L’ultima mediazione prima dell’atomica

L'analisi | 2 ottobre 2022
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1.La cronaca dei nostri giorni
“Il resto è cronaca dei nostri giorni” è una frase che avrete letto o ascoltato centinaia di volte in un articolo giornalistico. Di norma alla fine. Noi invece iniziamo con questa espressione. Perché partiamo da ciò che sta succedendo in queste ore a Mosca, in Ucraina, altrove nel mondo. Con il ricorso alla penna di chi ben più di noi ha le informazioni e la professionalità per inquadrare gli avvenimenti. Per poi approdare, a chiusura di queste pagine, ad una “nostra” valutazione o piuttosto ipotesi o proposta che dir si voglia. Per la cronaca di questi giorni ricorriamo infatti a cinque contributi collegati in sequenza. Pubblicati il 30 settembre 2022 da “Limesonline”, il sito di “Limes”, l’autorevole rivista italiana di geopolitica, raggruppati nella consueta impaginazione “Il mondo questa settimana”.
Il primo, di Niccolò Locatelli, si intitola “Vittime (non umane) della guerra”:
“L’annessione di quattro regioni dell’Ucraina dopo i referendum-farsa e il paradossale discorso con cui il presidente Vladimir Putin l’ha giustificata, inquadrando in uno scontro di civiltà con l’Occidente satanico e neocolonialista la conquista violenta di un’area sotto la sovranità di un altro Stato, chiariscono il disinteresse del Cremlino per un compromesso. Kiev ha reagito con la richiesta, destinata a non essere esaudita, di entrare con procedura accelerata nella Nato. Le truppe russe non hanno il pieno controllo dei territori invasi che promettono di proteggere dopo l’annessione (requisito di sovranità), mentre le truppe ucraine non hanno il pieno controllo del loro territorio internazionalmente riconosciuto (requisito per aderire all’Alleanza Atlantica). Questa speculare condizione di debolezza non spegne il conflitto, anzi lo alimenta.
Una dinamica simile può svilupparsi attorno al sabotaggio dei gasdotti Nord Stream 1 e 2. Ancora ignoti mandanti ed esecutori, chiara invece la vittima primaria: la Germania, che prima del conflitto riceveva buona parte del suo gas dalla Russia tramite la pipeline forse irrimediabilmente compromessa. La reazione tedesca rischia di fare una vittima ancora più eccellente: l’unità del fronte occidentale.
Poche ore prima di opporsi nuovamente in sede Ue alla creazione di un tetto comunitario dei prezzi del gas, Berlino ha infatti stanziato uno “scudo difensivo” di 200 miliardi per contenere il caro-prezzi a livello nazionale; questi soldi verranno di fatto presi in prestito. La Germania ha le risorse e la credibilità necessaria alla (per lei inedita) creazione di nuovo debito, ma la sua decisione unilaterale mette in difficoltà i paesi dell’Ue che non possono imitarla; a cominciare dal nostro, come si intuisce dal felpato fastidio di Mario Draghi. L’Italia dovrebbe essere a posto con l’approvvigionamento di gas in vista dell’inverno, ma il presidente del Consiglio uscente evoca il rischio che l’unità europea si disgreghi con i primi freddi. È la scommessa di Putin. La mossa di Berlino però, più che un ammiccamento a Mosca, pare un avvertimento a Stati Uniti e Polonia, presunti “alleati” vicini e lontani che non hanno mai visto di buon occhio i legami tra Germania e Russia.
Creazione di debito nazionale, garanzia del debito comunitario via Next Generation Eu, riarmo, scudo solitario contro il prezzo del gas: il sorprendente decisionismo tedesco degli ultimi anni è per ora puramente reattivo, una risposta a shock esogeni (prima il Covid-19, poi l’invasione russa dell’Ucraina). Il quadro delle priorità strategiche non è definito, ma l’accordo con gli altri membri dell’Ue e della Nato, compresi gli stessi Stati Uniti, non sembra essere in cima alla lista.
Per le capitali “alleate” può diventare inevitabile iniziare – o meglio, ricominciare – a guardare con inquietudine a Berlino”.
Il secondo articolo lo firma Federico Petroni. Titolo: “La Risposta degli Usa”:
“Gli Stati Uniti accettano il gioco di Vladimir Putin. Con l’annessione, la mobilitazione non così parziale e le minacce nucleari, l’inquilino del Cremlino ha fatto un’offerta negoziale «alla russa»: riconosceteci le conquiste oppure rilanceremo, con tempi e modi che decideremo. Non è un bluff, bensì deterrenza.
