Gioacchino Lanza Tomasi, principe comunista dagli occhi chiari, ho vissuto nella sua casa
Cultura | 12 maggio 2023
«Sono Lighea, sono figlia di Calliope». La frase rimbalzava lungo il corridoio in penombra. Guadagnata la luce del salone, sulla destra, si manifestò la fonte di quel suono, era un vecchio registratore a bobine Revox B77. Le lancette degli indicatori di livello, a intermittenza, andavano a fondo scala. Diffondeva la voce di un uomo anziano, l’intonazione aveva una sfumatura triste.
«Venga, venga. Facciamo conversazione». Questa volta la voce aveva un volto.
Palermo, un pomeriggio di un vago Novecento, quartiere della Kalsa, via Butera 28. Era la prima volta che incontravo il mio padrone di casa.
Il mio appartamento aveva una storia di continui subentri. Me lo aveva ceduto Ciccio Di Parenti redattore del “Giornale di Sicilia”, lo aveva ricevuto da Daniele Billitteri del giornale "L’Ora”, che aveva sostituito il mitico Ciccio La Licata trasferito a “La Stampa”.
Il padrone di casa era un gigante, i capelli a spazzola da ufficiale di Stato Maggiore, gli occhi chiari, la stretta di mano a tenaglia, il vocione tonante. Mi invitò a seguirlo in giardino. Aveva da poco lasciato New York per fare ritorno in Sicilia. Temevo che nell’invito a conferire con lui si annidasse una disdetta di locazione.
Il luogo era di una bellezza inenarrabile. Il palazzo era stato edificato alla fine del Seicento su un contrafforte spagnolo del secolo Decimoquinto. Serrato il portone con i leoni in bronzo incorniciati, guadagnata la penombra della corte, il tempo sembrava fermarsi. Il clangore metallico del quartiere non riusciva a penetrarvi. Dalle finestre del mio alloggio si dominava il golfo palermitano. Il terrazzino annesso era luogo di incantamenti, una trama di gelsomini e gabbiani. Dunque ero terrorizzato al solo pensiero del possibile allontanamento.
«Ha riconosciuto la voce della registrazione?» chiese il mio interlocutore, accompagnando la domanda con una severa espressione professorale.
«Sinceramente, no» risposi con non celata ansia e imbarazzato.
«Ha letto Lighea?» incalzò.
«No», intonai con un filo di voce da condannato a morte, il pensiero ormai rivolto all’inevitabile, imminente, trasloco.
Lui percepì il mio imbarazzo e accompagnò la mia goffa risposta con una fragorosa risata.
La voce diffusa dal registratore, era quella del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa mentre leggeva il suo racconto “Lighea”.
Quello che seguì, fu una delle conversazioni più brillanti mai intrattenute.
Il padrone di casa si chiamava Gioacchino Lanza Tomasi, era il Aveva diretto teatri a Napoli, Bologna, Roma, orchestre sinfoniche. Presieduto commissioni musicali alla Biennale di Venezia. Ricoperto cattedre universitarie di rilievo. A New York aveva guidato, per anni, l’Istituto di Cultura italiana. Amico dei grandi protagonisti della cultura e dell’arte del Novecento.
Era il terzogenito del senatore don Fabrizio Lanza Branciforti Ruffo, conte di Mazzarino e Assaro. La madre Conchita Ramìrez Camacho, era nata a Costantinopoli, figlia di un diplomatico ispano-cubano.
Non mi cacciò via di casa. A quella chiacchierata fecero seguito altre ineguagliabili conversazioni.
Mi raccontò del triste finale di partita del principe Giuseppe Lanza Tomasi. Epilogo segnato dalle dure parole di Elio Vittorini. Frasi contenute in una lettera di diniego che l’autore di “Conversazione in Sicilia” aveva fatto recapitare al principe ormai in fin di vita. Il professore Lanza ricordava la battuta finale del principe, dopo aver appreso della bocciatura del suo manoscritto: “Come recensione non è male”.
Il romanzo, è storia nota, fu pubblicato postumo. Il dattiloscritto fu consegnato da Elena Croce, figlia del filosofo Benedetto allo scrittore Giorgio Bassani. Il libro fu pubblicato nel 1958 da Feltrinelli. Si aggiudicò il premio Strega. Divenne ben presto un successo planetario, tradotto in tutto il mondo.
Il professore mi raccontò del tardivo ravvedimento della cultura progressista italiana. Mostrò una tardiva recensione firmata da Louis Aragon, intellettuale comunista tra i più influenti. Un cambiamento di rotta che convinse Togliatti a commissionare un articolo assolutorio affidato a Mario Alicata. Fino a giungere alla decisione di Luchino Visconti di trasformare quella storia in un film che ha segnato un’epoca. Un successo cinematografico coronato dalla Palma d’oro a Cannes nel 1963. Un film che ha rischiato di offuscare il libro. Il risultato finale fu quello di trasformare un libro considerato di destra in un successo mondiale, grazie ad un editore di sinistra e un regista comunista. Successo destinato ad accrescersi grazie alla prossima messa in onda della serie Netflix dedicata al celebre romanzo.
Tra le conversazioni memorabili quella del racconto di un viaggio epico. Gioacchino era stato nominato figlio adottivo del principe di Lampedusa nel 1957. Propose all’anziano genitore di raggiungere Messina per ammirare i capolavori di Antonello da Messina, raccolti in una grande antologica. Partirono a bordo di una Fiat Topolino, un viaggio temerario. Al ritorno si fermarono a casa del cugino Lucio Piccolo, a Capo d’Orlando. Lucio era un personaggio altrettanto formidabile. Conosceva a memoria il Parsifal e da quel luogo eccentrico intratteneva un carteggio con il poeta William Butler Yeats.
Palazzo Lampedusa si ammantava di armonia grazie a un’altra insostituibile presenza, quella elegante di Nicoletta Polo, duchessa di Palma che nel 1981 aveva sposato il professore. Signora di estrema eleganza, laureata all’università di Mosca, raffinata connaisseuse d’arte, autrice di una mirabile biografia per immagini della famiglia (Sellerio editore).
Dopo aver fatto tutto, fu isolato. Per lui si spensero i riflettori. Il grande musicologo trascorse gli ultimi anni in un isolamento che lo feriva mortalmente. Tutti i fantasmi del Gattopardo che albergavano in quel palazzo della Kalsa, lo videro custode silenzioso di una storia finita irrimediabilmente.
L’ultimo immagine del professore è quella legato al suo rito mattutino. All’alba, dal suo terrazzo affacciato sul golfo, ammirava in silenzio la pilotina che fendeva il porto di Palermo in battere e levare.
A 89anni scompare l’ultimo dei gattopardi, era un principe comunista dagli occhi chiari.
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