Dal bandito Giuliano alla stagione delle stragi, gli ambigui rapporti tra mafia e servizi segreti

L'analisi | 19 aprile 2023
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"Cosa nostra non prende ordini da nessuno" Era l'allora procuratore di Caltanissetta Sergio Lari a sostenerlo quando qualcuno avanzava l'ipotesi che dietro le stragi del 1992 vi fossero i servizi segreti. Ma Lari aggiungeva anche che "Ci possono essere fatti e accadimenti che hanno punti di interesse comuni tra soggetti estranei e l'organizzazione mafiosa". Le parole dell'ex procuratore sono state sottoscritte nei giorni scorsi nelle motivazioni della sentenza che vedeva imputati tre funzionari di polizia accusati di avere depistato le indagini sull'eccidio di via D'Amelio. I giudici scrivono di un intervento "invasivo, tempestivo ed efficace" da parte di soggetti esterni a Cosa nostra che avevano "l'obiettivo di alterare il quadro delle investigazioni ed evitare che si potesse indagare anche su matrici non mafiose della strage e svelare quindi il loro coinvolgimento". I giudici nisseni chiariscono inoltre che i servizi segreti non avrebbero potuto partecipare alle indagini sulla strage, ma così non sarebbe stato. Ne sarebbe stato a conoscenza lo stesso procuratore Giovanni Tinebra che nel luglio del 1992 prese in mano le redini della procura nissena e i vertici dei servizi di sicurezza.

E rimane ancora un mistero, nonostante la testimonianza di due poliziotti, la presenza degli agenti dei servizi segreti nell'immediatezza della strage presenti in via D'Amelio. I due poliziotti hanno sostenuto che quattro o 5 persone in giacca e cravatta si aggiravano tra i rottami delle auto distrutte e i corpi martoriati delle vittime. E strano, però, pensare che agenti dei servizi si siano presentati quasi in "divisa" (giacca e cravatta) sul luogo dell'eccidio, ma non è strano pensare che ci fosse un loro cointeressamento.

Cosa nostra, certe componenti dei servizi segreti e destra eversiva hanno da sempre viaggiato a braccetto. Lo hanno testimoniato diversi collaboratori di giustizia ma anche boss di prima grandezza.

La partecipazione della mafia ad alcune delle vicende tragiche e ancora

oscure che hanno scosso da sempre gli equilibri interni del nostro Paese è stata tale da

indurre alcuni studiosi tra cui Emanuele Macaluso a definirla come una sorta di gladio

siciliana. Il suo iniziale "ingaggio", se così si può definire, da parte dei servizi segreti,

con lo sbarco, la gestione del territorio e la risoluzione del problema Giuliano diviene, nel

corso degli anni, con il rafforzamento economico, militare e politico della mafia una

collaborazione la cui reale dimensione verrà poi disvelata dalle dichiarazioni dei pentiti.

Tommaso Buscetta, il primo a spalancare al giudice Giovanni Falcone le porte di Cosa

nostra, spiegò, e all’inizio con non poca riluttanza, che durante uno dei suoi viaggi tra gli

Stati Uniti e l’Italia, fece tappa in Svizzera per sentire in cosa consisteva l’offerta fatta a

Cosa nostra dal principe nero Junio Valerio Borghese perché la mafia partecipasse al

tentativo golpista previsto per la fine degli anni Settanta. A confermare le sue

dichiarazioni anche Antonino Calderone, uomo d’onore della famiglia di Catania:

"Mentre Liggio si nascondeva a Catania ricevette la visita di due capi di Cosa nostra,

Salvatore Greco "chicchiteddu" e Tommaso Buscetta che dovevano discutere con lui di

una questione di notevole importanza: la partecipazione della mafia al cosiddetto Golpe

Borghese del 1970".