A quello che interpreta come un «ricatto nucleare», Washington ha risposto attrezzandosi per la guerra lunga. Ha ovviamente misconosciuto i referendum-farsa nelle oblast’ del Donbas, di Kherson e di Zaporižžja. Ha minacciato una ritorsione militare convenzionale «devastante» in caso di impiego di arma nucleare tattica – qualcuno propone di distruggere la flotta del Mar Nero. Ha varato un nuovo comando militare basato in Germania per coordinare l’invio di armamenti in Ucraina. Ha comunicato agli alleati la necessità di aumentare la produzione industriale bellica – di fatto invocando una nuova corsa agli armamenti per ovviare alle scarse scorte occidentali, per non dover attingere alle proprie risorse da tenere in caso di guerra per Taiwan e naturalmente per superare l’industria della difesa russa.
Ancora da decifrare invece la risposta agli altri due fatti della settimana: la richiesta di adesione accelerata dell’Ucraina alla Nato e il sabotaggio di Nord Stream. Su quest’ultimo il silenzio è comprensibile: benché di proprietà a maggioranza russa, si tratta di un’infrastruttura strategica posta nelle acque limitrofe di alcuni dei membri principali dell’Alleanza Atlantica. Se davvero fossero stati i russi (e non è possibile stabilirlo con certezza ora) ci sarebbero i margini per attivare l’articolo 5. Che non vuol dire guerra ma prendere le contromisure che si ritengono necessarie. Vista l’entità del gesto, si tratterebbe di mettere in preallarme la macchina bellica a difesa di infrastrutture simili (altri tubi, impianti offshore, cavi Internet). Più che altro, manderebbe un messaggio di risolutezza al presunto colpevole.
Quanto alla domanda di Kiev. Accoglierla nella Nato avrebbe senso per mettere ufficialmente sotto controllo l’esercito locale, evitare sue fughe in avanti e al contempo dissuadere Putin dall’allargare il conflitto. Ma probabilmente tutto questo avverrebbe dopo aver in qualche modo stabilizzato il fronte militare, non durante i combattimenti. Inoltre, il processo di ratifica potrebbe esporre grosse crepe fra gli Stati membri. Poi, se la faccenda andasse spedita e se si venisse chiamati a combattere in Ucraina, si potrebbe sancire l’effettiva partizione dell’alleanza tra nordico-baltici (più Regno Unito) ed euro-occidentali. Infine, c’è il concreto rischio che una mossa pensata come dissuasiva convinca la Russia dell’intenzione occidentale di liquidarla”.
Il terzo articolo, di Mirko Mussetti, si intitola “Lyman accerchiata”:
Mentre Putin formalizza l’annessione delle quattro oblast’ parzialmente occupate, le Forze armate dell’Ucraina spingono per completare l’accerchiamento di Lyman, dove sono asserragliate migliaia di truppe russe (esercito regolare, gruppo Wagner) e filorusse (separatisti). Il 503º reggimento di fanteria motorizzata della Russia cerca disperatamente di rompere l’accerchiamento.
Se nei prossimi giorni Mosca perdesse la cittadina situata nella Repubblica popolare di Donec’k subirebbe una sconfitta politica, oltre che una pesante débâcle militare. Da oggi Lyman è infatti considerata per l’ordinamento giuridico russo parte integrante della Federazione.
Kiev sembra intenzionata a vedere subito il bluff di Putin, che nel discorso di annessione ha annunciato la disponibilità a trattare per un cessate-il-fuoco. Ignorando la retorica russa e le procedure formali di assimilazione delle quattro entità territoriali ucraine, i vertici politico-militari ucraini snobbano il tentativo moscovita di spacciare il paese invaso come nuovo aggressore. Sotto il profilo della logica bellica sarebbe sciocco per Kiev non battere il ferro finché caldo, sfruttando l’elevato sbilanciamento di uomini e mezzi creatosi nel profondo Est del paese a seguito del riposizionamento estivo russo verso il fronte meridionale (Kherson e Zaporižžja) e l’inaspettata controffensiva ucraina di settembre nell’oblast’ di Kharkiv. Infatti, al termine della riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, il presidente Volodymyr Zelens’kyj (Zelensky) ha affossato ogni trattativa col nemico, affermando che «l’Ucraina non terrà più alcun dialogo con la Russia finché Putin sarà presidente».
