Ingrassia rievoca la caduta del governo Parri

Cultura | 12 maggio 2015
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Anticipiamo alcune pagine dal volume «Il colpo di stato del 1945. La caduta del governo Parri e l’autunno della Resistenza» di Michelangelo Ingrassia, editrice People&Humanities, prefazione di Ferruccio Parri, nipote del presidente del primo governo dell’Italia liberata. Il libro sarà presentato sabato prossimo nella sala Rostagno di Palazzo delle Aquile a Palermo. Interverranno Giorgio Benvenuto (Presidente Fondazione Buozzi), Gioacchino Lavanco (Presidente Cdl in Scienze dell’educazione all’università di Palermo) , Gaetano Pensabene (Presidente Cds Palermo), Ferruccio Parri e Saverio Pantalone (figlio di Salvatore Pantaleone, il partigiano Orione). Modererà Aurora Pullara.
 LO SPIRITO DEL 1945: IL GOVERNO PARRI 

L’anno della Liberazione - con i suoi uomini, pensieri, azioni e conflitti - è stato forzatamente incluso e stemperato dalla storiografia nella lunga periodizzazione storica definita generalmente “della transizione”, che inizia nel 1943 e finisce nel 1948 con il passaggio da un’Italia monarchica e fascista all’Italia repubblicana, parlamentare e costituzionale. Il concetto storiografico di “transizione”, tuttavia, contrasta vigorosamente con la rappresentazione storica della “liberazione”.

La transizione presuppone un mutamento storico limitato, nel quale forme e sostanza della continuità e della discontinuità con il passato convivono. La liberazione, invece, implica un mutamento storico radicale, che non ammette soluzione di continuità con il passato da cui ci si vuol liberare e contro il quale s’insorge.

Incastrare il 1945 all’interno di un ciclo storico e ridurlo a uno dei molti momenti di un’epoca di transizione, equivale a disconoscere la carica emotiva e politica di assoluta rottura che l’anno della Liberazione contiene. Il 1945, infatti, possiede una sua formidabile “unicità” storica, rispetto al 1943 e al 1948, che lo distingue dal tempo storico compreso tra le due date; interpreta quello che i tedeschi definiscono Zeitgeist, spirito dei tempi. Il 1945, insomma, rompe violentemente con il passato e irrompe tra le macerie della vecchia storia con una propria volontà di potenza rivoluzionaria e morale, creatrice di una storia nuova.

Nel 1945 finiva una guerra che era stata il campo di battaglia dei continenti ideologici che si erano sedimentati nella geografia sociale e politica mondiale del Novecento. Il liberalismo e il comunismo avevano sconfitto, uniti, il nazionalsocialismo e il fascismo. L’immane conflitto aveva tuttavia spianato il cammino a una tendenza ideologica che anch’essa, come il liberalismo e il comunismo, veniva da lontano: quella della democrazia radicale, sociale, che nel corso dell’Ottocento aveva conteso la scena al liberalismo, al comunismo e al nazionalismo mediante il riformismo sociale francese, il laburismo inglese, il socialismo della cattedra tedesco, la democrazia rivoluzionaria italiana. Sconfitta ed eliminata nel primo dopoguerra dai fascismi, questa tendenza diventa energia intellettuale nell’antifascismo, proponendosi di trasformare l’alleanza militare tra liberalismo e comunismo in una cultura politica moderna, fondata sulla sintesi democratica tra individuo e comunità, capitale e lavoro, riforma e rivoluzione, giustizia sociale e libertà personale.

È quest’idea politica e sociale della democrazia che il vento della Liberazione agita nel 1945 quando, sconfitto ed eliminato dalla storia il nazifascismo, occorre dare un orizzonte politico all’alleanza militare tra liberalismo e comunismo. In questo senso

non la transizione ma la liberazione incarnava lo spirito del 1945. Elemento tangibile della liberazione era non la mediazione ma la trasformazione. Lo spiega Hobsbawm quando scrive che:

 

Tutte le tre aree del mondo procedevano nell’epoca postbellica con la convinzione che la vittoria sulle nazioni del Patto tripartito, acquisita con la mobilitazione politica antifascista e con indirizzi politici rivoluzionari, come pure col ferro e col sangue, aprisse una nuova epoca di trasformazione sociale[1].