Il progetto di occupazione dei vertici dello Stato ideato da Borghese sarebbe dovuto

scattare la notte dell’8 dicembre 1970 ma, per motivi mai pienamente chiariti, fu bloccato all’ultimo momento. Sempre tramite i collaboratori di giustizia sappiamo che sebbene

alla fine Cosa nostra decise di non prendere parte al progetto golpista risulta invece

coinvolta nella "morte bianca" del giornalista Mauro De Mauro scomparso nel nulla la

notte del 16 settembre 1970, probabilmente perché, data la sua passata vicinanza alla

Decima Mas, era a conoscenza del progetto.

A riferire del coinvolgimento di Cosa nostra nella cosiddetta strategia della tensione

degli anni Settanta è ancora Buscetta quando spiega alla commissione parlamentare

antimafia che Cosa nostra fece esplodere molte bombe in Sicilia in quegli anni perché:

"dovevamo scassare la credibilità dello stato italiano". Antonino Calderone, si legge nella

sentenza di condanna al processo d’appello per la strage del rapido 904, è ancora più

esaustivo sul punto: "… come ho già riferito, negli inizi del 1970 o meglio fine 1969

Cosa nostra programmò una serie di attentati che dovevano essere eseguiti con ordigni

esplosivi da collocare in varie città come Palermo, Catania ed Enna. Io stesso vidi uno di questi ordigni che era ad orologeria. Questo programma, che prevedeva anche attentati a

persone appartenenti a varie categorie, era volto a creare "bordello"’e cioè marasma,

confusione, in modo che il governo non si potesse orientare sulla provenienza delle varie

azioni e non pensasse soltanto alla mafia. Incaricato di sovrintendere agli attentati

dinamitardi era Francesco Madonia di Resuttana".

Sempre Buscetta spiega che nel 1974 mentre si trovava in carcere gli fecero sapere che

era in programma un altro golpe: "Ho ricevuto dal mio direttore del carcere, dott. De

Cesare, la notizia che dopo pochi giorni sarebbe successo un colpo di Stato, e che io sarei

passato, attraverso un brigadiere della matricola, per un cunicolo, sarei entrato in casa sua

e sarei stato liberato".

Quando quattro anni più tardi venne sequestrato Aldo Moro, Buscetta, che era ancora in

carcere venne contattato da un uomo legato a Frank Coppola e a quanto pare ai servizi

segreti italiani affinché Cosa Nostra si interessasse per la sua liberazione, ma non agì in

nessun modo poiché comprese che non vi era interesse a liberare lo statista.

Sul finire del 1979 racconta ancora il pentito dai mille segreti che rivelò, e probabilmente

in parte, solo dopo la morte del giudice Falcone, che una non meglio precisata entità

avrebbe chiesto a Cosa Nostra di uccidere il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Una

dichiarazione che ha trovato una conferma formidabile solo di recente quando intercettato

dalle cimici poste nel suo salotto il capo del mandamento palermitano di Brancaccio, uno

dei più potenti, Giuseppe Guttadauro ha commentato con Salvatore Aragona, altro

mafioso: "Salvatore…ma tu partici dall’ottantadue, invece… ma chi cazzo se ne fotteva

di ammazzare a Dalla Chiesa… andiamo parliamo chiaro…". "E che perché glielo

dovevamo fare qua questo favore…".

Rivelazione inquietante che riapre ancora una volta la questione dei mandanti esterni che

chiesero, seppur in convergenza di interessi con Cosa Nostra, l’esecuzione del generale,

della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo. La verità

giudiziaria che ha condannato all’ergastolo gli esecutori tra cui Nino Madonia, Calogero

Ganci, diventato poi collaboratore di giustizia, ha infatti lasciato irrisolti i tantissimi

quesiti sui reali moventi dell’eccidio. Se da una parte infatti il generale, in soli cento

giorni a Palermo, aveva già dato un assaggio di quella che sarebbe stata la sua politica

antimafia a tutti i livelli: politico, sociale e militare, Cosa Nostra aveva in questo senso

solo un interesse preventivo nei confronti del suo operato. Molti invece erano i segreti a

conoscenza del generale dopo anni di onorato servizio dell’Arma per avere partecipato

alle indagini sulle Br ed essere stato a conoscenza dei tanti retroscena del sequestro

Moro.

