Eppure Bertoli canta ancora: vita e ideali del guerriero senza spada
De
Gregori era troppo ermetico, Baglioni proprio non gli andava giù e
Vecchioni pure.
Di
Battisti non sopportava i testi di Mogol, e poi Lucio esagerava con
le tonalità in minore. Proprio come Pino Daniele. Persino Mozart, un
po' per scherzo e no, per lui era uno che "ha fatto due pezzi e
poi si è limitato a copiare se stesso". Era difficile piacere a
Pierangelo Bertoli.
Edmondo
Berselli si divertiva a raccontare che gli piacessero solo Beatles,
Sinatra e se stesso. Leo Turrini, che di Berselli era amico e di
Bertoli conterraneo, non si è divertito di meno nel raccogliere i
ricordi di Marco Dieci, musicista sopraffino, per decenni
chitarrista, pianista e soprattutto amico di Pierangelo. È un bel
libro a partire dal titolo, Eppure Angelo canta ancora, quello che
hanno firmato per Incontri Editrice. Contiene il cd Del Volt,
documento inedito di un concerto tenuto nel 2000 al Teatro Carani di
Sassuolo.
Come
spesso capita, il libro è nato per caso: da una chiacchierata che si
è prolungata e che non poteva restare privata. Le cose che Dieci
aveva da dire erano troppe, e troppo belle.
Mangiapreti
come pochi, di sinistra come pochi, rigoroso come pochi. Bertoli era
così. Anche per questo, forse, a quattordici anni dalla scomparsa è
ricordato tanto.
Sì.
Però non abbastanza. Nella triste classifica dei cantautori in
attesa di riscoperta definitiva, se la gioca al ballottaggio con Ivan
Graziani.
Benché
fermamente agnostico, Bertoli aveva un' idea "sacra" del
cantautore, in qualche modo paragonabile a quella di Fabrizio De
André, uno dei pochi - non a caso - che diceva di stimare davvero. È
Dieci, in questo libro-intervista, a ricordare la sua concezione di
artista: "Per lui il cantautore, etichetta di moda all' epoca, o
era davvero impegnato sulla carne viva della società o tale non era.
Nella sua filosofia, il cantautore era l' antenna di una comunità.
Aveva l' obbligo di percepire il cambiamento, anticipandolo. Poi l'
interpretazione del mutamento era libera, ma o ti buttavi nella
mischia o non gli interessavi".
Ovvio
che, partendo da questa visione così rigida (e così utopica), di
colleghi ne salvasse pochi. Attenzione però a immaginarlo altero: si
concedeva parecchio, anzitutto agli artisti in cerca di gloria (o
anche solo di una strada). Su tutti Ligabue.
Non
appena lo ascoltò, quando lo conoscevano solo a Correggio, si
impuntò fino a quando non lo condusse al successo. Andò proprio in
fissa, direbbe il Liga. Lo ha scoperto a tutti gli effetti lui.
Si
è parlato di una successiva ingratitudine di Ligabue, ma Dieci un
po' glissa e un po' - soprattutto - ricorda come il rocker volesse
cantare un brano proprio con Bertoli nel 2000: "Luciano aveva da
poco perso il padre. Come tutti elaborava il lutto riflettendo sul
senso della vita, lo scorrere del tempo, la malinconia che ci assale
quando ci rendiamo conto di essere esposti a mutamenti che non
possiamo contrastare. E stava preparando una canzone da incidere
insieme a Bertoli. (…) Si sentirono al telefono e fu un dialogo
molto intenso, sincero. Il brano si intitola Le cose cambiano, il
progetto andò avanti ma poi Angelo si ammalò e non ci fu più il
tempo. Comunque Le cose cambiano è stata poi incisa da Alberto, il
figlio di Angelo". Dieci racconta un sacco di cose, e chissà
quante altre potrebbe raccontarne.
Gli
inizi a Milano, la militanza nella sinistra extraparlamentare, l'
esperienza tutta sassolese di Roca Blues. La perfezione di Eppure
soffia, che colpì sin dall' inizio Adriano Celentano. Il Molleggiato
voleva cantarla, attratto anche dalla matrice ecologista ante
litteram del brano, ma poi cambiò idea perché voleva essere il
primo a farlo e non limitarsi a una cover. E invece Pierangelo l'
aveva già incisa. Nel libro c' è anche Francesco Guccini, che volle
Bertoli e i suoi musicisti come apripista per un concerto nel 1977.
Ed ecco poi l' aneddoto prodigioso di Vasco, che aprì a sua volta
un' esibizione di Bertoli: "Eravamo verso la fine degli anni
Settanta e Rossi aveva ottenuto la prima notorietà con Albachiara.
Noi eravamo in tour, dovevamo esibirci a Lido di Spina e il gruppo
che cantava prima di noi era quello di Vasco". Altri tempi,
quando i cantautori erano percepiti come profeti. Poi il riflusso
degli Ottanta. Tutto si fece più complicato. Bertoli capì subito
che Il pescatore era una canzone molto forte, anche se il famoso
duetto con Fiorella Mannoia avvenne a distanza: la seconda registrò
la sua parte senza neanche incontrare Bertoli.
Soltanto
dopo sarebbero diventati amici. Per quelle strane curve del destino,
Bertoli avrebbe trovato la consacrazione nazionale nel contesto a lui
più distante, ovvero Sanremo. Eppure, e giustamente, Spunta la luna
dal monte resta uno dei suoi brani più celebri.
Bertoli
ha avuto molteplici intuizioni, non tutte così note e riconosciute.
Ha per esempio puntato sulla forza del dialetto ben prima che De
André ne intuisse la portata con Creuza de mà. E ha anche
anticipato Tangentopoli con Italia d' oro, portata pure quella a
Sanremo.
Aveva
poi una voce incredibile. Dieci ricorda: "Alfredo Cerruti, che
era il manager della CGD quando Angelo incideva per loro, insisteva
sempre: ma perché non canti brani d' amore? Tra l' altro Angelo
sapeva farlo magnificamente, pensa a Per dirti t' amo, un classico
del suo repertorio più antico. Lui commentò la richiesta così:
certo che mi vogliono per pezzi sentimentali, in un paese dove è
andato primo in classifica Alan Sorrenti con Tu sei l' unica donna
per me, con quel suo timbro di voce!".
Bertoli
ha scritto anche un inno della Juventus, rimasto però
semiclandestino. Nel 1982 doveva volare a Nashville. Un' idea di
Caterina Caselli, tra i primi a credere in lui: "La CGD aveva un
contatto con gli ambienti di quella mitica città e Angelo era
affascinato dalle suggestioni, era eccitato da una esperienza che
avrebbe portato lui, cantante dell' Emilia profonda, alle radici del
country, che tanto avevano influenzato straordinari artisti
americani". Non se ne fece nulla.
Marco
Dieci, che ora suona spesso con Alberto, il figlio di Pierangelo,
ripensa a fine libro a quella amicizia: "Angelo aveva una
matrice molto sassolese, possedeva una schiettezza che talvolta
sconfinava nella ruvidezza. Ma
era sincero, non nascondeva nulla". Dalle sue canzoni si capiva.
Si capisce ancora. (Il Fatto Quotidano)
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