 

Se la versione politica della trasformazione sociale era la rivoluzione democratica, la sua manifestazione economica stava nel principio dell’iniziativa pubblica. È ancora Hobsbawm a evidenziarlo osservando che «dopo il 1945 tutti questi paesi respinsero nelle intenzioni e nei fatti l’economia di mercato e aderirono ai principi della direzione pubblica e della pianificazione statale»[2] dell’economia.

È questo spirito di liberazione e di trasformazione del 1945 che sospinge popoli e nazioni verso la democrazia radicale. Nella Gran Bretagna del 1945 a vincere le elezioni di luglio non sono i conservatori di Churchill ma i laburisti di Clement Attlee con la parola d’ordine never again, mai più, scagliata contro la società dei pochi privilegiati e della disoccupazione di massa. In breve tempo, e abbandonando il vecchio principio del gradualismo, il governo laburista riuscì a realizzare il socialismo dentro la democrazia: i settori dell’energia elettrica, della sanità, dell’acqua, dei trasporti furono tutti nazionalizzati; il Welfare State potenziato; una poderosa azione riformista rivoluzionò l’intera società britannica. Il governo di Attlee si era richiamato al senso di comunità e aveva mobilitato il sentimento collettivo del popolo che in guerra aveva resistito alla minaccia nazista e ai suoi terribili bombardamenti[3]. Pure in Francia, ricorda Stéphane Hessel,

 

a partire dal 1945, dopo una spaventosa tragedia, le forze in seno al Consiglio della Resistenza si votano a un’ambiziosa risurrezione. È allora, rammentiamolo, che nasce la Sécurité sociale così come la Resistenza l’auspicava, come il suo programma prevedeva: «un progetto completo di Sécurité sociale, volto ad assicurare mezzi di sostentamento a tutti i cittadini, qualora fossero inabili a procurarseli con il lavoro»; «una pensione che consenta ai lavoratori anziani di avere una vecchiaia dignitosa». Le fonti di energia, l’elettricità e il gas, le miniere di carbone, le grandi banche vengono statalizzate. Come indicava il programma, «il ritorno alla nazione dei grandi mezzi di produzione monopolizzati – frutto del lavoro collettivo -, delle fonti di energia, delle ricchezze del sottosuolo, delle compagnie d’assicurazione e delle grandi banche»; «l’insediamento di una vera e propria democrazia economica e sociale, che comporti l’eviazione dei grandi gruppi di potere economico e finanziario dal controllo dell’economia». L’interesse generale deve prevalere sull’interesse particolare, l’equa distribuzione delle ricchezze prodotte dal mondo del lavoro deve prevalere sul potere del denaro. La Resistenza propone «un’organizzazione razionale dell’economia che garantisca la subordinazione degli interessi particolari all’interesse generale e sia affrancata dalla dittatura professionale fondata sull’esempio degli Stati fascisti», e il Governo provvisorio della Repubblica se ne fa carico[4].

 

È significativo notare che lo spirito del 1945 si manifesta e realizza in uno Stato monarchico come la Gran Bretagna e in uno Stato di tradizione liberale come la Francia che pure aveva tollerato il bonapartismo e subìto il fascismo di Petain; segno evidente di una capacità della monarchia inglese e del liberalismo francese di entrare in sintonia con lo spirito dei tempi accettando e favorendo la trasformazione.