La stessa dinamica dell’agguato presenta anomalie che suggeriscono una responsabilità

solo parziale della mafia. A comporre il gruppo di fuoco quel giorno uomini d’onore di

primissimo piano tra cui Pino Greco Scarpa, della famiglia di Brancaccio e fedelissimo di

Riina, e Antonino Madonia reggente, assieme al fratello Salvo, dell’antico ed influente

mandamento di Resuttana. Racconta il Ganci che Pino Greco era a bordo di una moto,

mentre egli stesso e Madonia seguivano l’A112 del generale a bordo di un’auto. Mentre il

Greco cominciava a sparare contro l’Alfetta dell’agente di custodia, la macchina con a

bordo Madonia la superò per affiancarsi a quella del generale. Il killer, abbassato il

finestrino, girato, appoggiato con le spalle contro il cruscotto e le ginocchia sul sedile,

aveva aperto il fuoco contro le due vittime. Pino Greco, sopraggiunto qualche minuto più

tardi, aveva infierito contro l’auto del generale ormai ferma. Al termine dell’operazione –

prosegue il collaboratore - tra i due boss si era scatenata una violenta discussione. Greco

accusava Madonia di aver colpito per primo il generale, levandogli così "la medaglia",

ma soprattutto di averlo messo in pericolo rischiando di raggiungerlo con una scarica di

proiettili. Effettivamente il comportamento del Madonia era stato alquanto imprudente

Sono stati i pentiti Francesco Di Carlo e Francesco Onorato a raccontare alcuni episodi. I due hanno sostenuto che nella notte del 31 dicembre del 1970 a Palermo furono piazzate diverse bombe: contro l'assessorato regionale Agricoltura e Foreste, in piazza Pretoria davanti al Municipio, in viale del Fante nei pressi dell'Ente minerario siciliano e in piazza Ziino, dove c'erano gli uffici regionali al Lavoro e alla Sanità.

"Quelle bombe - hanno affermato i due collaboratori - sono state collocate dalla famiglia Madonia per fare un favore ai servizi segreti". Furono alcuni passanti ad accorgersi degli ordigni e ad informare polizia e carabinieri. Intervennero gli artificieri che disinnescarono gli ordigni. All'epoca gli investigatori affermarono che "era stata la stessa mano a confezionarli e conseguentemente a piazzarli nei pressi degli uffici pubblici".

Gli ordigni esplosivi erano candelotti di nitrex infilati dentro scatole di scarpe e con i detonatori collegati ad un orologio-sveglia.

E' stato Francesco Di Carlo, in linea con quanto dichiarato da Onorato, a dare maggiori chiarimenti sui legami tra Cosa nostra e servizi segreti. "La mia mente rimonta ad alcuni episodi verificatisi nel 1970, allorquando Francesco ed Antonino Madonia vennero arrestati in relazioni ad attività intimidatorie da loro compiute nei confronti dell'edificio che ospitava l'assessorato all'Agricoltura e Foreste, un altro ente pubblico e altra struttura vicina al Motel Agip. Si è trattato di attività minatoria che a mio avviso non era in linea con gli interessi di Cosa nostra, dal momento che in quelle strutture colpite lavoravano persone vicine all'organizzazione, erano alti funzionari a disposizione dell'organizzazione. Ebbi modo di commentare l'accaduto con Bernardo Brusca e con Antonino Salamone, i quali a mia richiesta mi dissero che il triumvirato costituito da Gaetano Badalamenti, Stefano Bontade e da Salvatore Riina, quest'ultimo in sostituzione di Luciano Liggio che a quell'epoca si trovava con frequenza fuori da Palermo, aveva dovuto dare l'autorizzazione all'esecuzione della attività minatoria, che attraverso quei delitti si volevano perseguire scopi di depistaggio e di aumento della tensione. E che erano stati incaricati, per l'esecuzione, i Madonia. Preciso che i Madonia erano realmente colpevoli dei fatti ed io mi attivai per contattare il magistrato che si occupava del procedimento. La mia attività raggiunse lo scopo, tanto è vero che i due vennero prosciolti in istruttoria.