La partita giocata anche retoricamente in questa fase dalle parti belligeranti è molto pericolosa, poiché la dottrina nucleare russa prevede l’impiego di ordigni atomici in caso di aggressione della madrepatria. Il fatto che nel suo discorso Putin abbia scientemente chiamato «Novorossija» (nuova Russia) i territori di Kherson, Zaporižžja, Donec’k e Luhans’k suggerisce una certa predisposizione all’impiego di metodi convenzionali (mobilitazione generale) e non convenzionali (bomba nucleare tattica) per la difesa della patria percepita. Il passaggio del “precedente” nel discorso di Putin è eloquente sulla non esclusività americana dell’impiego effettivo degli strumenti non convenzionali in teatro di guerra: «Gli Stati Uniti sono l’unico paese nella Storia che ha usato armi nucleari, creando un precedente». Zelensky lo sa e per questo ha firmato la domanda di procedura accelerata per l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, sperando di ottenere così l’ombrello atomico euroatlantico e dissuadere il Cremlino dal compimento di azioni catastrofiche”.
Appena poche ore dopo, l’1 ottobre, i 5.000 militari russi rompono l’accerchiamento e fuggono precipitosamente dalla strategica Lyman, rimasta parte della Federazione Russa per appena 24 ore. Il ritiro spinge il sanguinario leader ceceno Ramzan Kadyrov, uno dei più stretti pretoriani di Putin, a criticare duramente i comandi militari russi. E, soprattutto, ad invitare Mosca a valutare l’impiego di un’arma nucleare a basso potenziale in Ucraina: “A mio parere – dichiara il cosiddetto “macellaio di Groznj” - dovrebbero essere prese misure più drastiche, fino alla dichiarazione della legge marziale nelle zone di confine e l’uso di armi nucleari a basso potenziale”.
La quarta analisi riguarda una crisi che ci mancava: Grecia e Turchia – se non eterni quanto meno ciclici nemici anche se entrambi paesi schierati nella NATO – sono ancora una volta ai ferri corti. Di questa nuovissima tensione tra mille altre tensioni proprio non si avvertiva l’esigenza. Scrive Lorenzo Noto (“Il piano inclinato fra Grecia e Turchia”):
“Giovedì il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu ha dichiarato, in risposta alla scelta degli Stati Uniti di revocare parzialmente l’embargo di armi a Cipro, che la Turchia risponderà in modo concreto, fornendo armi e aumentando la propria presenza militare a Cipro Nord. Qualche giorno prima il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha sostenuto di voler fare “tutto il necessario per difendere i diritti turchi sulle isole dell’Egeo”.
La tensione tra Grecia e Turchia sembra a un livello da codice rosso. Non accadeva dalla crisi di Imia del 1996, quando gli eserciti dei due paesi si trovarono faccia a faccia separati da soli trecento metri di mare. L’impennata avviene in concomitanza con la guerra d’Ucraina, che ha accresciuto il ruolo della Turchia esaltandone la centralità in chiave Nato e concedendole dunque spazio per avanzare pretese. La paura di Atene è che ciò possa tradursi nel tentativo di Ankara di emulare lo schema russo-ucraino riadattandolo alle proprie rivendicazioni insulari e divellere lo status quo delle isole egee.
L’escalation nei toni nell’ultimo mese ha condotto la disputa su un piano inclinato, con provocazioni e minacce. La scorsa settimana sono state diffuse immagini in Turchia che testimonierebbero il transito di diverse dozzine di veicoli di marca statunitense a Lesbo e Samo, dunque la violazione greca alla smilitarizzazione delle isole prevista dal trattato di Losanna. In risposta, Atene ha inviato lettere a Nato, Unione Europea e Nazioni Unite affermando che le provocazioni turche rischiano di sprofondare la regione in un conflitto simile a quello in Europa orientale. A ciò si è aggiunta la decisione americana sulla revoca parziale dell’embargo di armi a Cipro, che segna l’ennesimo passo verso l’ipermilitarizzazione del Mediterraneo. 
Il portavoce del dipartimento di Stato Usa Ned Price ha affermato in rapporto alla disputa dell’Egeo che la sovranità ellenica delle isole non è in discussione e che gli Stati Uniti sono impegnati a incoraggiare “i nostri alleati della Nato a risolvere diplomaticamente eventuali disaccordi” e a concentrarsi sulla minaccia russa. Ma quello tra Grecia e Turchia non è un rebus facilmente sbrogliabile per via diplomatica. È un conflitto sospeso, pronto ad accendersi e a congelarsi in base alle stagioni geopolitiche. Trovare una soluzione significherebbe indurre uno dei due contendenti a rinunciare alle proprie pretese. Orizzonte improbabile nel medio periodo e ingiustificabile nel brevissimo agli occhi delle reciproche opinioni pubbliche a un anno dalle elezioni generali in entrambi i paesi.
Benché una guerra sia nell’immediato fuori dalle intenzioni di greci e turchi, le condizioni perché un incidente faccia precipitare la situazione sono sempre più solide”.