Sicuramente il 1945 appariva anche con un timore materiale dissociato dall’audacia spirituale. In Unione Sovietica e negli Stati Uniti il 1945 non provocò trasformazioni epocali e prevalse anzi una sostanziale continuità con il passato che, addirittura, in America giunse a recuperare con Truman quelle politiche economiche liberaliste che il New Deal aveva archiviato. Anche in Italia la storia seguirà la linea della continuità che rinchiuderà nelle dorate prigioni di un’interminabile (e interminata) transizione i partiti delle masse popolari e la Repubblica che essi creeranno; segni evidenti di una contiguità dei due partiti di massa, Dc e Pci, con l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, dell’incapacità del liberalismo italiano di sapersi rinnovare ideologicamente, e della volontaria adesione di una parte dell’antifascismo al “partito della transizione e della continuità”.

Ma nell’anno della Liberazione pure in Italia lo spirito del 1945 agitava uomini e idee. Aveva cominciato a manifestarsi nelle repubbliche contadine siciliane[5] e nelle repubbliche partigiane che sperimentano l’autogoverno democratico in quel «laboratorio politico» che anche fu «il movimento partigiano»[6]; nelle leghe sindacali che organizzano e dirigono le lotte sociali nel meridione; nei Comitati di Liberazione Nazionale sorti in ogni regione, in ogni città, in ogni azienda ed esaltati da Piero Calamandrei che, all’indomani dell’insurrezione popolare, ne rivendica la funzione rivoluzionaria affermando che:

 

durante il periodo della lotta clandestina le sole forze politiche vive sono state quelle raggruppate intorno ai comitati di liberazione: vive perché disposte a lottare e a sacrificarsi. A queste stesse forze, e ad esse sole, spetta oggi il compito di ricostruire il nuovo Stato italiano. Ad esse sole: questo è uno dei punti su cui occorre avere idee chiare[7].

 

Si tratta di movimenti sempre più dinamici che spingono in direzione non di un’ordinaria transizione ma di una straordinaria trasformazione della vecchia realtà. In questo senso si può dire che con la Liberazione del 25 aprile 1945 erompeva una domanda rivoluzionaria di grande trasformazione delle strutture politiche, sociali, economiche, culturali, istituzionali del paese. Morto l’8 settembre 1943 lo Stato liberale e monarchico generato nel 1861 dalla soluzione moderata del Risorgimento, liberata dal nazifascismo la Patria, si trattava adesso di ricostruire una nuova Italia con i materiali culturali e politici forgiati nelle fucine del Risorgimento e della Resistenza; scolpendo, nel cantiere della Costituente, la roccia della democrazia rivoluzionaria risorgimentale con gli strumenti di autogoverno e di autogestione temprati dalla Resistenza.

Se l’Italia era contemporaneamente attraversata da una tendenza alla continuità del vecchio Stato, che rimetteva in discussione la “costituzione provvisoria” già approvata nel giugno 1944, tuttavia lo spirito del ’45 si espandeva vigorosamente sulla scia dell’insurrezione armata e dell’avvincente immagine di mutamento che essa ispirava alle masse popolari. È in questo scenario politico generato dall’insurrezione armata che entra in azione Ferruccio Parri.

Tornato direttamente dal campo di battaglia della guerra partigiana, che gli altri leader politici avevano vissuto da lontano; esponente di punta dell’unico partito che non aveva alcun legame con il passato prefascista; estraneo al sistema politico prefascista del quale invece Bonomi, Nenni, De Gasperi, Croce, Togliatti avevano a vario titolo fatto parte (alcuni addirittura a contatto persino col Mussolini ancora socialista, altri sostenendolo col voto in Parlamento fino al 1925), Ferruccio Parri è l’uomo politico nuovo che incarna e interpreta lo spirito del 1945 italiano.

Ancor prima di essere indicato come presidente del Consiglio, aveva pubblicamente affermato da Roma che:

 

in virtù della guerra partigiana si è determinata una situazione profondamente diversa da quella che ispira la politica attuale, e noi siamo venuti per rappresentare al governo la necessità che la politica italiana si adegui alla situazione nuova […] il cammino da percorrere è ancora lungo e duro; sarà pieno – certamente – anche di delusioni; ma quella che intendiamo battere è l’unica strada. Battiamola, vi garantisco che ne vale la pena e che se sapremo lavorare questo può essere l’inizio del nostro secondo Risorgimento[8].