Giovanni Falcone parlò di "menti raffinatissime" sul fallito attentato all'Addaura, quando nelle vicinanze della villa che il giudice aveva affittato per trascorrere il periodo estivo vennero scoperti 58 candelotti di dinamite. Le indagini della procura nissena vennero indirizzate, purtroppo senza successo ma con ancora tanti dubbi, su quelle "menti raffinatissime" di cui parlò Falcone nell'immediatezza del fallito attentato. Dalle pieghe di quell'indagine venne fuori un racconto choc del pentito Francesco Onorato: dopo che l'attentato all'Addaura fallì, Salvatore Biondino (il boss che venne arrestato il 15 gennaio del 1993 assieme a Salvatore Riina) non rinunciò al progetto di eliminare Giovanni Falcone. "Biondino non voleva fermarsi - ha sostenuto il collaboratore - e siccome le misure di sicurezza erano state aumentate e Falcone era molto più guardingo pensò di utilizzare un kamikaze. Doveva essere il figlio di un uomo d'onore della famiglia di San Lorenzo, affetto da un male incurabile, ad introdursi all'interno del palazzo di Giustizia di Palermo imbottito di esplosivo. Il giovane si offrì spontaneamente, ma poi il piano fu rinviato". Semprre Onorato sostenne che esistevano altri mandanti oltre a Cosa nostra. "Io - ha spiegato Onorato ai magistrati - mostrai le mie perplessità sulla decisione di uccidere Falcone. Affermai che potevano esserci pesanti contraccolpi contro Cosa nostra, ma Biondino mi rispose di stare tranquilli perché avevamo le "spalle coperte". Un'assicurazione che arrivava da elementi esterni all'organizzazione. Biondino - specificato Onorato - aggiunse "non ti preoccupare...le spalle le abbiamo ben coperte. Non è che siamo solo noi , che noi...non siamo.... non semu sulu nuatri chi vulemu moito a Falcone ci sono anche altre persone che ni commug...aviamu i spaddri belli cummigghiati".

Francesco Onorato si è anche soffermato sul presunto ruolo avuto da Emanuele Piazza, il poliziotto legato ai servizi segreti assassinato nel 1990 in circostanze mai del tutto chiarite. "Quando Salvatore Biondino mi dice che dobbiamo prendere a Piazza per affogarlo...io e pensavo...ho pensato, ho pensato che allora...allora il discorso....poteva anche essere il collegamento che avevano fatto tra Emanuele Piazza e la bomba. Invece quando io porto Emanuele Piazza per affogarlo e lo abbiamo affocato a Capaci assieme a Salvatore Biondino, Salvatore Biondino mi aveva detto che era il discorso che cercava i latitanti....cercava latitanti e che aveva lui ordina .... e l'aveva lui e a lui gli avevano detto di altre persone delle istituzioni, che questo era pericoloso, che questa persona era pericolosa".

La presenza dei servizi segreti aleggia su tutte le stragi compiute in Italia. Su quelle del '92 e del '93 a Palermo, Roma, Milano e Firenze forse con più forza rispetto alle altre. Si parla si servizi segreti deviati, ma deviati da cosa? Due sono le conclusioni a cui si può giungere non avendo la prova provata del loro coinvolgimento: o che sono servizi segreti incapaci o che sono collusi e quindi di grande potere.

Giovanni Falcone aveva cercato di togliere quel sipario che divide il dubbio dalla verità, ma le "menti raffinatissime" non gli hanno lasciato il tempo di portare a compimento il suo lavoro. Uno scenario definito con puntigliosa precisione dell'ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, quando afferma che si tratta di un potere che non si vede, che non si sente, che non si tocca, ma di cui abbiamo tutti sicura percezione.

 di Giuseppe Martorana

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