Per finire – spostandoci dal quadrante europeo in piena ebollizione allo scacchiere indo-pacifico, non meno “caldo” – l’ultimo contributo di Francesca Marino. Titolo: “Il funambolo Blinken sull’Indo-Pak”:
“Il segretario di Stato Usa Antony Blinken, più che alle relazioni diplomatiche, si allena a camminare sulla fune: una fune tesa tra i difficili rapporti dell’India e del Pakistan e sulla complessa relazione che gli Usa hanno con entrambi, gravata dai fantasmi incombenti di Cina e Russia.
Gli Stati Uniti hanno in gran parte chiuso un occhio sulle relazioni dell’India con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, ma si sono rallegrati quando il primo ministro Narendra Modi ha recentemente detto a Putin che «non è tempo di guerra». L’obiettivo primario che lega Stati Uniti e India fin dagli anni Novanta, ossia contrastare l’ascesa cinese e il terrorismo islamico, continua a dare i suoi frutti da una parte e dall’altra.
Ma come al solito gli Stati Uniti giocano su più tavoli: il recente contratto da 450 milioni di dollari firmato da Islamabad con Washington per l’acquisto di aerei da combattimento F-16 non ha fatto proprio piacere a Delhi. «Si tratta di ricambi e ammodernamenti di unità già esistenti», ha cercato di sminuire Blinken, «non si tratta di nuovi sistemi, nuovi aerei o nuove armi». Rimane il fatto che la flotta aerea del Pakistan di F-16 è dispiegata contro l’India, e che la relazione ancora stretta «non è mai servita a granché né per gli Stati Uniti né per il Pakistan». Per inciso, mentre annunciava il raggiungimento dell’accordo, Islamabad continuava a chiedere denaro per le conseguenze dell’alluvione che ha devastato per l’ennesima volta il suo territorio.
Per motivi complessi e a tratti inspiegabili, gli Stati Uniti continuano a sostenere anche militarmente un paese che ha alle spalle l’incombente presenza cinese. Una Cina che, beneficiando anche di coperture diplomatico-logistiche pakistane, è sempre più aggressiva ai confini dell’India. Blinken ha ribadito il riconoscimento americano delle aspirazioni di Delhi a un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e ha promesso di appoggiare gli obiettivi climatici dell’India e la partnership sotto l’ombrello del “Quad” (il “Quadrilateral Security Dialogue” è una alleanza strategica informale che dal 2017 mette assieme Stati Uniti, Australia, India e Giappone in chiara funzione anticinese, n.d.r.). Vediamo se la fune regge”.

2.Ma che bella “dottrina”
Sin qui la fotografia della situazione. Aggiornata a queste ore dopo i sabotaggi dei metanodotti Nord Stream 1 e 2, il referendum-farsa, l’ennesimo sfregio al diritto internazionale, l’annessione che sa tanto di razzia di regioni ucraine (il 16 per cento del territorio di un paese indipendente quale è l’Ucraina), le ennesime minacce di uso dell’atomica. Giustificate ora, si fa per dire, dalla “dottrina” militare di Mosca che ne ammette il ricorso in caso di attacco alla sicurezza e dunque al suolo sovietico. Pardon, russo. Dottrina che è quanto di più mafioso e prevaricatorio possa esistere. Facciamo finta che in un qualsiasi paesino del mondo – poniamo in Sicilia a Sclafani Bagni – abiti un piccolo gruppo di badanti russe e succeda un incidente qualsiasi. Un reparto di paracadutisti russi interviene, occupa la cittadina e vi si asserraglia, nel giro di qualche ora organizza un referendum come quello dei giorni scorsi in Ucraina orientale e di sud-est. Ovviamente replicando lo stesso copione con il fucile puntato per raggiungere il “sì” del 99 per cento di tutti gli obbligati al voto. Con immediata richiesta di annessione di quel piccolo centro abitato alla Federazione Russa. Altrettanto immediatamente accettata e ratificata. Sclafani Bagni diventa territorio russo e - pur di garantirsi che nessuno si opponga a questa scelta (così spontanea e democratica!) – Mosca sarebbe autorizzata dalla sua “dottrina militare” a fare uso delle armi nucleari o per bene che vada a minacciare di usarle per dissuadere chicchessia dall’opporsi al suo colpo di mano. Ma stiamo scherzando? Naturalmente abbiamo forzato in modo voluto l’esemplificazione ma non poi di tantissimo. Con questa “dottrina” tutto quello che occupa Mosca potrebbe diventare territorio che farebbe parte della Federazione Russa. Anche in Siria, anche in Africa. E, per giunta, per omnia saecula saeculorum. Se non sei d’accordo ti attacco con le mie armi atomiche. Ti procuro centinaia di miglia o milioni di morti. Demenziale. Infernale.