 

Con questa convinzione ideale Parri accoglie la richiesta formulata dai sei segretari dei partiti del CLN di presiedere il primo governo dell’Italia liberata. Mobilitando il mito storico e politico del secondo Risorgimento, s’inserisce nella sfida tra continuità e rottura, transizione e trasformazione, prefiggendosi d’interrompere e rompere la tendenza alla continuità e alla transizione.

[…] Indicative le dichiarazioni che accompagnano il suo esordio e nelle quali risuona l’eco del suo prediletto Giuseppe Mazzini che, nel discorso pronunciato il 10 marzo 1849 all’Assemblea Costituente della Repubblica Romana, aveva esaltato l’armonico legame tra governo e popolo [9]. Anche Parri, dopo avere ricordato che il suo governo aveva origine dal popolo, dichiarava nel suo primo discorso da Presidente che:

 

Governo e popolo sono la nostra idea, non sono due entità distinte e quasi avverse. Questo governo […] è governo di popolo e deve governare per il popolo: tutto il popolo, senza distinzione di partiti e soprattutto oltre i partiti, senza distinzioni di regioni[10].

 

Ancora prima si era appellato a quegli uomini e donne che rappresentavano la base militante e combattente della guerra partigiana; lo ricorda Alessandro Galante Garrone che racconta:

 

il 14 giugno 1945, durante le consultazioni per dar vita a un nuovo governo, in una saletta di Montecitorio Parri iniziava il suo discorso con queste parole: «io sono qui il signor partigiano qualunque»[11].

 

Queste immagini del secondo Risorgimento, del partigiano comune, del governo oltre i partiti, sollevano consenso negli ambienti più diversi e anche lontani dallo stesso Parri e dal suo partito. Una personalità culturale come quella di Giovanni Ansaldo, in quel momento prigioniero nel campo di Gross Hesepe, annota nel suo diario il 16 giugno:

 

si è dichiarato “al di fuori dei partiti”. La dichiarazione è importante. Se la avesse fatta un politicante dei soliti, si potrebbe ritenerla una formula delle solite; ma provenendo da un uomo della

nobiltà d’animo di Parri, e della sua lealtà indiscutibile, è un impegno[12].

 

Persino il movimento qualunquista mostra soddisfazione nella costituzione del nuovo governo, ed entusiasmo nel suo presidente, mettendo il 23 giugno in evidenza sul quotidiano del partito L’Uomo Qualunque che:

 

Parri non è, a quanto si dice e a quanto sembra, un uomo politico professionale, ma un galantuomo che fino a oggi ha mangiato il sudato pane di chi se lo guadagna con onesta e spesso ingrata fatica. Se è così, Parri è un uomo qualunque, è dei nostri, non può né deve essere temuto se non dai cialtroni[13].

 

Sono i riverberi dell’entusiasmo popolare che accoglie e saluta in Ferruccio Parri il partigiano qualunque, l’uomo onesto, l’eroe popolare, il simbolo della Resistenza. Un entusiasmo che si lega all’ardore proveniente dalla base partigiana operante nei comitati di liberazione, militante nei partiti antifascisti, ritornata nelle case, nelle fabbriche, nei campi, negli impieghi, nella quotidianità. È indubbio che il sentimento di attesa che si diffuse a livello popolare tra la fine del governo Bonomi e l’inizio del governo Parri abbia contribuito a determinare nel paese il bisogno psicologico di un fatto nuovo, da cui ricominciare. Questo bisogno psicologico, l’entusiasmo dell’opinione pubblica, l’ardore della base partigiana conferiscono a Parri, nelle prime settimane di vita del suo esecutivo, un carisma. E Parri ne è consapevole a tal punto che «fin dall’inizio dell’esperienza di governo, egli cercò di utilizzare il proprio carisma personale, quello di uno dei capi più noti e amati della Resistenza»[14].

