Bernardo Provenzano, il boss traghettatore che cambiò la mafia

Società | 13 luglio 2016
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 Agli uomini che dopo un’indagine lunga e metodica lo stanarono in una masseria di Montagna dei cavalli, nelle campagne di Corleone, la mattina dell’11 aprile 2006 si presentò un uomo minuto e dimesso. Il fantasma di Bernardo Provenzano si materializzava dopo 43 anni di latitanza. E subito colpì il contrasto tra il mito di un boss astuto e sanguinario, che da tempo lo inseguiva, e la vita spartana di una persona all’antica che apprezzava ricotta e cicoria.
 Lo circondava la fama del capo inafferrabile che aveva eretto attorno a sé una barriera invalicabile. Sospettava di tutto e di tutti. Raccomandava agli amici di parlare a bassa voce e di controllare la presenza di «cimici» e telecamere nascoste. Mandava i suoi ordini con i celebri «pizzini» codificati e vergati, in una lingua approssimativa ma molto espressiva, con l'inseparabile macchina per scrivere. In quei foglietti era rappresentato tutto il mondo di Provenzano, quello che il pentito Angelo Siino ha descritto come un «sistema» di imprese, appalti, affari, soldi riciclati nei canali dell’economia legale. E sullo sfondo una rete di relazioni e mediazioni con la politica.
 Il vero ruolo di Provenzano era stato già ricostruito da decine di collaboratori ma molti tratti della sua carriera criminale sono rimasti sempre in ombra. Il fatto certo è che era arrivato ai vertici della holding mafiosa imponendosi nelle file della cosca di Corleone e crescendo con l’amico d’infanzia Totò Riina all’ombra di Luciano Liggio. Per la determinazione con cui si muoveva si era guadagnato l’appellativo di «Binnu u tratturi». Sparava, secondo Liggio, «come un Dio» pur avendo un "cervello di gallina». Per questo veniva utilizzato soprattutto per le operazioni più sanguinose. Da questa strada era arrivato in alto nel sistema di comando di Cosa nostra. Al fianco di Riina, da tutti consacrato come «capo dei capi», gli era toccata la parte del secondo. E nella stagione delle stragi quella di comprimario. All’esterno la sua lealtà cementava l’immagine di compattezza di Cosa nostra. «Riina e Provenzano sono la stessa cosa» si diceva. In realtà esprimevano due diverse visioni del governo mafioso: irruento e sbrigativo Riina, accorto e riflessivo Provenzano.
 Quest’anima «moderata» poté emergere solo dopo l’arresto di don Totò, il 15 gennaio 1993. Era il colpo più duro per la mafia giunto al culmine di una controffensiva dello Stato innescata dalle inchieste di Falcone e Borsellino e consolidata dalle condanne del maxiprocesso. La mafia aveva reagito scatenando l'offensiva stragista del 1992-93. Ma, come diceva Riina, "faceva la guerra per potere fare la pace». Toccò a Provenzano gestire questa fase dello scontro. E fu lui a correggere l'originaria strategia del terrore. Indossò i panni del "traghettatore», fermò gli attacchi, fece tacere le armi. La tecnica della «sommersione» serviva a cogliere due obiettivi: consentire alla mafia di tornare ai suoi affari tradizionali e aprire una «trattativa» con lo Stato anche a costo di "consegnare» Riina, come lo stesso boss era propenso a sospettare durante le sue confidenze in carcere intercettate.
 Nelle mani di Provenzano l’organizzazione cambiò pelle relegando in secondo piano la sua forza militare per dare spazio alla cooptazione di fiancheggiatori e professionisti insospettabili e ampi settori della politica. Le inchieste hanno messo a fuoco questa rete di interessi, che spaziano dalle opere pubbliche alla sanità, e si sono concluse con numerose condanne. Tra i «prestanome» di Provenzano c'era anche il «re» della sanità privata, Michele Aiello.
 Il sistema di relazioni del boss è da tempo messo a fuoco in varie indagini ancora aperte. Un filone è quello che ipotizza "coperture» anche negli apparati investigativi. A lui faceva capo una rete di «talpe» alla Procura di Palermo. E il generale del Ros Mario Mori è finito sotto processo, ma poi assolto con il suo braccio destro Giuseppe De Donno, con l’accusa di avere protetto la latitanza di Provenzano.
 Il boss corleonese era certamente depositario di tanti segreti che si porta nella tomba. I magistrati hanno tentato di stimolare i suoi ricordi. Fedele alla sua storia, Provenzano si è presentato come un vecchio confuso e smemorato. E in effetti alla perdita di potere dopo l’arresto si è aggiunto il lento declino fisico culminato ora con la morte.
 La sua uscita di scena consegna ora il testimone della continuità a Matteo Messina Denaro, con il quale scambiava messaggi e «pizzini», che della mafia interpreta la versione più moderna e più spregiudicata.


