L'azzurro dei grandi firmamenti negli occhi di Piero Guccione

Cultura | 16 ottobre 2018
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«A Spoleto ho avuto un incontro fondante. Ezra Pound mi fissava. Uno sguardo immoto. Ho incrociato i suoi occhi. Un interminabile, straziante, silenzio». Una sorta di profezia si annidava nel ricordo evocato da Piero Guccione. Sono trascorsi trenta anni da quelle parole. Il pittore di Scicli, 83 anni, ha cessato di vivere in un pomeriggio d’autunno.

Nel 2015 era stata organizzata un’antologica per festeggiare i suoi ottanta anni. L’artista, avanzava stancamente, rimpicciolito nella figura, appoggiato ad un bastone, il volto incavato, gli occhi aggrottati. Lo sguardo di Piero Guccione era vitreo, svuotato, intabarrato in tutta la gravezza di in un mutismo straziante. Questo suo ultimo ricordo, restituiva la stessa drammatica immagine di Pound, quella da lui evocata tanti anni prima. L’autore delle più intense immagini della pittura contemporanea, era già uscito di scena, prima del suo congedo ufficiale. Questa la verità non scritta, quella bisbigliata con rispetto e discrezione. Guccione era morto anni prima, lacerato e sconvolto da una volgare campagna denigratoria. Fu letteralmente giustiziato da quelle calunnie. Decise di deporre pennelli e speranza. Un triste finale di partita. Come quello toccato in sorte al suo amato Guttuso. Anche il pittore di Bagheria, nell’ultima parte della sua vita, si rifugiò in un irreale mutismo di sottrazione. Piero Guccione e Renato Guttuso, sono stati pittori antitetici ma artisti sovrapponibili. Per anni, Guccione fu assistente di Guttuso all’Accademia di Belle arti di Roma. In verità Guccione è stato il più guttusiano dei pittori. Incompatibili i loro quadri, identico il loro impegno civile, la vastità di interessi, lo spessore intellettuale, il riscontro della critica, il successo di pubblico, la notorietà internazionale, l’amore totalizzante per la natia Sicilia. Li accomunava financo il rituale dell’accensione delle eterne sigarette. Guccione ha incarnato, per quasi mezzo secolo, un ruolo centrale nella pittura europea. Le sue opere sono ospitate nelle collezioni più esclusive e troneggiano nelle sale dei musei più prestigiosi.

La continua sottrazione guccioniana, si arresterà solo al cospetto del silenzio”, scriveva Leonardo Sciascia. In un testo dedicato al pittore ragusano, coniò il termine di “Platitude guccioniana”. Un continuo levare, scarnire, estrarre, fino a giungere all’essenzialità delle forme, al dominio della pura vibrazione di luce. Un cavare pittorico che lascia intravedere le impalcature portanti, quelle che sorreggono il dipinto. Le sue opere disvelavano, volutamente, le texture, i reticoli delle composizioni. La sua pittura è il trionfo dei contorni sfumati, delle velature di opalina iridescenza. I suoi quadri non sono il risultato di una tavolozza trattenuta, severa, monocroma, piuttosto un continuo baluginio di impercettibili sovrapposizioni cangianti. Trasparenze che retinano le forme in un incrocio, infinitesimale, di segni. Una pittura a volte equivocata, apparentemente consolatoria, mielosa, lirica. Quello operato dall’artista siciliano è stato, al contrario, un racconto pittorico colto, raffinato, fino ai confini dell’astratto e dell’informale. La sua cifra stilistica è stata la discrezione, la sobrietà, l’eleganza, la raffinatezza. C’è più religiosità in un mare di Guccione che in interi trattati di teologia. L’atmosfera sospesa delle sue opere, è quella percepita nella pace dei monasteri.

Negli anni Ottanta, all’apice del suo successo artistico, aveva scelto di tornare in Sicilia, nella sua amata Scicli. Aveva preso casa a Punta Corvo, al cospetto del mare di Sampieri. Una scelta apparentemente inspiegabile, eccentrica. Approdava in un luogo remoto, lontano da ogni accadimento. Intraprese quindi un incessante bracconaggio di epifanie straordinarie. La sua stesura pittorica assumeva contorni sempre più slavati, incerti. Furono gli anni dell’infinita sequela di paesaggi degli Iblei. Racconto operato sdoganando una pratica pittorica relegata ai margini del mercato dell’arte, quella del pastello. Una tecnica che gli consentiva velocità di esecuzione, alternativa alla pratica ad olio, quella di inenarrabile lentezza. La pittura ad olio di Guccione è stata il trionfo delle sovrapposizioni, delle velature continue, incessanti, delle instancabili stratificazioni infinite. I pastelli, di contro, erano invece guizzi estremi, sciabolate di colori, scalfitture fulminanti. Sciabolate pittoriche che trionfano sulle campiture lievi, dominano sull’ormai caratteristico disegno portante, sulle distintive griglie di appoggio, sulle tipiche linee di sostegno. Grazie a Guccione dunque, la pratica pittorica ottocentesca del pastello ha ritrovato dignità di categoria artistica. L’elogio del pastello fu sancito, definitivamente, dal suo ciclo dedicato ai carrubbi, maestosi alberi mediorientali divelti. Quelli divelti dal vento di Occidente dominarono una mostra di grande successo, ospitata nel 1986 a Milano, nelle sale di palazzo Durini.