Questa presenza carismatica Ferruccio Parri la riteneva necessaria per alimentare, diffondere e difendere lo spirito del 1945: il valore della lotta partigiana come guerra di Liberazione anche politica, la Resistenza come rivoluzione democratica, l’unità antifascista come soggetto collettivo d’ideali comuni. È stata biasimata a Parri un’attenzione eccessiva alla pedagogia civile piuttosto che ad altre questioni ritenute più importanti; si sottovaluta, però, il fronte culturale e ideologico della battaglia politica che Parri conduce nei cinque mesi di governo. Come contrastare la tendenza politica alla continuità del vecchio Stato e alla transizione se non popolarizzando il significato della Resistenza? Parri non perde occasione, prima e durante il suo mandato, di appellarsi al sangue dei caduti, alla dura lotta del partigiano, agli ideali per i quali tanti giovani avevano sacrificato la vita; per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sull’importanza della Costituente per costruire il presente e il futuro del paese.

All’indomani della formazione del suo governo, il 23 giugno, in un radiomessaggio indirizzato al popolo italiano, dichiara:

 

voi, papà e mamme d’Italia, alle prese con lo spinosissimo problema giornaliero del pranzo e della cena, voi vedete in prima linea le necessità materiali. Lasciate che io metta in prima linea il lato morale […] è la premessa di tutto, la premessa di ogni risurrezione. Abbiamo bisogno di una lunga e tenace opera di educazione civile che ci liberi da un triste passato e da antiche eredità, che dia agli italiani il senso della serietà morale […] Ed anche il problema politico è d’importanza primordiale. La Costituente, papà e mamme d’Italia, non sfama i vostri figli. Ma se noi non arriviamo, e presto e ordinatamente, a dare all’Italia un nuovo assetto organico, perdiamo il frutto della nostra liberazione, perdiamo la possibilità per domani di governare, di amministrare e di ricostruire, perdiamo la stessa libertà, ed i nostri caduti saranno caduti invano. Per questo ci hanno chiamato e ci siamo chiamati il governo della Costituente, perché la Costituente sarà il coronamento della lotta di liberazione, il fondamento della nuova società italiana, prologo della nuova storia[15].

 

In questo richiamo emozionante alla forza morale, all’educazione civile, al popolo dei papà e delle mamme alle prese con le esigenze materiali, al sangue dei caduti, al prologo di una nuova storia, c’è tutto lo spirito del 1945 italiano che Parri porta al Viminale insieme all’esperienza unitaria della guerra di Liberazione e alla parola d’ordine del primo e del secondo Risorgimento: la Costituente.

[…] Secondo l’interpretazione corrente Parri si sarebbe lasciato ingenuamente ingannare dai partiti credendo davvero che il suo sarebbe stato il “governo della Costituente”, ossia della rivoluzionaria svolta democratica proiettata di là del vecchio regime parlamentare. Egli, in buona sostanza, non avrebbe compreso le dinamiche politiche che si svolgevano sotto i suoi occhi; non avrebbe capito che il suo governo:

 

non rientrava nella strategia di nessuno dei grandi partiti, ma affidava alla forza dei simboli (‘la Resistenza al potere’) il superamento della fase più incandescente del dopoguerra, rinviando ai mesi successivi il dispiegamento delle diverse e contrastanti strategie di partito[16].

 

Non si tiene in conto, però, che Parri aveva già vissuto la drammatica esperienza del primo dopoguerra italiano che, pur avendo sprigionato una situazione rivoluzionaria e provocato la crisi mortale del vecchio Stato liberale, era poi sboccato nel fascismo per l’inadeguatezza del riformismo, l’inconcludenza del massimalismo e l’esiguità del movimento democratico. Ora, nel 1945, quella situazione storica si ripeteva ma non gli sfuggiva che il quadro era mutato: il fascismo sconfitto, lo Stato liberale esaurito, l’antifascismo potente e consacrato da una vittoriosa insurrezione armata che poteva essere proseguita politicamente. Ed è quello che tenta di fare: la liberazione politica dopo la liberazione armata. L’1 settembre, al primo congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale Alta Italia, dirà alla platea dei partigiani:

 

voi avete il dovere di riuscire a mantenere la collaborazione di gruppi sociali e di partiti diversi su un punto di incontro e di equilibrio, che è il solo modo di dare il vostro efficace contributo all’opera di ricostruzione […] Se riuscite a mantenere questa posizione centrale di equilibrio della vita politica italiana […] se riuscite ad esser capaci voi partiti, voi tutti partiti, di una autolimitazione delle vostre possibilità […] è il solo modo […] per arrivare alla Costituente. Vi è dunque […] uno sforzo di contemperamenti di situazioni particolari di partiti, che vi aspettano, e se voi riuscirete, darete una prova che sarà la seconda dopo quella che avete dato, di capacità di liberazione del popolo italiano: la prova della sua maturità politica[17].

 

Né a Parri sfuggiva che la Resistenza subiva il condizionamento degli Alleati, soprattutto dopo che a Roosevelt era succeduto Truman, e dei partiti, ancora una volta incapaci di gestire un’autentica situazione rivoluzionaria e tarlati dalla vocazione partitocentrica (quando non partitocratica). Proprio per questo egli, accettando l’incarico di presidente del Consiglio, pone come condizione politica la realizzazione della Costituente, che altro non significava se non la realizzazione del mandato politico elaborato nel giugno 1944 dai partiti antifascisti uniti e solennemente approvato dal governo allora in carica. Tornando a quella parola d’ordine originaria, Parri tenta di bloccare ai partiti le vie di fuga in avanti e in direzione opposta che mostrano di voler imboccare, e indica la via dell’antifascismo unito in una sola e compatta forza protesa verso la trasformazione:

 

Ricordatevi quale è il primo impegno di questo governo, impegno col quale esso è nato: fare la Costituente e farla bene […] Questo governo arriverà alla Costituente […] È un impegno d’onore per il governo, è un impegno d’onore per me. Ma ne discende direttamente un impegno d’onore per voi, per voi dei CLN[18].

 

Parri, del resto, è perfettamente consapevole dei rischi, dei condizionamenti e delle trame cui va incontro grazie anche all’opera dell’informatore Luca Osteria, che aveva conosciuto e apprezzato per le sue capacità durante la prigionia nazista, e che adesso invita personalmente a collaborare segretamente con la presidenza del Consiglio. L’ha scoperto Florinda Aragona che spiega:

 

[…] Luca Osteria fu incaricato di creare un servizio informazioni, utilizzando gli uomini della “Squadra Ugo” alle dipendenze della presidenza del Consiglio. Il servizio aveva come scopo un monitoraggio continuo e approfondito delle attività dei partiti su tutto il territorio, soprattutto dei partiti appartenenti alla coalizione governativa. Era composto da informatori ben ramificati nel territorio nazionale, con ruoli e compiti prestabiliti[19].

 

A Roma, Milano, Torino, Firenze, Napoli operano in incognito ufficiali, sottufficiali e agenti di Pubblica Sicurezza che conducono inchieste e raccolgono notizie poi convogliate con la massima riservatezza a Roma, direttamente sul tavolo della presidenza del Consiglio, nelle mani di Ferruccio Parri.

Dalla ricerca della giovane studiosa si apprende che:

 

Nelle sue relazioni Osteria, analizzando la situazione politica italiana, riferisce informazioni riguardanti i partiti, i movimenti politici, come quello dell’Uomo qualunque o quelli neofascisti, monarchici, sovversivi, oppure la massoneria. Osteria si sofferma soprattutto sulle strategie politiche del Pci e del Psiup. Molte relazioni sono interamente dedicate alle iniziative e alle decisioni dei partiti che si ponevano a sinistra nel panorama politico italiano, perché erano state le più attive durante la Resistenza e perché avevano un peso notevole all’interno del governo[20].

 

Si potrebbe dunque dire che tutti sapevano ma tutti fingevano di non sapere quale cimento politico tutti affrontavano nel chiuso della Resistenza antifascista.