Una idea ossessiona tutti i russi, da sempre ed ovunque. Quella di meritare il rispetto degli altri. Putin non è da meno. Nei suoi discorsi ricorre ripetutamente il concetto che i russi meritano “rispetto e considerazione”. Non capisce lui e non capiscono buona parte dei suoi connazionali che sono proprio i comportamenti aggressivi da lui perpetrati per tornare all’estensione territoriale della “Grande Russia” o dell’URSS ad alienare nel mondo il rispetto per i russi. Visti ormai solo come guerrafondai, alimentatori di tensioni, sabotatori dell’ordine internazionale. Il rispetto te lo conquisti se sei uomo di pace, leader affidabile, se assicuri benessere a tutto il tuo popolo e non solo alla ristretta cerchia dei più danarosi ed alle élite militari e dello spionaggio. Altrimenti sei solo uno spregevole tiranno. E la tirannia, si sa, genera solo distruzioni e fallimenti.

3.Chi potrebbe scongiurare lo scoppio di una guerra nucleare innescata dalla crisi ucraina?
Torniamo alle pagine con cui abbiamo aperto questo contributo. La situazione è critica come mai in passato. Perché mai come ora, con l’eccezione della crisi di Cuba del 1962, il mondo è stato vicino al cataclisma nucleare. La nostra analisi è ovviamente meno affinata – ben più grezza, se volete più sbrigativa – di quella dei bravissimi analisti di “Limes”. Ma più diretta. Noi crediamo che al punto in cui siamo ci sia una sola persona al mondo in grado di scongiurare la guerra nucleare tra Occidente e Russia che ci attende. Non è Papa Francesco, purtroppo, e non vive né in Europa né in America. L’unico a poterlo fare è il padrone della Cina: Xi Jinping. E’ un dittatore? Sì. La Cina non si può certo definire una culla della democrazia. La sua mediazione, il suo intervento sul suo “compare” Putin aumenterebbe a dismisura nel mondo il ruolo già ingombrante della Cina? Sì. La moneta di scambio di questa mediazione – che come precondizione dovrebbe superare il misto di ambiguità, circospezione e cautela con cui Pechino si è finora mossa nella crisi russo-ucraina – potrebbe avere come moneta di scambio: a) l’allentamento della strettissima marcatura strategico-militare con la quale Washington tallona la Cina e b) la prospettiva di rendere realizzabile in un domani comunque non precisamente vicino la riunificazione di Taiwan con la Cina continentale? Sì.
La Russia ha disperato bisogno della Cina. Le va dietro come un cagnolino al guinzaglio. Se Xi Jinping uscisse dalla sua maschera impenetrabile di “sodale di Putin” per “lavorare su Putin” per porre fine ai combattimenti in Ucraina, per costringerlo a sedersi al tavolo delle trattative – sia ben chiaro però: rimettendo in discussione le annessioni-farsa di territori di Kiev - per togliere il piede dall’acceleratore tra Usa e NATO da una parte e Russia dall’altra l’uomo forte di Pechino guadagnerebbe molto più credito come leader mondiale per lui e per il suo paese di quanto possa lucrare su di un conflitto tra Occidente e Russia. Specie se conflitto atomico. Che ridurrebbe i paesi occidentali e la stessa Russia ad un colabrodo. Altro che continuare poi scambi economici ed esportare prodotti cinesi in un mondo da “day after”! Altro che chiedersi poi come potere dare da mangiare ad un miliardo e mezzo di cinesi!
Complicazione su complicazione, Xi Jinping dovrebbe ergersi a mediatore tra la Russia e l’Occidente. Che lo guarda con totale diffidenza, specie gli americani che considerano i cinesi i loro antagonisti numero uno. E, certamente non facile, per poter fare il mediatore Xi Jinping dovrebbe svincolarsi dall’abbraccio tanto insistito quanto interessato del presidente della Russia. Un abbraccio che puzza di sangue e di morte perché tutto quello che tocca Putin sa di morte. Minacciata e data.
Una mediazione dunque improponibile? Irrealistica? Impraticabile? Fantapolitica? Può darsi. Anzi, più correttamente: senz’altro sì. Ma, niente di più e niente di meno, queste sono – senza tante sottigliezze analitiche, disquisizioni, distinguo da sofisti – le poste in gioco in questi nostri martoriati giorni. Mai finora così critici. Mai finora così esplosivi.
 di Pino Scorciapino

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