secondo quadrimestre dell'anno la riduzione delle ore lavorate sarà del 6,7 vale a dire l’equivalente di 195 milioni di posti di lavoro a tempo pieno. Anche a livello globale saranno maggiormente colpiti i settori del commercio all'ingrosso ed al dettaglio, i servizi alberghieri e la ristorazione, la manifattura industriale. Il maggiore declino è atteso nei paesi a reddito alto; in Europa la diminuzione delle ore lavorate sarà pari al 7% equivalente a 12 milioni di posti di lavoro a tempo pieno. I livelli di disoccupazione dipenderanno da quanto velocemente si ricostruirà l'economia nella seconda parte dell'anno. Decisive saranno dunque le misure di policy che l'Unione Europea ed i singoli stati saranno in grado di attivare tempestivamente. I settori più esposti al disastro sono quelli a maggior intensità di lavoro, dove l'occupazione femminile detiene una quota rilevante. Spesso si tratta di lavoro sottopagati, precari, con debole protezione sociale, che non rappresentano aree marginali ma costituiscono più del 30% della forza lavoro globale presente in Europa.


Spesso si usa dire che i “numeri parlano da se”, ma sfortunatamente nel caso delle stime appena riportate la nostra capacità di ascoltare i numeri sembra essersi notevolmente ridotta. Di certo a causa della reclusione domiciliare obbligata e dell’angoscia che ci attanaglia è molto difficile produrre un’analisi lucida, tuttavia è nostra responsabilità superare questa stasi del pensiero e porci alcune domande. Cosa ci dicono in realtà in numeri pubblicati dall’ ISTAT e dall’ILO ? Esiste davvero questa insuperabile contrapposizione tra tutela dell’economia, e quindi del lavoro e dei lavoratori, e tutela della salute? Benessere economico e salute pubblica sono davvero due polarità inconciliabili ? Siamo dunque di fronte al fallimento dell’economia?


In un’intervista di qualche giorno fa il filosofo Umberto Galimerti, sollecitato da quesiti simili provava a rispondere sostenendo che questa tragica fase dimostra come

“l’economia viene dopo la biologia che di per sé è più forte. La frenesia con cui si lavora - dovremmo averlo già capito - crea precarietà biologica, ed è per questo che ci indeboliamo a discapito del nostro sistema immunitario. La biologia viene prima, sia nel bene che nel male. In questa fase bisogna essere ossequiosi rispetto a quello che dicono i sanitari, l’unica ancora di salvezza è la scelta biologica, solo quella conta.”


Riflettendo sulla nostra condizione di confinamento lo stesso Galimberti ammette di essere “contentissimo perché ho l’occasione di studiare più di prima, restando a casa mia. Dunque riaprire la cosìdetta Fase 2 sarebbe solo una follia, se sono i principi economici che contano allora bisogna invertire le priorità.”


La riflessione di Galimberti sembra, quantomeno ad una prima lettura, essere lontana dalla questione delle drammatica recessione economica che ci aspetta subito dopo la pandemia. Tuttavia è necessario riflettere bene su un dato di fatto: la nostra capacità di interpretare i dati statistici dipende essenzialmente dal significato che attribuiamo ai contesti reali cui i dati si riferiscono. Per comprendere dunque cosa ci dicono i dati che abbiamo proposto è necessario interrogarsi su cosa rappresenta per la nostra società la dimensione del lavoro. La risposta sembra essere meno scontata di quanto appare e anche su questa questione l’intervista di Galimberti ci viene in aiuto: “non pensa a chi non ha i soldi per fare la spesa perché ha perso il lavoro? Tutti possono mangiare. Ci sono le opere di carità, non siamo in guerra…ci lamentiamo delle code da fare al supermercato, mentre in guerra non c’è da mangiare. Ci lamentiamo che siamo in casa, ma quando c’è guerra, le case vengono distrutte dalle bombe. Lei non crede che bisogna riflettere anche su questo?”


Galimberti sembra suggerirci che in questa fase la dimensione del lavoro si riduca a semplice attività finalizzata alla sussistenza, ad avere un pasto sulla tavola e un tetto sulla testa. Se questa interpretazione fosse vera il giorno dopo la fine della pandemia potremmo anche cambiare il primo articolo della nostra amata Costituzione e non ci sarebbe più ragione per preoccuparsi dei tassi di disoccupazione giovanile, delle lotte per i diritti dei lavoratori e delle discriminazioni nei confronti delle donne sui posti di lavoro. Se il lavoro si riduce a strumento di sussistenza lo potremmo facilmente sostituire con una forma di reddito universale e la questione sarebbe facilmente risolta.


L’analisi del filosofo sembra essere particolarmente diffusa nel dibattito pubblico italiano, per lo meno in questo momento, specialmente in alcuni ambienti di sinistra da sempre sensibili alle questioni sociali. Dalle pagine del “Manifesto” si leva un accorato appello a uscire fuori dalla precarietà grazie al “reddito per tutti”:  “dentro questa emergenza sanitaria e sociale abbiamo sperimentato cosa vuol dire la precarietà in senso esistenziale: le nostre certezze, i nostri riti quotidiani, i nostri universi relazionali sono stati messi a soqquadro e abbiamo dovuto prendere atto della fragilità intrinseca della vita umana e sociale……Nel pianeta la ricchezza prodotta è più che sufficiente a garantire un’esistenza dignitosa a tutti i suoi abitanti, mentre la crisi ecologica e climatica è per la prima volta una crisi causata dalla sovrapproduzione e non dalla penuria. Entrambi questi elementi richiedono un ripensamento del significato stesso del lavoro e spingono ad intraprendere da subito la strada del reddito incondizionato di base da garantire a tutte e tutti.”