[…] Come scrive Giorgio Vaccarino, insomma, «tutta la storia del governo Parri è una lotta fra i disegni, per quanto possibile avanzati, di una ricostruzione democratica e le soluzioni a volta a volta compromissorie che la situazione imponeva»[21]. Una lotta rivelatrice delle posizioni che maturarono all’interno della Resistenza non sulla linea di confine nord/sud, secondo la nota e ancora oggi prevalente tesi di Federico Chabod[22], ma sulla bisettrice politico-culturale che taglia l’antifascismo in due poli distinti e contrapposti: il polo della continuità e quello della trasformazione. Lentamente, nel corso del tempo, secondo gli interessi particolari, i partiti antifascisti pendolarono da un polo all’altro prima di scegliere definitivamente dove sostare, separandosi e sgretolando così l’unità antifascista.

[…] Può certamente apparire irreale, col senno di poi, l’enfasi sulla Costituente. Questo “irrealismo”, però, è una risorsa politica che Parri adopera contro il realismo politico dei suoi avversari visibili e invisibili. È il Parri mazziniano, in realtà, che viene fuori a sfidare i moderni seguaci del Machiavelli. Per una singolare coincidenza della storia, alcuni mesi prima, nel marzo 1945, Guido Dorso, che di Parri fu amico, aveva pubblicato sulla rivista L’Acropoli un saggio dedicato al «Mazzini politico dell’irrealtà». Il pensatore repubblicano è studiato come chi sfida la realtà politica e le forze, le istituzioni, i ceti, i loro equilibri, compromessi, accomodamenti, piegamenti, in essa operanti. Attraverso Mazzini, Dorso avverte che il 1945 richiede la concentrazione assoluta in una sola idea che altra non può essere che la revisione critica di tutto il processo di formazione e di dissoluzione dello Stato storico italiano, dal «capolavoro diplomatico-istituzionale» di Cavour alla disfatta della «diarchia» sabaudo-fascista. Il 1945 parve a Dorso il momento di volgersi a Mazzini. Come scrive Luigi Compagna:

 

L’Italia gli sembrava assetata di «irrealtà» e lungo le strade della «politica dell’irrealtà» occorreva incamminarsi. Senza eccessive illusioni, ma anche senza colpevoli rassegnazioni[23].

 

Si potrebbe dire che fu precisamente quello che fece Ferruccio Parri nel suo governo e, mediante esso, nella breve estate di fuoco del 1945. Se l’Italia aveva bisogno di una politica dell’irrealtà egli gliela offrì, senza eccessive illusioni ma anche senza colpevoli rassegnazioni, com’era nel suo carattere e nel suo stile, duellando contro la realtà politica del suo tempo e i suoi equilibrismi, compromessi, istituzioni, partiti.

[…] Parri, in buona sostanza, vede che la linea della continuità e della transizione è già stata tracciata; sa che il suo governo è chiamato a gestire una delicata fase di quel processo di transizione; ma sfidando la realtà si propone di spezzare il corso di quella linea richiamandosi a quella rivoluzione democratica che era stata del Risorgimento e che ripropone alla Resistenza. Sarà sconfitto, come Mazzini prima di lui; e il Partito d’Azione nato dalla Resistenza si dissolverà, com’era già capitato al Partito d’Azione nato dal Risorgimento.

Michelangelo Ingrassia

 

 

 

 



[1] E. J. Hobsbawm, Il secolo breve 1914-1991, Rizzoli, Milano 2014, p. 212

[2] Ibidem

[3] Alla storia del primo governo laburista inglese ha dedicato un interessante documentario il regista Ken Loach, significativamente intitolato The Spirit of ’45, uscito nelle sale cinematografiche nel 2013; si veda la recensione di V. Agostinis, Ken Loach resuscita lo spirito del 1945, «Europa», 20 marzo 2013; Hobsbawm, da parte sua, rileva che quelle laburiste furono riforme senza precedenti nella storia della Gran Bretagna