Dalla caduta in cella alla guerra di perizie sul suo stato di salute

 Il declino del vecchio padrino comincia il 12 maggio del 2012, quando le videocamere del supercarcere di Parma lo riprendono, nella sua cella, con un sacchetto in testa. Un tentativo di suicidio? Ne dubitano i suoi legali per cui l’episodio è uno dei primi segnali della malattia neurodegenerativa da cui Bernardo Provenzano, boss corleonese morto oggi a 83 anni, non si riprenderà mai.
 E una «prova» che il capomafia non è più quello d’un tempo è anche l’audio dell’interrogatorio che, dopo qualche giorno, gli allora pm Antonio Ingroia e Ignazio De Francisci vanno a fargli in carcere per «sondare» eventuali intenzioni di collaborazione con la giustizia. Parole sconnesse e difficoltà a rispondere. Provenzano farfuglia e confonde presente e passato. Per alcuni finge, per altri manifesta sintomi di una patologia che galoppa.
 Poi c'è la caduta in carcere, a Parma, a dicembre del 2012. Il padrino riporta un ematoma al cervello, entra in coma e viene operato. Si salva ma non si riprende più. I figli Angelo e Francesco Paolo e la moglie Saveria Palazzolo lo incontrano. Lui è sempre al 41 bis: regime che non gli verrà mai tolto. Le immagini girate nella sala colloqui dell’istituto di pena lo riprendono con un berretto in testa. Fatica a tenere in mano la cornetta del citofono interno, stenta a riconoscere i familiari.
 Da allora lo visitano decine di medici. Consulenti di parte nominati dai legali che chiedono la revoca del regime carcerario duro, periti dei giudici. Imputato nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, viene dal gip dichiarato non in grado di partecipare coscientemente al processo. La sua posizione viene stralciata e periodicamente il boss è sottoposto a nuove visite.
 Una infinita serie di referti finiscono agli atti processuali. Nel procedimento sulla trattativa, in cui ogni sei mesi il gip deve pronunciarsi sulle condizioni del boss, e nei procedimenti sollecitati dai legali di Provenzano, che chiedono, prima la revoca del carcere duro, poi, ai vari tribunali di sorveglianza competenti - da Parma nel frattempo è stato trasferito a Milano - la sospensione della pena.
 Consulenti e periti, salva qualche eccezione, sono netti: il capomafia è gravissimo. Le patologie di cui soffre sono «plurime e gravi di tipo invalidante": dal grave decadimento cognitivo - il boss non parla più da anni - ai problemi dei movimenti involontari, all’ipertensione arteriosa, a una infezione cronica del fegato, oltre alle conseguenze degli interventi subiti per lo svuotamento dell’ematoma da trauma cranico,per l’asportazione della tiroide e per il tumore alla prostata.
 I giudici gli nominano un curatore speciale: è il figlio Angelo, a cui verranno notificati gli atti vista l’incapacità mentale del padre. «Come può parlarsi di pericolosità e della possibilità che mandi messaggi all’esterno se non parla più?», ripetono gli avvocati nelle istanze in cui sostengono che sono venuti meno i requisiti per l’applicazione del 41 bis. Ma la risposta è sempre la stessa.
 Anche se la Cassazione, tra gli ultimi a pronunciarsi, non parla più di pericolosità. E, nel confermare la decisione del Tribunale di sorveglianza di Milano che rigetta una delle richieste di differimento pena, parla della necessità di tutelare in modo adeguato il diritto alla salute del detenuto. In pratica, sostengono i giudici, in carcere Provenzano viene curato meglio, spostarlo altrove sarebbe più dannoso.



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