Che l’epidemia di SARS-Cov-2 sia riuscita a compiere ciò che 172 anni di lotte dei lavoratori (il “Manifesto” di Marx è del 1848) non sono riusciti a fare? Siamo forse di fronte al “momento fausto” in cui il Kapitale sarà rovesciato e una nuova era verrà per i lavoratori di tutto il mondo?


Sono interrogativi leciti, ma forse spostano il piano del ragionamento dal terreno pragmatico del cosa fare per ricostruire una società migliore, a quello degli innamoramenti ideologici adolescenziali…che di certo è il più piacevole, ma anche il meno utile in questa fase. Più valida e realistica ci sembra invece la riflessione proposta da uno studio del MIT di Boston che evidenzia come “in qualsiasi recessione o depressione passata, la soluzione economica è sempre stata quella di stimolare la domanda di lavoro, per riportare i lavoratori sul posto di lavoro. Ma in questo caso, stiamo intenzionalmente chiudendo l'attività economica e dicendo alle persone di rimanere a casa…non è solo la profondità di questa recessione ad essere diversa, ma ci troviamo di fronte ad un fenomeno qualitativamente diverso.”


Una simile prospettiva ci impone di ripensare radicalmente il nostro concetto di lavoro, ma in un senso diverso da quello suggerito dal “Manifesto”. Per comprendere cosa significano i numeri dell’ISTAT e dell’ IOL in questo scenario, che tutti avremmo preferito non vivere mai, è necessario porsi una domanda culturale, prima che etica e politica. Quanto riteniamo importante continuare a difendere le nostre posizioni ideologiche e quanto crediamo nella razionalità, nel pensiero critico e nel cambiamento?

A partire da questa domanda è necessario iniziare a ripensare le tre dimensioni che rappresentano finora i grandi assenti della discussione pubblica sul presente e sul futuro della società italiana: il lavoro, il ruolo delle donne e il ruolo dei giovani. Questi tre elementi possono rappresentare i cardini su cui ricostruire un’idea di futuro, a patto che noi siamo capaci di superare il revanscismo culturale che troppo spesso rende vano l’esercizio della ragione. Se non ci impegniamo da subito in questo esercizio il rischio è che la recessione imminente non solo aggraverà i divari territoriali e le diseguaglianze sociali, ma creerà un'immediata condizione di emergenza economica, di vera e propria miseria specialmente in realtà territoriali con deboli reti sociali ed istituzioni pubbliche che non brillano per efficienza.


Non ci sarà nessuna ricostruzione se non si metterà al centro il lavoro. Il che nel brevissimo periodo significa seguire la ricetta del premio Nobel per l’economia Paul Romer cioè “testare ripetutamente tutti coloro che non presentano sintomi per identificare chi è infetto……Tutti coloro che risultano positivi dovrebbero isolarsi; mentre coloro che risultano negativi potrebbero tornare al lavoro, viaggiare e socializzare, ma dovrebbero essere testati ogni due settimane circa”. Nel medio periodo è necessario invece un intervento senza precedenti per consentire alle imprese, che sono il soggetto principale della creazione di lavoro, di non licenziare la propria manodopera e, nel tempo più breve possibile, ricominciare a creare nuova occupazione.

La ricostruzione non avverrà lanciando denaro dall'elicottero né illudendo le persone che lo Stato provvederà alle esigenze di ognuno. Già prima del grande shock eravamo convinti che la nuova stagione del welfare non avrebbe potuto fare a meno di uno strumento generale di sostegno al reddito strutturalmente connesso alla formazione permanente ed alle politiche attive del lavoro, capace di liberarci dalla minaccia della miseria o dalla schiavitù di accettare un'occupazione e sottopagata e senza diritti pur di non perdere il reddito. Ora è necessario fare un passo avanti e affermare che gli strumenti di sostegno della liquidità dei soggetti deboli (working poors, lavoratori irregolari, migranti, famiglie monogenitoriali, anziani soli e senza pensione contributiva, ecc.) devono avere carattere di straordinarietà e chiara limitazione al tempo strettamente necessario per far fronte all'emergenza, altrimenti si potrebbero creare effetti fortemente distorsivi che disincentiveranno il lavoro produttivo proprio nella fase della ricostruzione. Dopo la pandemia non ci sarà la decrescita felice, né il reddito di cittadinanza immaginato dal collettivo Fourier dell'Università di Lovanio negli anni'80 dell’ottocento.


In questo momento la domanda da farsi non è quale lezione di filosofia politica si può trarre dalle epidemie, ma piuttosto come costruire dimensioni di comunità e convincre gli individui a elaborare i molteplici shock prodotti dalla pandemia e a rigenerare al più presto quelle interconnessioni sociali ed economiche necessarie alla ripartenza. In questo senso le parole del sindaco di Amsterdam, Marieke van Doorninck, ci sembrano significative: “da oggi l'obiettivo dell'attività economica deve essere quello di soddisfare le esigenze fondamentali di tutti, all'interno dei mezzi del pianeta.”

 di Franco Garufi e Tommaso Garufi

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