[4] S. Hessel, Indignatevi!, Add editore, Torino 2011, pp. 6-7; si tratta, continua l’autore a p. 8, del complesso «delle conquiste sociali della Resistenza che viene rimesso in discussione oggi». Pure in Belgio, nei Paesi Bassi e nei paesi scandinavi è operata una trasformazione sociale che caratterizzerà anche il mondo decolonizzato e l’Europa dell’est, naturalmente con tutti i limiti che la storia registra e che attendono ancora di essere analizzati e contestualizzati

[5] Si è già accennato che tra il 1944 e il 1945 si sviluppa in Sicilia un esteso movimento di rivolta contro il latifondo, il carovita e il richiamo alle armi; i moti dettero vita a repubbliche autonome come quella di Piana degli Albanesi, in provincia di Palermo, e di Comiso, nell’entroterra di Ragusa; si veda G. Petrotta, Testimonianze di una repubblica contadina, a cura di A. Lanza, Edizioni Centofiori, Firenze 1978; F. Petrotta, La repubblica contadina di Piana degli Albanesi nel 1945, prefazione di R. Mangiameli, La Zisa, Palermo 2011; F. Capelvenere, La Repubblica di Comiso, CM, Parma 2013. Le repubbliche siciliane sono oggetto di una controversia storiografica e di volta in volta sono state interpretate come fenomeni neofascisti, indipendentisti, qualunquisti, reazionari; recentemente nuove interpretazioni collocano le rivolte e le repubbliche nell’ambito di quella Resistenza dimenticata del sud.

[6] M. Rendina, op. cit., p. 69

[7] P. Calamandrei, Funzione rivoluzionaria dei comitati di liberazione, «Il Ponte», n. 2, maggio 1945; nello stesso mese di maggio 1945 il segretario del Partito Liberale Italiano Leone Cattani, che a novembre sarà l’artefice della caduta di Parri, aveva brutalmente attaccato i CLN auspicandone la liquidazione; l’1 giugno un accordo dei partiti sanciva il declassamento dei CLN da organi di potere politico-amministrativo in organi consultivi che collaborano con i prefetti; scompariranno definitivamente dopo la caduta di Parri

[8] F. Parri, op. cit., p. 142

[9] Sul tema mi permetto di rimandare al mio saggio La democrazia dei doveri. Giuseppe Mazzini nel XXI secolo, «Rassegna Storica del Risorgimento», fascicolo IV, 2005

[10] F. Parri, op. cit., p. 143

[11] A. Galante Garrone, Messaggio, in AA. VV., Il Governo Parri. Atti autografi del Convegno, Torino, Centro Studi Piero Gobetti, p. 4

[12] G. Ansaldo, Diario di prigionia, Il Mulino, Bologna 1993, p. 423

[13] Cito da A. Guasco, Qualunquismo e azionismo, «Trasgressioni», n. 1-2, 2005

[14] L. Polese Remaggi, op. cit., pp. 281-282

[15] F. Parri, op. cit., p. 144

[16] A. G. Ricci, op. cit., p. 125

[17] F. Parri, op. cit., pp. 177-178

[18] Ivi, p. 175

[19] F. Aragona, op. cit.; dall’autunno 1943 il questore Luca Osteria conduceva il doppio gioco a danno dei nazisti con i quali fingeva di collaborare, fu Osteria a tenere i contatti tra Parri e l’esterno nei mesi di prigionia nazista del futuro presidente del Consiglio

[20] Ibidem

[21] G. Vaccarino, I partiti nel governo Parri, op. cit., p. 48

[22] Nel testo delle sue già citate lezioni parigine sulla storia d’Italia, Chabod contrappone il moderatismo dell’Italia del sud, che non visse la Resistenza, al rivoluzionarismo dell’Italia del nord, che invece fece la lotta armata di Liberazione

[23] L. Compagna, Mazzinianesimo di Guido Dorso, in AA. VV., Mazzini nella cultura meridionale, prefazione di P. Bandiera, Aldo Marino Editore, Catania 1987, p. 172; il saggio di Dorso in «L’Acropoli», I, 1945 
 di Michelangelo Ingrassia

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