La produzione artistica di Guccione non è mai stata affollata. Un cruccio per mercanti e galleristi che lo assediavano. Sfuggiva alle regole dell’esposizione televisiva. Rifuggiva da ogni mondanità. Detestava i clamori volgari. I suoi dipinti hanno puntualmente testimoniato la progressiva trasformazione della società, l’imbarbarimento dei costumi. I suoi quadri sono stati denuncia esplicita all’indirizzo della brutale aggressione operata ai danni del paesaggio. Le sue tele, purtroppo, cominciarono ad affollarsi di linee telefoniche ed elettriche. Trasformatori, pali e abitazioni informi. Invasioni progressive della spiaggia, celando sempre più la vista del mare. Le superfici pittoriche cominciarono dunque ad incresparsi di pattume, plastica insulsa, come nelle opere di Burri. Inserti raggrumati, ustioni che il pittore adagiava sulla tela come un sudario steso sulla Sicilia dileggiata. Una brutale violazione dell’armonia e della bellezza del paesaggio che, nel lavoro di Guccione, diventa denuncia accorata, grido civile, pittura sociale.

L’artista fu costretto ad abbandonare il suo rifugio di Punta Corvo, assediato da masse vocianti, informi, laide. Trovò rifugio lontano dalla costa, allontanandosi da quel frastuono visivo e sonoro. Ad accoglierlo, un nuovo studio, agguattato sull’altopiano di contrada Quartarella. Un’altura dalla quale continuare ad osservare il suo agognato, amato, mare. Una casa-rifugio elegante, essenziale, alla quale si accedeva attraverso un rimando greco, una quinta scenografica di muretti a secco di un accecante biancore. In quello studio minuscolo, inaugurò cicli straordinari di d’après, studi dedicati ai grandi autori della pittura: Pontormo, Velaszques, Van Dick, Caravaggio, Michelangelo, Munch, Bacon, Friederich. In quella contrada estrema, elaborò l’elogio al suo fiore preferito, l’ibiscus carnoso e sensuale. Fiore che ha voluto fosse adagiato sul suo feretro.

Ma il legame più intenso, quello inscindibile, è quello che lega Guccione al mare. Era un marinaio nell’anima il pittore di Scicli. Non c’è narrazione, non solo pittorica, senza il mare. Il mare guccioniano non è l’agitato mare di Turner dal quale giungono mugghi spaventevoli. Le acque dipinte dal maestro siciliano sono silenziose, immobili, quiete. Aveva il vezzo delle bluse di panno blu, quelle da navigatore. In studio indossava una tuta blu da operaio. Un tuta da metalmeccanico, da lavoratore quotidiano, come amava fare anche lo scultore surrealista, Jean Tinguley. Era la tenuta che indossava nei ritratti intensi che gli aveva dedicato il suo amico fotografo, Giuseppe Leone. Il mare dipinto da Guccione era infinito di acqua, orizzonte africano, luce mediorientale di Levante. Era il mare di approdo dei condottieri. È diventato il cimitero blu dei disperati. Il mare dipinto è l’azzurro in tutte le sue infinite articolazioni cromatiche. L’azzurro dei grandi firmamenti. L’azur poetico di Mallarmé. L’elogio di Baudelaire: “Où sous un clair azur tout n'est qu'amour et joie”. È il colore della pietra celeste e i suoi rimandi alchemici. È il blu monocromatico di Yves Klein. La nuance dei pacchetti di Gaulois, le immancabili sigarette che affollavano lo studio dell’artista. L'azzurro era manifestazione sensibile delle cose divine. Erano azzurre le maioliche che ricoprivano Babilonia. Blu i lapislazzuli dei riti magici, segnavano la parola degli Dei. Insolitamente azzurro appare il cielo al principe Andrej Bolkonskij, riverso a terra, ferito sull’altura di Pratzen. La consacrazione ufficiale dell’azzurro mare guccioniano, trovò patria a Venezia, nel corso della Biennale d’arte del 1988. Gli organizzatori dedicarono all’artista ragusano una sala personale. Guccione espose un grande mare. Un dipinto immenso, maestoso, frutto di dieci anni di intenso lavoro pittorico. Un prisma di luce accecante si riverberava ovunque, trionfando sulle acque verdastre e melmose della laguna, quelle intraviste dalle finestre della sala.

Uomo e artista di grande generosità. Un tratto inusuale, in un mondo dell’arte dominato dal cinismo e dall’egoismo più sfrenato. Decise di dare vita ad una comunità di artisti, la scuola di Scicli. Un gesto di altruismo eversivo. Piero Guccione nutriva una grande passione per l’impegno politico, per l’attivismo civile, l’impegno sindacale. Negli anni Novanta accettò di ricoprire la carica di assessore alla cultura del comune di Scicli. Non operò facili sottrazioni. Pittura e impegno politico sintetizzate, straordinariamente, in un grande dipinto eseguito in occasione del 150emo dell’Unità d’Italia. Quadro che giace adesso, inspiegabilmente, relegato nei magazzini della Galleria regionale di palazzo Abatellis a Palermo.

Si conclude dunque in un pomeriggio autunnale l’avventura terrena di un grande artista. Sogni dipinti sono stati i quadri di Guccione, intrisi di una misteriosa “platitude”, quella evocata da Sciascia. L’epilogo voluto dallo stesso Guccione, è un finale degno di una fiaba orientale. Piero ha disposto di disperdere le sue ceneri nel mare di Sampieri, quello che aveva scandagliato per tutta la vita. Il sogno di ogni pittore, trovare rifugio dentro un suo dipinto.

 di Concetto Prestifilippo

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